Tazi-Preve in Contro la maternità patriarcale critica il concetto di maternità elaborato dai padri.
Questo saggio mostra come gli uomini abbiano trasformato la maternità svuotandola del suo vero significato e facendo sparire la figura della madre compiendo un “matricidio storico”.
La verità è che questo omicidio può essere compiuto solo in modo simbolico perché gli uomini della madre non possono fare a meno. Non solo perché da lei vengono generati ma perché l’equilibrio della società intera si regge sul suo incondizionato donare.
Eppure sebbene la società si regga sul suo contributo la madre scompare dietro le mura domestiche, isolata e privata di parola.
Ma noi per riprenderci la nostra maternità e la nostra capacità generativa cosa possiamo fare?
Leggine un estratto…
“Secondo la mia tesi, l’odierno concetto di maternità,
che io chiamo “maternità patriarcale” (Tazi-
Preve 2013), si basa sul matricidio storico (Tazi-
Preve 1992), che possiamo rinvenire nel mito,
nella psicologia, nella scienza, nella medicina,
nella legge, nella politica, nella filosofia e nella
religione.
La madre è ancora viva fisicamente, essendo
necessaria come fattrice, nutrice e lavoratrice,
ma i vincoli e le coercizioni a cui è sottoposta
sono il risultato di una violenta trasformazione;
peraltro, la seconda ondata del movimento
delle donne non è riuscita ad apportare alcun
mutamento sostanziale.
Per comprendere come
mai la “questione femminile” non sia stata risolta,
ma anzi stia peggiorando, è necessario sviluppare
quanto prima nuovi strumenti analitici.
La maggior parte delle ricerche accademiche
non indaga in modo critico e appropriato. Il
modo in cui la ricerca sulla maternità è svolta
nell’ambito delle scienze sociali, principalmente in sociologia, scienze politiche e psicologia, riferisce
di un destino di madri vincolato alle premesse
economiche della vita familiare e della forza
lavoro (Rille-Pfeiffer e Kapella 2007), o del loro
stato psicologico (Klepp 2003) durante la gravidanza,
dopo la nascita e nella crescita della prole.
L’approccio è descrittivo, segue l’ottica di
un’unica disciplina ed è apolitico.
L’intero quadro
delle numerose coercizioni a cui le madri sono
sottoposte (che io definisco violente) è del
tutto trascurato. Johan Galtung (1988) ha mostrato
che la violenza non si manifesta soltanto in
forma fisica diretta, ma anche a livello strutturale
e culturale.
L’assenza di risposte appropriate negli studi
femministi e nelle teorizzazioni politiche ha portato
la cosiddetta Scuola di Innsbruck a sviluppare la Teoria critica del patriarcato.
Si tratta di
un approccio che presenta una meta-teoria sistemica
interdisciplinare (von Werlhof 2013, Projektgruppe
2009), ma è molto più di questo. È
una concezione epistemologica meta-teorica della
civiltà in tutte le sue dimensioni. Attraverso i
suoi strumenti appare chiaro come lo scopo finale
della politica, dell’economia e della società sia
la costante distruzione della natura e degli esseri
umani volta a una loro ri-creazione artificiale
ipoteticamente migliore. Si spiega inoltre come
l’idea delirante di un mondo in apparenza migliore
possa essere sviluppata solo a partire da «lo
shock e il terrore reverenziale» (Klein 2008).
La parola chiave è “patriarcato”, termine usato
all’inizio della seconda ondata del movimento
femminista per indicare un sistema globale di
dominazione delle donne. La Teoria critica del
patriarcato parte da un approccio etimologico e
mostra come il termine provenga dal latino pater
e dal greco árche, che ha diversi significati: può
indicare il dominio, ma anche l’inizio (Gemoll
1965). È il padre che vuole prendere il posto della
madre come origine e creatore, obiettivo che
viene perseguito a livello materiale, ma anche
simbolico e mitologico, come nel mito di Zeus
che “fa nascere” la figlia Atena dalla propria testa.
Ciò che la versione storicamente più recente del
mito nasconde è che, prima di questo presunto
parto, Zeus aveva ingoiato la dea Metis incinta
della loro figlia. Allora come oggi il patriarcato
dipende dall’assimilazione della potenza materna
per poter imitare la creazione della vita.
Il modo in cui la maternità è attualmente concepita
si basa su due tendenze principali. Una è
la direzione verso cui stanno virando le teorie e le
pratiche femministe. Quello che è successo nelle
ultime decadi è che l’approccio di Michael Foucault
e la sua teoria critica della modernità sono
stati applicati alla teoria femminista e hanno
spodestato l’approccio femminista alle scienze sociali.
Judith Butler (2013) e altri hanno sviluppato
la teoria della performatività di genere, negando
che ci sia alcunché di naturale nel corpo
femminile e rendendo così impossibile parlare di
donne in senso collettivo.
Questo concetto, ampiamente
accettato in ambito accademico, ha
provocato inoltre una svolta verso l’individualizzazione
del “problema femminile” e l’abbandono
di una prospettiva sistemica. In un mondo “neutrale
a livello di genere”, la possibilità di una
concezione collettiva delle donne svanisce e l’attivismo
politico contro l’ingiustizia e la violenza
strutturali diventa impossibile. Favorendo una
visione individualistica, l’“essere donna” è ridotto
a una questione di retorica e il femminismo perde
il suo potere trasformativo. Ci si può domandare
se fosse effettivamente questo lo scopo della
teoria di genere, quel che sappiamo per certo è
che tale approccio contribuisce al progetto patriarcale
dell’abolizione della madre.
Il discorso pratico politico è dominato dal
femminismo liberale e socialdemocratico, secondo
il quale è l’occupazione che assicura la libertà,
mentre la maternità è una questione personale; le
soluzioni proposte si concentrano principalmente
sulle strutture per una completa assistenza all’infanzia.
In secondo luogo, i concetti propri del
femminismo liberale sono alla base delle misure
di gender mainstreaming, come le leggi dell’Unione
Europea volte ad aumentare la ricchezza
dell’Unione includendo la capacità produttiva
delle donne come lavoratrici e madri.
In un’“empia alleanza” tra l’approccio liberale
e quello di genere, temi come l’intersezionalità e
la teoria dell’identità dominano sia il discorso accademico
sia quello politico.
I Women’s Studies
vengono sostituiti dai Gender Studies e negli ultimi
dieci anni anche dai più recenti Sexuality
Studies, che si concentrano sull’orientamento sessuale.
In questo modo l’attenzione della cultura e
della politica, e i soldi che l’accompagnano, si rivolge alla ricerca apolitica sulla “questione di genere”.
L’immagine della madre è anche fortemente
influenzata dalla nuova concezione di ciò che un
tempo s’intendeva con la parola economia (oikos
nomos), secondo l’originario significato greco di
fornire alle persone i beni necessari.
Oggi la dottrina
distruttiva del neoliberalismo, «in cui i governi
nazionali europei sono ora definiti come
nulla più che collettori di denaro per banche e
multinazionali» (von Werlhof 2011, p. 28), ha
portato alla “meccanizzazione” degli esseri umani
e dell’intero mondo animato (Genth 2002).
Ogni forma di vitalità è distrutta a favore di un
mondo trasformato in una “macchina da soldi”.
L’economia del mercato finanziario è basata sul
lavoro delle donne come procreatrici e prestatrici
di cure. Nel mondo neoliberista la madre è trasformata
in un ingranaggio della macchina-famiglia,
sradicando così la coesione sociale, la mutualità
e un’intera cultura di interazione sociale”.
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