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Recensione di “A Proposito di Elena” su Alley Oop – Il Sole 24 Ore

Il 13 giugno è stato pubblicato sul blog Alley Oop de Il Sole 24 Ore uno stimolante articolo che a partire da A Proposito di Elena di Giuseppina Norcia indaga il tema del binomio potere e bellezza nell’antichità. 

Potete leggere l’articolo cliccando qui sotto:

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Emily Dickinson. Vita d’Amore e Poesia – recensione sul Quotidiano del Sud

Il 22 aprile, sul Quotidiano del Sud, è uscita un’interessante recensione di Emily Dickinson. Vita d’Amore e Poesia di María-Milagros Rivera Garretas, scritta da Franca Fortunato.

Potete leggerla qui sotto:

Emily Dickinson – un tesoro fatto di parole

EMILY Dickinson è una delle più grandi poete dell’occidente, nata a Amherst in Massachusetts nel 1830. Di lei sono state scritte molte biografie, l’ultima “Emily Dickinson- Storia vera d’amore e poesia” della spagnola Marìa-Milagros Rivera Garrettas, storica, filosofa, saggista, docente all’università di Barcellona. Il libro da pochi giorni in libreria è stato tradotto in italiano da Luciana Tavernini e le poesie che contiene da Loredana Magazzeni. Milagros si accosta ad Emily con delicatezza e tenerezza, entra nelle sue poesie e svela a se stessa e a chi legge la vita, l’esperienza personale, la sofferenza, gli amori che Emily seppe “cantare” con creatività, attingendo a quel “tesoro” che sin da bambina sapeva di avere dentro di sé, “un tesoro fatto di parole” e dedicò “l’intera vita a coltivarlo a condividerlo con la sua famiglia e le sue amicizie. Forse sua madre, Emily Norcross, mentre le insegnava a parlare, si rese conto che lo possedeva e le insegnò ad apprezzarlo”. Un tesoro, “oro puro” da cui scaturirono le sue poesie che scrisse per tutta la vita, ne scrisse più di 1786 che alla sua morte lasciò “con qualche preoccupazione” alla sorella Lavinia. Da viva non volle pubblicare nulla, non cercava né gloria né fama, nonostante fossero conosciute e ammirate tra le sue amicizie. Milagros con pudore si accosta a lei, scende nell’intimo, nelle viscere, nel sentire nella carne e nello spirito di Emily, che lei affidò alla sua poesia narrandone l’“inferno” e il “paradiso”. Nel suo viaggio porta con sé una adolescente, una studentessa, a cui si rivolge con maestria amorevole per istruirla sulla poesia e sulla vita, l’una intrecciata all’altra, di Emily, stando in una genealogia madre figlia. È la madre che si rivolge alla figlia con sensibilità e tenerezza quando spiega alla giovane il grande dolore e sofferenza di Emily a cui “accadde una cosa totalmente orribile che a fatica si può raccontare. Già nell’infanzia le accadde di conoscere la sofferenza estrema. Subì ciò che di solito chiamiamo abusi sessuali e che ha un nome più concreto che è incesto (…). Sia suo padre, Edward, sia suo fratello, Austin, erano uomini violenti che non meritavano di far parte di una famiglia”. Le insegna come nel patriarcato “questi uomini sanno ingannarti e soprattutto sanno proibirti di parlare. Vorresti raccontarlo a tua madre, o alla tua maestra preferita, però hai terrore a parlare, e poi lui te lo ha proibito, inoltre non sai come si chiama ciò che ti è stato fatto e credi che la tua famiglia ne sarebbe distrutta”. Emily provò tutto questo. Anticipando le domande della ragazza sulla madre, su come fosse stato possibile che non si accorgesse di niente, le insegna a non colpevolizzarla, come accade molte volte ancora oggi, perché “capita a volte che nelle case si commettano delitti tanto gravi che non entrano nella testa di nessuna persona, neppure delle madri. Per questo, anche se la madre sospetta qualcosa sta succedendo, non può crederci e non agisce”. È la grande sofferenza dell’incesto, da cui non si lasciò pietrificare, che le lasciò aperta la porta della creatività, della vita e della felicità, lo fece uscire dal suo corpo creando un “vuoto e posto uno spazio tra sé e l’incesto”. Spazio che lei esprime con l’allegoria del bianco, simbolo della recuperata “purezza e del suo sentire immacolato originario, quello che aveva alla nascita”. Ad autorizzarla ad aprire ed attraversare quella porta fu la relazione con una donna, Susan H. Gilbert, sua compagna di studi, di cui parla in quasi tutte le sue poesie o a cui le dedica. Poesie che Susan leggeva, commentava e gliele rendeva con annotati i suoi suggerimenti. Rivolta alla sua giovane allieva, Milagros la istruisce sull’amore di Emily per Susan. “Nelle sue poesie troverai, quando le leggerai, descrizioni bellissime e originali della sessualità che è già mistica, e lo è perché non scandalizza. Nella poesia di Emily Dickinson c’è quasi tutto quello che si può desiderare sapere della sessualità femminile non orientata alla procreazione ma al piacere. Ma soprattutto senza espressioni crude, sgradevoli o amare ma con la massima bellezza e delicatezza”. Emily, convinta che non era possibile vivere con Susan, a un certo punto la convinse a sposare il fratello, Austin, e da allora per il resto della loro vita “sarebbero state separate solo da una siepe, un sentiero, uno scalino di lava e una porta socchiusa. E avrebbero potuto vedersi con moltissima frequenza”. Non dice perché proprio con il fratello incestuoso, ma fa intuire che tra i tre ci fu un accordo per un matrimonio in bianco. È quando il fratello ruppe l’accordo che Emily decise di cambiare vita, rinchiudersi liberamente in casa e dedicarsi alla poesia, all’amicizia, all’amore e ai fiori rari. Mostrò il cambiamento vestendosi da allora sempre di bianco e vedendo solo chi le interessava davvero. Morì il 15 maggio 1886 nella casa dove era nata e che non aveva mai lasciato. Da due anni era molto malata. Ogni qualvolta le sue poesie vengono tradotte, copiate, studiate, pubblicate, lette e ammirate lei resuscita e guadagna così l’immortalità che voleva. Un libro straordinario, unico nel suo genere questo di Milagros, che trabocca d’amore femminile per la madre, scritto per le donne ma da fare conoscere e leggere nelle scuole alle giovani generazioni di donne e uomini.

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Se la felicità… : recensione su Feministpost.it

Copertina Se la felicità...

Oggi su Feministpost.it è stata pubblicata un’interessante riflessione su Se la felicità… di Alessandra Bocchetti scritta da Marina Terragni.

“È il 21 marzo 1992. Alessandra Bocchetti, femminista fondatrice del Centro Culturale Virginia Woolf di Roma, chiama a confrontarsi due protagoniste e testimoni – ciascuna a modo proprio – di quel passaggio storico. Di fronte a una platea femminile gremita e attenta Christa Wolf, cittadina dell’ex DDR e autrice dell’amatissimo Cassandra, e la comunista Rossana Rossanda, impegnata a fare i conti con il fallimento del socialismo reale, progetto a cui Rossanda ha dedicato tutta la sua vita di intellettuale politica.”

da: Bocchetti, Rossanda, Wolf: Se la felicità… su Feministpost.it

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Elogio dei corpi delle donne: recensione su Il Fatto Quotidiano

Copertina elogio dei corpi delle donne

Oggi è stata pubblicata sul sito de Il Fatto Quotidiano un’interessante recensione attualizzante di Elogio dei corpi delle donne di Gloria Steinem scritta da Deborah Ardilli, storica del femminismo e curatrice del volume.

“Appartiene alla definizione stessa di donna all’interno di una società patriarcale l’esposizione a un destino di oggettivazione sessuale che, per compiersi, necessita di una manipolazione corporea adibita a rendere visibile e palpabile la differenza — ovvero, fuor di eufemismi, la gerarchia economica, politica e sociale — tra i sessi.”

da: Elogio dell’insubordinazione: Gloria Steinem e i corpi delle donne (40 anni dopo) di Deborah Ardilli su Il Fatto Quotidiano

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Sex work. Né sesso né lavoro – Recensione su Autogestione e politica prima. Vite all’opera nelle maglie della pandemia

24 febbraio 2021

Sul trimestrale Vite all’opera nelle maglie della pandemia di Autogestione e politica prima (N.1/2021 gennaio marzo 2021-anno XXIX) è uscita una bella recensione di Sex work. Né sesso né lavoro di Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini e Grazia Villa, scritta da Ana Mañeru Mendez.

Ve la inseriamo qui.

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A proposito di Elena – Recensione su Leggendaria

15 febbraio 2021

Sul numero di Leggendaria di gennaio è uscita una bella recensione di A proposito di Elena di Giuseppina Norcia, dal titolo “L’epica dei maschi, la tragedia delle donne. La Musa ci ripensa”, scritta da Anna Maria Crispino.

Ve la inseriamo qui.

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“Carne da macello” – Recensione su Satisfiction

Oggi, venerdì 18 dicembre, su Satisfaction è uscita una bella recensione di Carne da macello. La politica sessuale della carne di Carol J. Adams, scritta da Silvia Castellani.

“Scorrendo le pagine è subito evidente l’impegno dettato dalla rabbia per la società “ossessionata dalla carne” immaginando che scelte individuali responsabili possano tradursi in nuova cultura fondata sulla consapevolezza, dove sia possibile liberarsi da credenze limitanti e dannose.”

Per leggere l’intera recensione, clicca QUI.

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“Carne da macello” – Recensione su Culturalfemminile.com

Ieri, lunedì 14 dicembre, su Culturalfemminile.com è uscita un’interessante recensione di Carne da macello. La politica sessuale della carne di Carol J. Adams, dal titolo CARNE DA MACELLO, LA POLITICA SESSUALE DELLA CARNE. UNA TEORIA CRITICA FEMMINISTA VEGETARIANA – DI CAROL J. ADAMS, scritta da Veronica Sicari.

“In Carne da macello l’autrice rintraccia la matrice originaria che sta alla base della misoginia e della disparità di genere e del mangiar carne: il patriarcato.”

Per leggere l’intera recensione, clicca QUI.

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“A proposito di Elena” – recensione su Critica Letteraria.org

Domenica 25 ottobre 2020 su Critica Letteraria.org è uscita una bella recensione di “A proposito di Elena” dal titolo Se la bellezza perde (o salva?) l’uomo: “A proposito di Elena” di Giuseppina Norcia, di Carolina Pernigo.

Per leggere la recensione clicca qui.

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Afro-ismo – recensione su Ghinea

Sull’edizione di giugno di Ghinea è uscita una bella recensione di “Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero” firmata da Marco Reggio.

Eccone uno stralcio.

“Il pensiero antispecista vive nel nostro paese un certo fermento negli ultimi anni. Le parole d’ordine del “primo” antispecismo di matrice anglosassone (ma anche – occorre ricordarlo – bianca, maschile, cisgenere e accademica) si accompagnano a riflessioni che muovono da prospettive più ampie e, soprattutto, che dialogano serratamente con altri ambiti di lotta e di elaborazione teorica. Le prospettive foucaultiane in relazione all’ agency animale , la teoria critica seguente alla “svolta” suggerita da Derrida in relazione alla questione animale; gli intrecci con le teorie queer, esplorati interpellando sia la teoria della performatività di Judith Butler sia il versante anti-sociale del queer ), ma anche con altre “correnti” del femminismo, come l’ecofemminismo , l’opera di Carol J. Adams (da poco tradotta ) e l’etica del care. Senza contare il gran lavoro di traduzione, che spesso è sottorappresentato (forse anche perché è prevalentemente femminile), sui blog o a livello editoriale, che si è rivelato preziosissimo per far conoscere ai lettori/trici italian*, soprattutto militanti, alcune voci e alcuni momenti salienti dei dibattiti esteri (si veda il sito del collettivo Les Bitches ). In questo scenario, un ritardo certamente significativo è quello relativo alla messa a tema dell’intreccio tra questioni razziali e questione animale. Sebbene gli elementi non manchino, e sebbene una certa diffusione del metodo intersezionale abbia preparato il terreno per aprire una discussione su tale ambito, è stata fino ad oggi pressoché clamorosa la mancanza delle voci non bianche sulle teorie e le prassi antispeciste/animaliste. Inizia a colmare questo vuoto la traduzione di Aphro-ism. Essays on Pop Culture, Feminism, and Black Veganism from Two Sisters , di Aph e Syl Ko ( Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero , Vanda Edizioni, traduzione di feminoska, 2020), in uscita in questi giorni.

Le autrici, due sorelle afroamericane, hanno dato alla luce un libro per certi versi atipico, costruito a partire dall’omonimo blog, articolando una serie di riflessioni in forma non lineare, non accademica, militante nello spirito e nel linguaggio, ma al tempo stesso ben radicata nelle fondamenta delle riflessioni teoriche del campo dei Critical Animal Studies .
La prospettiva delle sorelle Ko è quella di chi si trova, in prima persona, a dover denunciare il biancocentrismo dell’animalismo mainstream, evidenziando gli aspetti escludenti di alcune parole d’ordine apparentemente neutrali dal punto di vista razziale (una su tutte: veganismo ), e il retaggio coloniale di molte pratiche di solidarietà interspecie. Al tempo stesso, però, si tratta di una postura che rivendica la piena considerazione dell’animalità nelle pratiche di decolonizzazione. Come sintetizza Breeze Harper nella prefazione all’edizione originale, “Afro-ismo mette in discussione la narrazione popolare secondo cui antispecismo, liberazione nera e antirazzismo siano incompatibili e causa di divisioni”. Tale prospettiva si radica nel rifiuto della favola del “post-razziale” e trova nel movimento Black Lives Matter un costante riferimento concreto, talvolta anche critico, per scardinare il mito del sapere oggettivo bianco in grado di elaborare una teoria a tutto tondo dello sfruttamento animale in cui sarebbe la buona coscienza dei privilegiati a traghettarci nell’eden vegano. Come emerge dalla pubblicistica che ruota intorno allo slogan go vegan , la liberazione dovrebbe materializzarsi come somma di atti di volontà individuale, generati da un’empatia indifferente agli assi della razza, del genere o della classe e, in definitiva, del tutto disincarnata.

In questo scenario, quella delle sorelle Ko è, sempre prendendo a prestito una fortunata espressione di Breeze Harper, “un’avventura di giustizia epistemica”. Non è solo la determinazione del soggetto nero escluso dal discorso animalista bianco a demolire il trasversalismo politico di chi, anche in Italia, afferma incessantemente che tutti “gli altri discorsi” non fanno altro che sottrarre energie alla liberazione animale; è anche la storia della razza e dell’animalità che, riscritta da un soggetto nero con gli strumenti decoloniali, mostra come sia semplicemente impossibile parlare di due elementi distinti. Le autrici illustrano infatti come razzializzazione e animalizzazione siano legate in modo molto più stretto di quanto lascino pensare gli stessi argomenti che da qualche anno iniziano a circolare in alcune nicchie antispeciste.”

Trovate l’intera recensione nell’edizione di giugno di Ghinea.

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Quanto ma soprattutto dove ci tocca la prostituzione?

È uscita sull’Osservatorio della Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, una bella recensione del nostro saggio “Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione” di Daniela Danna, Silvia Niccolai, Grazia Villa, Luciana Tavernini, firmata da Cristina Luzzi, Dottoranda in Giustizia costituzionale e diritti fondamentali nell’Università di Pisa.

Vi lasciamo il link diretto per scaricare il Pdf con l’articolo:
https://www.osservatorioaic.it/it/osservatorio/ultimi-contributi-pubblicati/cristina-luzzi/recensione-del-libro-di-daniela-danna-silvia-niccolai-grazia-villa-luciana-tavernini-ne-sesso-ne-lavoro-politiche-sulla-prostituzione-vanda-epublishing-2019 

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Il mito di Pretty Woman, la puttana felice


di Ida Paola Sozzani (LaCittàFutura, 13 gennaio 2019)


– Esce nelle librerie italiane il prossimo 15 Gennaio 2019 l’ultimo dossier-inchiesta sulla prostituzione realizzato dalla giornalista inglese Julie Bindel, nell’appassionata traduzione realizzata dalle attiviste italiane di Resistenza Femminista, pubblicata da Vanda-Morellini editore.

MILANO. Le moderne abolizioniste della prostituzione rivendicano la loro genealogia da Josephine Butler, che fu antesignana del femminismo e riformatrice sociale e figlia di John Grey, un avvocato antischiavista, e moglie di George Butler, accademico progressista. Nell’Inghilterra vittoriana rigidamente classista del 1860, dove le donne non avevano ancora il diritto di voto, la Butler fu la prima a denunciare l’abuso che le donne e in particolare le bambine delle classi sociali disagiate subivano nella prostituzione, denunciando le contraddizioni borghesi insite nella società Vittoriana che relegava le donne povere a inutile feccia sociale sfruttabile dai maschi e dai papponi. Josephine Butler fu tra quelli che forzarono il Parlamento inglese ad aumentare l’età del consenso matrimoniale delle ragazze dai 13 ai 16 anni, impedendo di fatto i matrimoni delle bambine.

A partire dal 1869 la Butler si impegnò per l’abrogazione del Contagious Diseases Act, una legge brutale che stigmatizzava le donne come causa del diffondersi delle malattie veneree in particolare fra i soldati e autorizzava ronde poliziesche nelle città militari allo scopo di imporre controlli sanitari e ricoveri coatti alle donne, contravvenendo così di fatto al principio giuridico dell’ “Habeas corpus”, sancito in Inghilterra fin dal 1679 con l’Habeas Corpus Act a tutela della sicurezza e inviolabilità di ogni persona.

La Butler non fu certo una moralista cristiana o una sessuofoba – come venne denigrata – né una salvatrice paternalistica delle donne, bensì una progressista convinta che la prostituzione violasse i diritti umani delle donne e mise per la prima volta in discussione il diritto degli uomini ad avere accesso garantito e indiscriminato al corpo di donne e minori finiti vittime della prostituzione.

Ne “Il mito Pretty Woman” – che nell’edizione originale in Inglese reca il titolo “The Pimping of Prostitution” – lo sfruttamento della prostituzione – l’autrice e giornalista britannica Julie Bindel sfata il mito della “Puttana Felice”, quella Pretty Woman che Cinema e Media ci hanno rivenduto dagli anni Ottanta, quando le potenti lobby pro-prostituzione dagli USA sono riuscite a far passare la narrazione tossica che nella prostituzione la donna eserciti la propria libertà e autodeterminazione sessuale o addirittura una scelta di lavoro. Bindel ci offre una panoramica della realtà della prostituzione oggi a livello mondiale, a fronte di una ricerca condotta personalmente in 40 diversi Paesi, città e Stati, dove ha incontrato e intervistato 250 persone coinvolte a vario ruolo nel problema: attivisti o sedicenti tali per i diritti delle “sex workers”, papponi, compratori di sesso, prostitute in attività e fuoriuscite dalla prostituzione, donne e uomini vittime di tratta, tenutari di bordelli e sfruttatori-affaristi che reinvestono i profitti milionari nelle grandi catene dei bordelli, attivisti contro l’AIDS foraggiati dal governo, giornalisti di varia nazionalità, lesbiche, gay, associazioni di bisessuali e transgender, agenti di polizia e femministe.

Julie Bindel negli ultimi anni ha visitato bordelli legali e regolamentati in Nevada negli USA, Australia, Germania e Olanda e zone “gestite” come a Zurigo, Amburgo o Leeds in Gran Bretagna, e si è recata nel poverissimo Downtown East Side di Vancouver dove centinaia di donne e ragazze native pellirosse vengono prostituite e uccise. Nel Gujarat indiano ha visitato un villaggio che sussiste grazie alla prostituzione di madri, mogli, sorelle e zie, a Istanbul è riuscita a intervistare uomini turchi in fila davanti a un bordello legale, mentre in Cambogia ha conosciuto le prostitute che vivono lungo una linea ferroviaria dismessa a Phnom Penh senza acqua e servizi igienici e su cui la Ong WNU lucra finanziamenti governativi presentando quelle sventurate come “Attiviste per i diritti delle sex workers”.

Nel suo libro Julie Bindel ripercorre la storia del movimento abolizionista contemporaneo, dai suoi esordi con il movimento internazionale WHISPER (Donne in rivolta che hanno subito violenza nel sistema prostituente), fondato nel 1985 negli USA da Evelina Giobbe e che riuniva donne sopravvissute e fuoriuscite dal sistema prostituente, per giungere fino all’attuale SPACE International (Attiviste internazionali provenienti da nove Paesi sopravvissute all’abuso della prostituzione che chiedono di illuminare l’opinione pubblica).

Evelina Giobbe fu la prima trent’anni fa a evidenziare le analogie esistenti nelle moderne società patriarcali occidentali tra l’atteggiamento tenuto dalla Destra e dalla Sinistra relativamente al diritto di accesso del maschio nei confronti del corpo femminile: entrambi gli schieramenti sono interessati a controllare e di conseguenza regolamentare sociologicamente e quindi politicamente l’accesso ai corpi delle donne. La destra lo fa attraverso l’istituto del matrimonio e la sua tutela, la sinistra attraverso le “deroghe” libertarie della prostituzione e della pornografia. “Insomma – ha confidato ancora recentemente Giobbe alla Bindel – puoi sposare oppure comprare questa cosa, e noi siamo questa cosa”.

Mettendone in luce le contraddizioni, in parallelo, nel libro Julie Bindel tratteggia anche lo sviluppo nel mondo anglosassone e americano della potente lobby pro-prostituzione, ai suoi esordi incarnato dal gruppo liberista COYOTE (Call Off Your Old Tired Ethics cioè “Basta con la vostra vecchia morale!”) fondato nel 1973 negli USA da Margo St. James; era stato preceduto da WHO (Whores, House Wives and Others – Puttane, Casalinghe e Altro). St. James era finanziata dalla Fondazione Point, legata alla Chiesa metodista Glide Memorial di San Francisco e ricevette mille dollari dalla Fondazione Playboy. Margo St. James radunò cinquanta personalità di spicco nel comitato consultivo di COYOTE e incaricò alcune prostitute di condurre una campagna per la decriminalizzazione. Nel gruppo operarono donne che si spacciavano come “la voce delle prostitute” – senza però mai essere state nella prostituzione, bensì spesso nello sfruttamento di altre donne – affiancate da uomini anche importanti e potenti che ne sostenevano l’agenda politica e il concetto che la prostituzione fosse un lavoro come un altro: si trattava di politici, studenti, guru di associazioni e compratori di sesso che sdoganavano il marketing di questo abuso sessuale “vecchio come il mondo” rivisitandolo e riproponendolo in una forma socialmente accettabile costruita sul mito della “puttana felice” e della “puttana per scelta” o, paradossalmente, secondo i desiderata femministi più aggiornati dell’empowerment e della autodeterminazione della donna.

Xaviera Hollander pubblicò insieme a Robin Moore nel 1971 il best seller “The happy hooker” – La puttana felice – da cui furono tratti un film e una commedia musicale: grazie a questa sua finta biografia – ammise di essersi prostituita solo per sei mesi – riuscì a rendere popolare l’idea che la prostituzione sia un’attività piacevole. In Gran Bretagna Helen Buckingham, una ragazza squillo d’alto bordo, si promosse portavoce delle donne britanniche nel mercato del sesso. Fondò il gruppo PUSSI (Prostitutes United for Social and Sexual Integration – Prostitute unite per l’integrazione sociale e sessuale) che in seguito divenne PLAN (Prostitution Laws Are Nonsense – Le leggi sulla prostituzione sono una assurdità) e si alleò con Selma James, fondatrice della Campagna per il salario alle casalinghe, che chiedeva soldi allo stato per il lavoro non riconosciuto delle donne in casa. Insieme nel 1975 fondarono l’ECP (collettivo inglese delle prostitute).

Così, risciacquando il linguaggio e sostituendo ipocritamente le parole tradizionali cariche di stigma della prostituzione con altre socialmente accettabili e politically correcti termini sex work e sex workers – lavoro sessuale e lavoratori del sesso – sono diventati nell’arco di un ventennio la parola d’ordine di una lobby fatta di accademici, assistenti sociali, politici, proprietari di bordelli e di agenzie di escort (come Douglas Fox dell’International Union of sex Workers), giornalisti e manager coinvolti nel mercato pornografico e di acquirenti del sesso – una lobby ben finanziata negli USA che è riuscita anche ad accaparrarsi gli abbondanti fondi governativi per la lotta all’AIDS – con lo scopo di decriminalizzare l’industria del sesso e il suo mercato globale, trasformando dopo la mafia anche i comuni papponi in manager abili nel gestire il diritto degli uomini di abusare impuniti del corpo delle donne.

WHISPER ha rappresentato una sfida diretta all’idea che la prostituzione fosse o una libera scelta o un lavoro come gli altri e sul suo modello sono nati altri gruppi abolizionisti e anti-tratta: nel 1988 è sorta la Coalition Against Trafficking in Women che si è diffusa nelle Filippine, Bangladesh, Indonesia, Thailandia, Venezuela, Portorico, Cile, Canada, Norvegia e Grecia. Erano gli anni in cui il Turismo sessuale in quei Paesi stava diventando molto popolare.

Secondo Evelina Giobbe per mettere fine alla prostituzione e fermare gli uomini che la alimentano – i puttanieri – le donne comuni devono avere il coraggio di guardare in faccia gli uomini che hanno davanti tutti i giorni: i loro uomini. Ma le donne questo gesto che potrebbe destabilizzarle non lo vogliono fare, perciò preferiscono fare un passo indietro e continuare a credere che la prostituzione sia una libera scelta, altrimenti dovrebbero convincersi che i loro uomini sono dei perversi e degli stupratori. Norma Hotaling, sopravvissuta all’abuso sessuale infantile e alla prostituzione di strada, sopportata solo al costo di diventare eroinomane, dopo essersi disintossicata ha fondato SAGE (Standing Against Global Exploitation – Prendiamo posizione contro lo sfruttamento globale) per aiutare altre tossicodipendenti finite nella prostituzione e vittime di violenza.

Nel 1996 nella popolosa città di St. Paul nel Minnesota la sopravvissuta dal mercato del sesso Vednita Carter fonda Breaking Free, associazione che offre sostegno specifico, counseling e corsi di formazione e programmi di uscita per vittime di prostituzione. La maggioranza delle donne che si rivolgono a Breaking Free sono afro-americane, la categoria a maggior rischio di sfruttamento sessuale nel Nord America. Vednita è convinta che i servizi offerti vadano modulati per le donne a seconda dello stadio del loro processo di uscita dalla prostituzione: “Voglio che le donne sappiano che hanno un posto dove andare e che non saranno cacciate solo perché non sono pronte a uscire subito dalla prostituzione; può essere un processo lungo e complicato e se scoraggiamo queste ragazze giudicandole perché non stanno passando a un’altra vita, le perdiamo. Sono talmente emarginate e spesso viste come quelle che “scelgono” quella vita, perché davvero tanta gente bianca le vede in questo modo, invece di vedere l’assenza di alternative per loro”.

Poiché le varie Chiese possono contare su una stabile disponibilità economica, in molti Paesi stanno prevalendo i servizi di assistenza alle donne vittime di tratta e prostituzione gestiti da organizzazioni religiose, che agiscono ottimamente ed eticamente senza obbligo per le donne di diventare religiose praticanti prima di uscire dalla prostituzione, o di diventare religiose perché hanno beneficiato di questi servizi. Ma i programmi di fuoriuscita offerti da gruppi e associazioni femministe abolizioniste si avvantaggiano della fondamentale esperienza delle sopravvissute che collaborano con attiviste, psicologhe, giuriste e mediche esperte sulle cause e le conseguenze della violenza maschile sulle donne. Anche Rae Story, fuoriuscita dalla prostituzione nel 2015 e attivista femminista socialista conferma che “Oggi le necessità prioritarie sono case di accoglienza temporanea, counseling gratuito, assegni statali, servizi di welfare e disabilità per quelle di noi che soffrono di sindrome postraumatica da stress e problemi mentali come risultato della prostituzione”.

Fra le attiviste abolizioniste più attive negli ultimi anni si segnala Rachel Moran, di cui è stato recentemente pubblicato il libro “Stupro a pagamento, la verità sulla prostituzione – nella traduzione di Resistenza Femminista Round Robin Editrice 2017”. Rachel Moran, finita nella prostituzione di strada e poi al chiuso nei bordelli e centri massaggi irlandesi dai 15 ai 22 anni è la sopravvissuta fondatrice di Space International (Survivors of Prostitution-Abuse Calling for Enlightenment – Sopravvissute all’abuso della prostituzione che chiedono di illuminare l’opinione pubblica). Dal 2002, nei suoi viaggi in oltre 20 nazioni e in diverse sedi internazionali, incluso il Parlamento Italiano, il Parlamento Europeo, le Nazioni Unite e la Harvard University di Boston, Rachel ha portato la sua testimonianza spiegando che la prostituzione non è “né sesso, né lavoro” e il fatto che ci sia di mezzo del denaro non cambia la natura di quello che succede, cioè che si tratta di uno stupro a pagamento, reiterato, traumatico e devastante per la donna prostituita e costantemente “rimosso” nella percezione della maggior parte delle persone comuni perché ipocritamente ignorato, negato e normalizzato anche nella nostra società patriarcale capitalista.

Il sesso infatti esiste solo nella reciprocità del desiderio, mentre la prostituzione è soltanto una compensazione per un abuso sessuale che si è costrette a subire per sopravvivere e non si può in nessun modo parlare di lavoro in quanto la prostituzione è sostitutiva del lavoro, costituendo per migliaia di donne e bambine nel mondo il tentativo di avere una forma residuale ed estrema di sostentamento economico, quando il lavoro non c’è. Si smetta dunque consapevolmente di usare il termine “sex work” che fu inventato nei primi anni Ottanta da Carol Leigh, e adottato dall’industria del sesso di San Francisco nel periodo in cui dilagava l’AIDS per normalizzare e sanitarizzare la prostituzione, ma che soprattutto dopo la diffusione del fenomeno della Tratta si è rivelato per quello che è: un trucco linguistico “politically correct” – denunciato anche dall’icona femminista Kate Millet – che copre e occulta una situazione orribileun linguaggio che normalizza invece che opporsi alla violazione dei diritti umani e alle forme nuove di neocolonialismo funzionali alle società occidentali sviluppate sulla asimmetria e diseguaglianza di potere fra uomo e donna nella domanda di sesso.

Rachel Moran si batte insieme alle ormai numerose attiviste della rete abolizionista mondiale anche in CATW –coalizione contro la tratta delle donne e la European Women’s Lobby perché gli Stati adottino il Modello nordico nella legislazione e combattano il fenomeno della tratta delle donne e delle ragazze dai paesi economicamente svantaggiati verso quelli sviluppati dell’occidente capitalista per impedirne il loro sfruttamento sessuale.

In particolare sono convinte della necessità dell’adozione del modello legislativo nordico le femministe radicali che si ispirano al pensiero della statunitense Andrea Dworkin e della belga Luce Irigaray e in Italia alle pensatrici della seconda ondata del femminismo – quello detto “della differenza” che a partire da Carla Lonzi si esprime negli anni Settanta con personalità come Luisa Muraro, filosofa, linguista, docente e femminista, fondatrice insieme ad Adriana Cavarero e altre della comunità filosofica Diotima, oltreché animatrice a Milano negli anni Settanta insieme a Lia Cigarini, Elvio Fachinelli, Lea Melandri e altri di fondamentali esperienze di didattica antiautoritaria e dell’esperienza intellettuale della “Libreria delle donne”.

In questo continuo passaggio di testimone interno al Femminismo, anche le femministe radicali italiane di fronte al dilagare della Tratta ritengono sia giunto il momento di andare oltre la legge Merlin del 1958 per abbracciare, all’interno di una società capitalista, il Modello legislativo nordico, convinte sia la giusta strategia per contrastare qualsiasi mercato costruito sulla vulnerabilità, lo sfruttamento e la disperazione di un essere umano e sostenere le persone, in gran parte donne, ridotte a vendere l’accesso al proprio sesso, penalizzando invece la domanda maschile e gli sfruttatori. Lina Merlin si rifiutò sempre di definire la prostituzione un lavoro come un altro e con la legge a lei intitolata ha liberato le donne che venivano schedate, rinchiuse nei bordelli e bollate con infamia per l’abuso compiuto su di loro dagli uomini.

Il modello nordico neo-abolizionista

Radicato nella cultura dei diritti umani di matrice scandinava, il Modello nordico si prefigge di frenare la domanda di prostituzione e di promuovere l’uguaglianza delle donne e degli uomini. La logica alla sua base è che la prostituzione è una forma di violenza e dunque il cliente pagando per il sesso commette un crimine. Nel modello nordico si ritiene che la donna che vende sesso a fronte di una compensazione economica resti comunque un partner sfruttato nello scambio e quindi la prostituta in questo sistema non viene perseguita, mentre viene perseguito il cliente che pratica l’adescamento ai fini della compravendita sessuale, oltre che ovviamente chi favoreggia e sfrutta la prostituzione. Questa legislazione – il cosiddetto Sexköpslagen – è stata adottata per la prima volta al mondo in Svezia nel 1999 ed è integrata con politiche sociali che favoriscono la fuoriuscita delle donne dalla prostituzione.

In un’ottica progressista il Modello nordico si è diffuso nel mondo e finora è stato adottato anche da Norvegia, Islanda, Irlanda e Irlanda del nord, Corea del Sud, Canada, Francia. I governi di Israele, Lettonia e Lituania lo stanno valutando e nel 2014 il Parlamento Europeo e l’Assemblea del Consiglio d’Europa hanno approvato una Raccomandazione per implementare questo modello come il più utile per affrontare la prostituzione in Europa.

Il Modello Nordico è sorto dalla consapevolezza del fallimento del modello di “regolamentazione” della prostituzione legale sperimentato da socialdemocratici e verdi in Germania dal 2002 e poi in Olanda: qui la prostituzione legale al chiuso, negli auspici dei socialdemocratici si sarebbe dovuta trasformare in un lavoro come gli altri, con un capo, un contratto di lavoro e un sindacato e avrebbe dovuto svolgersi fuori dalle strade, lontano dagli sguardi dei benpensanti e dei bambini. Nella realtà la prostituzione nel cuore dell’Europa e in Svizzera (dove si possono prostituire anche le ragazze dai 16 anni) è diventata un mega business sotto la supervisione dello Stato in città come Amburgo o Stoccarda o Zurigo e un’enorme possibilità di sfruttamento economico per i tenutari di catene di bordelli – che percepiscono per ogni prostituta almeno 140-160 euro al giorno e alimentano un turismo maschile sessuale europeo dell’ordine di milioni di uomini – e una grande occasione per la rendita immobiliare dei proprietari di case, ma non è invece diventata un lavoro normale per le prostitute che continuano ad aumentare di numero.

Le donne in prostituzione nei Paesi dove essa è “regolamentata” sono diventate ancor più socialmente invisibili e stigmatizzate, povere e intrappolate in un sistema infernale. Lo evidenziava già nel gennaio 2007 il rapporto ufficiale sull’impatto della nuova legislazione pubblicato dal governo tedesco, oltre ad alcuni articoli apparsi nel 2012 sul quotidiano tedesco Der Spiegel nel decennale di entrata in vigore della legge. Anche Eurostat in un rapporto del 2013basato su dati ufficiali evidenziava come la condizione delle donne coinvolte nella prostituzione non era affatto migliorata con una legge che ne regolamentava la pratica.

A fronte di una popolazione di 80 milioni di abitanti, oggi in Germania ci sono 400.000 donne nella prostituzione e si stima che 1.200.000 uomini acquistino sesso ogni giorno. Ciononostante, l’impostazione legislativa in Germania e Paesi Bassi non è ancora stata modificata. La verità è anche che solo una minoranza di donne in prostituzione in Germania sono tedesche, mentre la maggioranza è affluita qui da tutta Europa dopo la caduta del Muro di Berlino soprattutto dai Paesi poveri dell’Est europeo come Ucraina, Moldavia, Romania, e più recentemente dai Paesi africani e asiatici di provenienza della Tratta. Sono ragazze, anche minorenni, in gran parte analfabete che devono mantenere tutta la famiglia; molte anche le Rom e le ragazze-madri, che esercitano mentre i figli crescono in braccio ai papponi. Tutte sono strangolate economicamente, ridotte a schiave e costrette a rimanere in una catena di sfruttamento legalizzata in cui anche lo Stato pretenderebbe la sua fetta di guadagno. Ma nella realtà neanche lo Stato ci ha guadagnato, dal momento che solo una minoranza ridicola, 44 (di cui due uomini) su 400.000 si sono di fatto iscritte e “regolarizzate” negli elenchi delle Camere di Commercio per pagare le tasse in regime forfettario.

Come ha raccontato una sopravvissuta italo-tedesca in un’intervista raccolta da Marina Terragni per Il Corriere della Sera “L’idea un po’ romantica e ingenua che gli uomini vadano a prostitute per farsi una scopata e via, va dimenticata. Una scopata se la possono fare con chiunque. Mica è “Pretty Woman”: vengono da te per ben altro. Vedono il porno (in TV e nel Web ndr.), ti chiedono di indossare falli artificiali, di travestirsi con parrucca o intimo femminile. Ci sono i feticisti, i coprofagi. Vanno molto i giochi con l’urina. Dall’anal sex alla zoofilia, un repertorio sterminato. Sono sporchi, maleodoranti, spesso ubriachi e strafatti. Pagano il diritto di scatenare quello che hanno dentro, e tu sei solo una latrina, né più né meno. Devi tacere, fare e lasciare fare, e saper fingere piacere. Ti pagano, e pretendono anche che tu sia soddisfatta delle loro prestazioni.

Qual è il senso profondo dell’andare a prostitute?Non si tratta di sesso. In questione c’è ben altro. È un mix tra il potere che ti dà il fatto di pagare e il piacere di umiliarti. Il tutto veicolato da una violenza di base. Hai a che fare con qualcosa di guasto. Una specie di camera di compensazione. L’uomo si sveste per un’ora o due dei ruoli che deve sostenere e si concede di manifestare una parte di sé che normalmente devo tenere compressa e nascosta, un suo doppio impresentabile.

Renate Van der Zee, giornalista olandese che non era abolizionista, ma si occupava di violenza sulle donne, nel 2013 ha pubblicato un nuovo studio critico dal titolo tradotto “La verità dietro il quartiere a luci rosse” e nel 2015 una indagine sulla domanda di prostituzione dal titolo “Uomini che comprano sesso”. In Nuova Zelanda la violenza sulle prostitute è aumentata ulteriormente dopo l’adozione del Prostitution Reform Act del 2003, il modello della de-criminalizzazione totale: la prostituzione, come il suo sfruttamento, favoreggiamento, reclutamento o induzione e organizzazione sono stati tutti legalizzati e dunque “normalizzati”. Le attività si svolgono in tutta comodità al chiuso, con controlli sanitari esigui e lasciati alla discrezione di ufficiali sanitari che si sono rivelati spesso inadempienti perché anche loro non sanzionabili e qualsiasi comportamento dei clienti e degli sfruttatori delle ragazze è accettato e normalizzato. Il potere dei papponi è ormai fuori controllo: sono loro a stabilire prezzi e prestazioni, sono loro che nascondendosi dietro la maschera perbenista dell’uomo di affari gestiscono la Tratta delle donne e delle bambine in un regime di totale impunità. A causa della decriminalizzazione anche la polizia non ha più l’obbligo di indagare. Il mercato del sesso nella sua versione più spietatamente neoliberista usa i corpi delle donne sottoponendole a ogni genere di violenza.


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Il potere segreto della Bibbia


di Guido Benzi (Parole di Vita, gennaio 2019)


Vetrina Biblica

Simone Venturini
Il potere segreto della Bibbia. Per scoprire Dio e se stessi
VandA.ePublishing, Milano 2017
pp. 170, 15,60

 

Il titolo originale e accattivante di questa breve e intensa introduzione alla lettura della Bibbia rivela già i destinatari dell’opera: interessati ma non specialisti, lettori in ricerca di senso religioso, persone attratte dal testo sacro ma perplesse di fronte alle difficoltà di lettura e interpretazione.

A questi, e a tanti altri, il biblista Simone Venturini offre un agile volumetto in cui si affrontano direttamente molte domande che affollano la mente di chi – pur nel tramestio delle tante incombenze giornaliere – vuole coltivare uno spazio di interiorità a partire dalla lettura delle Scritture. Simone Venturini, laico, sposato e padre di Raffaele e Tommaso, è docente di Scienze bibliche all’Università Pontificia della Santa Croce di Roma e officiale presso l’Archivio Segreto Vaticano. L’Autore non è nuovo nell’associare alla sua attività scientifico-accademica intelligenti pubblicazioni di carattere divulgativo, come testimonia anche il blog da lui diretto e animato (www.simoneventurini.com). Il potere segreto della Bibbia è una serie di riflessioni-meditazioni che, rigorosamente innestate su testi biblici, analizzati con finezza e perizia, delineano per il lettore un itinerario sapienziale, interloquendo anche con tematiche di attualità.
Una lettura senz’altro consigliata.