Cristina Luzzi, dottoranda in Giustizia costituzionale e diritti fondamentali nell’Università di Pisa, ha scritto una brillante recensione di Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione di Daniela Danna, Silvia Niccolai, Grazia Villa e Luciana
Tavernini. Luzzi analizza il fenomeno della prostituzione in chiave giuridica, offrendo nel suo pezzo molti spunti interessanti.
Ecco un estratto:
In un crescente e affollato dibattito politico e giurisprudenziale sull’autodeterminazione femminile le autrici di Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione consegnano al panorama nazionale giuridico, e non solo, una visione unitaria del fenomeno della prostituzione. Il libro muove da una critica alle opinioni secondo le quali la vendita della propria intimità costituisce una libera scelta della donna, opinioni che sottovalutano o rimuovono il peso che condizionamenti, economici ma anche psicologici, esercitano su questa ed altre scelte della persona. […] Nel tentativo di contrastare la tratta e la prostituzione minorile, favorendo solo la prostituzione “cosciente e responsabile”, si riscontra in questi casi una depenalizzazione delle diverse condotte riconducibili allo sfruttamento della prostituzione, accompagnata da una regolamentazione più o meno stringente su requisiti d’accesso e luogo di svolgimento dell’attività. In altre parole, si assiste a un processo di normalizzazione del “mercato del sesso”, in riferimento al quale il linguaggio svolge da subito un ruolo chiave. Non si parla, infatti, di sesso ma di “servizio sessuale”; non di prostituzione, ma di “sex work”, nonostante il grado di ambiguità che circonda tale espressione e che spinge a ricondurvi le più diverse prestazioni sessuali (da quelle che prevedono il contatto sessuale più brutale a quelle che lo escludono, come le telefonate erotiche o la condivisone di video e immagini via webcam, accomunate a ben vedere soltanto dalla capacità di consentire presumibilmente il raggiungimento del piacere per colui che ne usufruisce).
Luciana Tavernini ha partecipato dagli anni Ottanta all’Associazione Melusine, alla Pedagogia della differenza e poi alla Comunità di pratica e riflessione pedagogica e ricerca storica, ora Comunità di storia vivente. Ha insegnato nelle scuole medie, nei corsi 150 ore e italiano a donne straniere. Scrive su diverse riviste e siti internet.
Sul trimestrale Vite all’opera nelle maglie della pandemia di Autogestione e politica prima (N.1/2021 gennaio marzo 2021-anno XXIX) è uscita una bella recensione di Sex work. Né sesso né lavoro di Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini e Grazia Villa, scritta da Ana Mañeru Mendez.
Su Volerelaluna è uscito un articolo di Valentina Pazé a proposito della problematica legata alla denuncia di abbandono dei e delle sexworker durante l’emergenza sanitaria e il lockdown del Paese, che presenta bene la posizione di Luciana Tavernini, Silvia Niccolai, Daniela Danna e Grazia Villa, autrici di Né sesso né lavoro.
Eccone un estratto:
“Tra i settori economici che sono stati certamente penalizzati dal lockdown c’è anche il mercato del sesso. Lo ricorda, su il manifesto del 12 maggio, Shendi Veli (https://ilmanifesto.it/lemergenza-umanitaria-del-lavoro-sessuale/) , denunciando l’abbandono in cui sono stati lasciati i e le sex worker (di cui parlerò d’ora in poi al femminile, data la netta prevalenza delle donne nel settore) durante la pandemia. E riproponendo le classiche rivendicazioni dei movimenti per la “decriminalizzazione”: dal riconoscimento della prostituzione come attività lavorativa in piena regola alla legalizzazione delle attività collaterali, come il favoreggiamento, che nel nostro paese è un reato che viene talvolta contestato anche a chi affitta la casa a una prostituta o abita con lei (secondo un’interpretazione peraltro scorretta della legge Merlin, criticata da Silvia Niccolai in AA.VV., Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione, Milano 2019, pp. 70-117).
Intervenendo su 27esima ora del 22 maggio (https://27esimaora.corriere.it/20_maggio_22/prostituzione-lavoro-o-sfruttamento-b8170e3c-9bd6-11ea-aab2-c1d41bfb67c5.shtml), Luciana Tavernini mostra l’altra faccia della medaglia: «Chiamare la prostituzione lavoro è un modo per convincere che tutto, perfino l’accesso all’interno del nostro corpo, può e deve essere venduto e al massimo possiamo lottare per alzare il prezzo. È un vecchio trucco cancellare lo sfruttamento col nome di lavoro». E dunque, anziché chiedere di legalizzare le attività di coloro che guadagnano dalla prostituzione altrui, bisognerebbe attuare quella parte della legge Merlin che prevede formazione e inserimento lavorativo per le donne che desiderano cambiare vita. Uscendo da un “giro” in cui la stragrande maggioranza di loro è finita per bisogno, e talvolta per vera e propria costrizione (le straniere vittime della tratta), non certo per scelta.
Il contrasto tra queste due posizioni sembra irriducibile e riguarda la stessa scelta delle parole: prostituzione o sex work? “Stupro a pagamento” (come è intitolato il bel volume autobiografico di Rachel Moran) o «un lavoro come un altro», di cui si tratterebbe di garantire l’esercizio in condizioni di legalità e sicurezza? Il tema è di quelli che dividono, anche a sinistra, anche all’interno del femminismo e delle associazioni per la difesa dei diritti umani. E probabilmente non potrebbe essere altrimenti, data la molteplicità delle questioni in gioco: dalla visione del corpo, della sessualità, delle relazioni tra i sessi alle nostre idee sulla libertà, i diritti, il rapporto tra Stato e mercato.”
di Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini, Grazia Villa
Firmato da quattro autrici: la sociologa Daniela Danna, la costituzionalista Silvia Niccolai, la storica Luciana Tavernini e l’avvocata Grazia Villa, “Né sesso né né lavoro” è un testo fondamentale per chi voglia capire un po’ di più il dibattito su prostituzione e sex work in Italia.
Un libro scritto a più voci ma con una visione comune che intende aiutare chi legge a sfilare la testa dalla sabbia dei luoghi comuni, andare oltre slogan sempre più diffusi che, volendo sdoganare la questione, negano gravi problemi sociali e mentono spudoratamente.
Il sex work non è un lavoro come un altro, il concetto stesso di sex work stravolge il senso sia del sesso sia del lavoro.
Forti di competenze specifiche, le quattro autrici mostrano i differenti aspetti del fenomeno in un’analisi calata nella peculiare realtà dell’abolizionismo tradito nel nostro paese, dove la lotta alla tratta non è una priorità e dove sulla prostituzione vige il laissez faire. Dall’esame dei modelli di politiche internazionali all’analisi della Legge Merlin (male interpretata) e delle numerose proposte parlamentari di modifica della legge, all’appassionata riflessione sulla portata della prostituzione negli attuali rapporti umani.
Leggine un estratto…
“Ho capito il mio atteggiamento e quello di diverse mie amiche verso la prostituzione quando li ho associati a un episodio della mia infanzia. Avevo quasi tre anni quando mi sono allontanata dalla casa dei nonni per cercare i miei genitori, usciti a fare la spesa. Inerpicandomi per un sentiero fra i boschi, arrivai a un maso vicino e, sentendo il cane abbaiarmi contro, mi coprii il viso con le mani, lasciando aperte le dita. Nel mio pensiero magico, nascondendo il viso mi sarei resa irriconoscibile e il cane non mi avrebbe vista, mentre io lo avrei controllato e mi sarei avvicinata il meno possibile.
Con la prostituzione è andata così.
Sapevo che esisteva, non avevo bisogno che restasse nelle “case chiuse” con i vetri oscurati; non era la buona educazione o il bon ton a non farmene parlare, piuttosto la sottile paura che la cosa mi riguardasse. Insomma, intravedere era un modo per tenere lontane le sue implicazioni. Intuivo quanto la prostituzione fosse connessa al contratto sessuale degli uomini tra loro per avere accesso al corpo femminile, e dunque anche al mio; alla pretesa che i desideri maschili fossero gli unici legittimi, che il ruolo delle donne fosse quello di supportarli e di essere lo specchio in cui l’uomo diventa grande (dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna). Ma io non volevo vivere all’ombra di qualcuno e il mio desiderio, proprio per l’incontro col femminismo, continuava e continua ad accendersi. Un desiderio che ha reso evidente quanto mi andasse stretta la divisione patriarcale delle donne in due grandi categorie: le procreatrici e le donne di piacere, le donne per bene e le donne per male. Le prime devono garantire la certezza e la continuità della discendenza, un’ossessione maschile che ha prodotto nei secoli una serie di abomini: dalle spose ignoranti e molto giovani alla prova della verginità della prima notte, dall’escissione della clitoride, non solo fisica (mia madre neppure sapeva della sua esistenza, guai a toccarsi lì ), alla fasciatura dei piedi delle donne cinesi durata secoli, dall’organizzazione di harem custoditi da eunuchi ai delitti d’onore, dai matrimoni riparatori alla patria potestà che toglieva le creature alla madre in caso di adulterio, solo per fare qualche esempio. Le altre, le donne per male, devono garantire il piacere sessuale maschile, un’esperienza così attraente da far “perdere la testa” e per la quale, come per la funzione delle prime, le donne sono necessarie. Anche qui invenzioni a dir poco obbrobriose: dalle molestie, considerate modi naturali di rapportarsi alle donne fin da bambine e adolescenti, allo stupro individuale come manifestazione di controllo sull’altra, dallo stupro di gruppo come forma di coesione tra uomini alle diverse modalità di organizzare la prostituzione, dove il denaro paga la prestazione richiesta cancellando chi la fornisce.
Soprattutto nelle istituzioni maschili segregate, per esempio negli eserciti, le donne prostituite, anche con l’inganno, erano una costante ritenuta inevitabile e solo da poco si comincia a esprimere parole di condanna. Basti pensare alle comfort women per le truppe giapponesi, all’invenzione del “madamato” per quelle italiane nelle colonie, per non parlare del sistema di R&R ( rest & recreation ), in particolare per le truppe USA durante la guerra del Vietnam. Nella Roma papale del Cinquecento, piena di celibi, vi era uno stuolo di cortigiane, spesso costrette a questo ruolo dopo il cosiddetto “trentuno”: uno stupro collettivo a cui partecipavano trentuno uomini – come si racconta accadde a Lorenzina, la figlia di un fornaio (Lawner, 1988, pp. 10-11).
Del resto, nei casini italiani del primo dopoguerra la media di quaranta “marchette” era considerata bassa (Merlin e Barberis, 1955, pp. 25 e 30). E dal 1995 alcune suore cominciano a presentare rapporti-denuncia ufficiali sugli abusi di preti verso le consorelle. Per tenere ben separate le due categorie femminili, sulle donne che non rispettano le regole maschili da un lato ricade la vergogna, dall’altro s’innesca la paura di punizioni sia per le prime sia per le seconde, basti pensare che nel Cinquecento, il secolo del cosiddetto Rinascimento, una cortigiana che non si era mostrata disponibile a tempo debito poteva essere punita dall’amante con uno stupro organizzato con l’inganno e la complicità di ottanta uomini (Lawner, 1988, pp. 75-77).
Ho potuto vedere le violenze connesse a questa divisione innaturale quando, oltre quarant’anni dopo, ho definito con altre “molestia” quello che un medico mi aveva fatto e che continuavo a minimizzare, situazione che m’impediva di fidarmi del mio sentire e di prendere parola pubblicamente in modo autentico. Non avevo timore a fare lezioni anche davanti a trecento persone come ripetitrice di pensieri altrui o nascondendo con l’ironia i miei, di cui non riuscivo a essere sicura (Tavernini, 2012 e 2014).
Vivere attenta a non cadere nella vergogna e ad allontanare la paura mi aveva spinta a introiettare il desiderio maschile pensando così di esaudire anche il mio, a non voler vedere la violenza a cui ero stata sottoposta per continuare a percepirmi viva: la violenza ti fa diventare cosa, ed è quanto di più vicino alla morte ci sia.
Le pratiche femministe che, pur modificandosi nel tempo, hanno mantenuto l’interrogarsi tra donne a partire da sé, mi hanno permesso di tenere le dita aperte per non cancellare l’esperienza di quelle che vivevano con la prostituzione. Anch’io ho gridato nei cortei non più puttane, non più madonne, solo donne: la separazione dunque doveva crollare, ma non significava l’instaurarsi di un nuovo e unico modello. Con le amiche dell’autocoscienza, con cui continuo a incontrarmi, e con quelle con cui ricerco da decenni, ho compreso che il nostro immaginario era colonizzato da film e racconti che confermavano le modalità maschili d’incontro sessuale e in un primo tempo ho rischiato di accontentarmi della liberazione sessuale.
Essere sessualmente disponibili si rivelò uno scacco, desideravamo invece scoprire, con chi decidevamo di provare, il piacere nostro e anche suo. Insomma, volevamo la libertà sessuale”.