Docente femminista, si occupa di politica e riproduzione, insegna all’Università negli Stati Uniti e in Austria. Ha pubblicato “Motherhood in Patriarchy” (2013), in Italia “Contro la maternità patriarcale” (VandA edizioni, 2020).
Tazi-Preve in Contro la maternità patriarcale critica il concetto di maternità elaborato dai padri.
Questo saggio mostra come gli uomini abbiano trasformato la maternità svuotandola del suo vero significato e facendo sparire la figura della madre compiendo un “matricidio storico”.
La verità è che questo omicidio può essere compiuto solo in modo simbolico perché gli uomini della madre non possono fare a meno. Non solo perché da lei vengono generati ma perché l’equilibrio della società intera si regge sul suo incondizionato donare.
Eppure sebbene la società si regga sul suo contributo la madre scompare dietro le mura domestiche, isolata e privata di parola.
Ma noi per riprenderci la nostra maternità e la nostra capacità generativa cosa possiamo fare?
Leggine un estratto…
“Secondo la mia tesi, l’odierno concetto di maternità, che io chiamo “maternità patriarcale” (Tazi- Preve 2013), si basa sul matricidio storico (Tazi- Preve 1992), che possiamo rinvenire nel mito, nella psicologia, nella scienza, nella medicina, nella legge, nella politica, nella filosofia e nella religione.
La madre è ancora viva fisicamente, essendo necessaria come fattrice, nutrice e lavoratrice, ma i vincoli e le coercizioni a cui è sottoposta sono il risultato di una violenta trasformazione; peraltro, la seconda ondata del movimento delle donne non è riuscita ad apportare alcun mutamento sostanziale.
Per comprendere come mai la “questione femminile” non sia stata risolta, ma anzi stia peggiorando, è necessario sviluppare quanto prima nuovi strumenti analitici. La maggior parte delle ricerche accademiche non indaga in modo critico e appropriato. Il modo in cui la ricerca sulla maternità è svolta nell’ambito delle scienze sociali, principalmente in sociologia, scienze politiche e psicologia, riferisce di un destino di madri vincolato alle premesse economiche della vita familiare e della forza lavoro (Rille-Pfeiffer e Kapella 2007), o del loro stato psicologico (Klepp 2003) durante la gravidanza, dopo la nascita e nella crescita della prole. L’approccio è descrittivo, segue l’ottica di un’unica disciplina ed è apolitico.
L’intero quadro delle numerose coercizioni a cui le madri sono sottoposte (che io definisco violente) è del tutto trascurato. Johan Galtung (1988) ha mostrato che la violenza non si manifesta soltanto in forma fisica diretta, ma anche a livello strutturale e culturale. L’assenza di risposte appropriate negli studi femministi e nelle teorizzazioni politiche ha portato la cosiddetta Scuola di Innsbruck a sviluppare la Teoria critica del patriarcato.
Si tratta di un approccio che presenta una meta-teoria sistemica interdisciplinare (von Werlhof 2013, Projektgruppe 2009), ma è molto più di questo. È una concezione epistemologica meta-teorica della civiltà in tutte le sue dimensioni. Attraverso i suoi strumenti appare chiaro come lo scopo finale della politica, dell’economia e della società sia la costante distruzione della natura e degli esseri umani volta a una loro ri-creazione artificiale ipoteticamente migliore. Si spiega inoltre come l’idea delirante di un mondo in apparenza migliore possa essere sviluppata solo a partire da «lo shock e il terrore reverenziale» (Klein 2008).
La parola chiave è “patriarcato”, termine usato all’inizio della seconda ondata del movimento femminista per indicare un sistema globale di dominazione delle donne. La Teoria critica del patriarcato parte da un approccio etimologico e mostra come il termine provenga dal latino pater e dal greco árche, che ha diversi significati: può indicare il dominio, ma anche l’inizio (Gemoll 1965). È il padre che vuole prendere il posto della madre come origine e creatore, obiettivo che viene perseguito a livello materiale, ma anche simbolico e mitologico, come nel mito di Zeus
che “fa nascere” la figlia Atena dalla propria testa. Ciò che la versione storicamente più recente del mito nasconde è che, prima di questo presunto parto, Zeus aveva ingoiato la dea Metis incinta della loro figlia. Allora come oggi il patriarcato dipende dall’assimilazione della potenza materna per poter imitare la creazione della vita. Il modo in cui la maternità è attualmente concepita si basa su due tendenze principali. Una è la direzione verso cui stanno virando le teorie e le pratiche femministe. Quello che è successo nelle ultime decadi è che l’approccio di Michael Foucault e la sua teoria critica della modernità sono stati applicati alla teoria femminista e hanno spodestato l’approccio femminista alle scienze sociali. Judith Butler (2013) e altri hanno sviluppato la teoria della performatività di genere, negando che ci sia alcunché di naturale nel corpo femminile e rendendo così impossibile parlare di donne in senso collettivo.
Questo concetto, ampiamente accettato in ambito accademico, ha provocato inoltre una svolta verso l’individualizzazione del “problema femminile” e l’abbandono di una prospettiva sistemica. In un mondo “neutrale a livello di genere”, la possibilità di una concezione collettiva delle donne svanisce e l’attivismo politico contro l’ingiustizia e la violenza strutturali diventa impossibile. Favorendo una
visione individualistica, l’“essere donna” è ridotto a una questione di retorica e il femminismo perde il suo potere trasformativo. Ci si può domandare se fosse effettivamente questo lo scopo della teoria di genere, quel che sappiamo per certo è che tale approccio contribuisce al progetto patriarcale dell’abolizione della madre.
Il discorso pratico politico è dominato dal femminismo liberale e socialdemocratico, secondo il quale è l’occupazione che assicura la libertà, mentre la maternità è una questione personale; le soluzioni proposte si concentrano principalmente sulle strutture per una completa assistenza all’infanzia.
In secondo luogo, i concetti propri del femminismo liberale sono alla base delle misure di gender mainstreaming, come le leggi dell’Unione Europea volte ad aumentare la ricchezza dell’Unione includendo la capacità produttiva delle donne come lavoratrici e madri. In un’“empia alleanza” tra l’approccio liberale e quello di genere, temi come l’intersezionalità e la teoria dell’identità dominano sia il discorso accademico sia quello politico.
I Women’s Studies vengono sostituiti dai Gender Studies e negli ultimi dieci anni anche dai più recenti Sexuality Studies, che si concentrano sull’orientamento sessuale. In questo modo l’attenzione della cultura e della politica, e i soldi che l’accompagnano, si rivolge alla ricerca apolitica sulla “questione di genere”.
L’immagine della madre è anche fortemente influenzata dalla nuova concezione di ciò che un tempo s’intendeva con la parola economia (oikos nomos), secondo l’originario significato greco di fornire alle persone i beni necessari.
Oggi la dottrina distruttiva del neoliberalismo, «in cui i governi nazionali europei sono ora definiti come nulla più che collettori di denaro per banche e multinazionali» (von Werlhof 2011, p. 28), ha portato alla “meccanizzazione” degli esseri umani e dell’intero mondo animato (Genth 2002). Ogni forma di vitalità è distrutta a favore di un mondo trasformato in una “macchina da soldi”.
L’economia del mercato finanziario è basata sul lavoro delle donne come procreatrici e prestatrici di cure. Nel mondo neoliberista la madre è trasformata in un ingranaggio della macchina-famiglia, sradicando così la coesione sociale, la mutualità e un’intera cultura di interazione sociale”.