(L’Adige, 20 gennaio 2019)
– In un libro di Deborah Ardilli i manifesti teorici degli anni Settanta
Fu una stagione incredibile, quella del femminismo radicale, che scosse l’Italia fin dai suoi fondamenti valoriali perché aprì contraddizioni dentro la famiglia e nel rapporto con il maschio.
Un decennio importante quello degli anni ‘70 da studiare affrontando anche quelli che furono i testi teorici, i manifesti, alla base delle azioni delle femministe radicali alla ricerca di un nuova società. Anche dentro e contro la nuova sinistra in cui erano nate e che le voleva tutto sommato come una «costola» dei movimenti, ignorando invece la loro alterità.
Ma è proprio mettendo insieme i pezzi del pensiero femminista che la modenese Deborah Ardilli ha ricostruito i fondamenti di teorie che partono dai primi anni Sessanta e ha ricucito un percorso, ricavandone un libro per la Morellini editore , Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1964-1977), (pagine 299, 15,90 euro). Il merito di Ardilli è quello di ricostruire un pensiero che attraversa l’Italia partendo dagli Stati Uniti e approdando in Francia.
I testi esprimono una forza radicale e utopistica dirompente che oggi ai nostri occhi appare desueta o inattuabile, ma che ha avuto una sua ragion d’essere. Soprattutto la forza stava in un concetto espresso chiaramente da Rivolta femminile nel 1970: «La donna non va definita in rapporto all’uomo».
Il libro gode di una corposa introduzione della curatrice, una utile guida alla lettura e alla comprensione. Ne esce anche con forza il ruolo in Italia di Rivolta femminile, di cui faceva parte Dacia Maraini e quello del Cerchio Spezzato, gruppo trentino che sarà alla base di molte riflessioni e che forse oggi ci appare ricco anche di ingenuità. Era animato da Silvia Motta, Luisa Abbà, Elena Medi, Gabriella Ferri e un maschio, Piergiorgio Lazzaretto, che produrranno un libro nel 1972, La coscienza di sfruttata che era in realtà la tesi di laurea di gruppo discussa nel 1970 a Sociologia sotto la direzione di Giovanni Arrighi.
Ardilli mette giustamente in guardia da alcune propensioni che già allora furono causa di discussione dentro il movimento, come l’indicare in una causa biologica la causa di un’oppressione sociale. Ma quel che conta è che gli effetti furono dirompenti, perché Il «Cerchio Spezzato» spiazzava anche la nuova sinistra, rifiutando la centralità dello scontro tra le classi, o meglio, mettendo al centro il problema dei sessi e dello sfruttamento della donna anche nella vita quotidiana e famigliare.
Insomma, tempi che oggi ci sembrano lontani, ma non possiamo ignorare che se si è riconsiderato il ruolo della donna fu anche grazie a quelle battaglie che erano prima di tutto intellettuali.