È uscita sul numero di settembre/ottobre della rivista “Africa” una bella recensione di “Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero” di Aph e Syl Ko.
La potete scaricare e leggere qui.
È uscita sul numero di settembre/ottobre della rivista “Africa” una bella recensione di “Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero” di Aph e Syl Ko.
La potete scaricare e leggere qui.
Su Filosofemme è uscita una bella recensione del nostro libro “Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero” di Aph e Syl Ko, firmata da Roberta Landre.
Eccone un estratto.
“Aphro-ism: Essays on Pop Culture, Feminism, and Black Veganism from Two Sisters (2017), tradotto in italiano da feminoska e edito da VandA edizioni – Afro-ismo Cultura pop, femminismo e veganismo nero (2020) – è il tentativo ben riuscito di rendere in libro l’esperienza che Aph e Syl Ko hanno sperimentato scrivendo sul loro blog aperto nel 2015 sotto il nome di Aphro-ism, tra insicurezze e bisogni.
Loro stesse ci indicano le loro intenzioni: “Dedichiamo questo libro a chi s’impegna a creare una nuova architettura concettuale per il futuro. Speriamo che sia uno dei mattoni per la sua fondazione.”
Quindi un testo che si propone di sfidare le nostre categorie concettuali, la nostra visione del mondo, attraverso lo spirito critico, al fine di creare una nuova base teorica che sostenga delle pratiche inedite di vita. Ed è proprio questo iato di possibilità quello che le sorelle Ko vogliono aprire; riappropriarsi della capacità immaginativa per scardinare le dicotomie su cui l’attuale sistema sociale si regge.
La loro analisi prende le mosse dal pensiero antirazzista, che nel suo intrecciarsi con l’antispecismo – attraverso i movimenti di liberazione nera e animale – origina una riflessione circa la comune dipendenza delle nozioni di “umanità” e di “specie”. Nella prospettiva del veganismo nero questi -ismi (antirazzismo e antispecismo insieme a tutti gli altri) sono necessariamente conciliabili.”
Per leggere l’intera recensione, clicca qui.
Sull’edizione di giugno di Ghinea è uscita una bella recensione di “Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero” firmata da Marco Reggio.
Eccone uno stralcio.
“Il pensiero antispecista vive nel nostro paese un certo fermento negli ultimi anni. Le parole d’ordine del “primo” antispecismo di matrice anglosassone (ma anche – occorre ricordarlo – bianca, maschile, cisgenere e accademica) si accompagnano a riflessioni che muovono da prospettive più ampie e, soprattutto, che dialogano serratamente con altri ambiti di lotta e di elaborazione teorica. Le prospettive foucaultiane in relazione all’ agency animale , la teoria critica seguente alla “svolta” suggerita da Derrida in relazione alla questione animale; gli intrecci con le teorie queer, esplorati interpellando sia la teoria della performatività di Judith Butler sia il versante anti-sociale del queer ), ma anche con altre “correnti” del femminismo, come l’ecofemminismo , l’opera di Carol J. Adams (da poco tradotta ) e l’etica del care. Senza contare il gran lavoro di traduzione, che spesso è sottorappresentato (forse anche perché è prevalentemente femminile), sui blog o a livello editoriale, che si è rivelato preziosissimo per far conoscere ai lettori/trici italian*, soprattutto militanti, alcune voci e alcuni momenti salienti dei dibattiti esteri (si veda il sito del collettivo Les Bitches ). In questo scenario, un ritardo certamente significativo è quello relativo alla messa a tema dell’intreccio tra questioni razziali e questione animale. Sebbene gli elementi non manchino, e sebbene una certa diffusione del metodo intersezionale abbia preparato il terreno per aprire una discussione su tale ambito, è stata fino ad oggi pressoché clamorosa la mancanza delle voci non bianche sulle teorie e le prassi antispeciste/animaliste. Inizia a colmare questo vuoto la traduzione di Aphro-ism. Essays on Pop Culture, Feminism, and Black Veganism from Two Sisters , di Aph e Syl Ko ( Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero , Vanda Edizioni, traduzione di feminoska, 2020), in uscita in questi giorni.
Le autrici, due sorelle afroamericane, hanno dato alla luce un libro per certi versi atipico, costruito a partire dall’omonimo blog, articolando una serie di riflessioni in forma non lineare, non accademica, militante nello spirito e nel linguaggio, ma al tempo stesso ben radicata nelle fondamenta delle riflessioni teoriche del campo dei Critical Animal Studies .
La prospettiva delle sorelle Ko è quella di chi si trova, in prima persona, a dover denunciare il biancocentrismo dell’animalismo mainstream, evidenziando gli aspetti escludenti di alcune parole d’ordine apparentemente neutrali dal punto di vista razziale (una su tutte: veganismo ), e il retaggio coloniale di molte pratiche di solidarietà interspecie. Al tempo stesso, però, si tratta di una postura che rivendica la piena considerazione dell’animalità nelle pratiche di decolonizzazione. Come sintetizza Breeze Harper nella prefazione all’edizione originale, “Afro-ismo mette in discussione la narrazione popolare secondo cui antispecismo, liberazione nera e antirazzismo siano incompatibili e causa di divisioni”. Tale prospettiva si radica nel rifiuto della favola del “post-razziale” e trova nel movimento Black Lives Matter un costante riferimento concreto, talvolta anche critico, per scardinare il mito del sapere oggettivo bianco in grado di elaborare una teoria a tutto tondo dello sfruttamento animale in cui sarebbe la buona coscienza dei privilegiati a traghettarci nell’eden vegano. Come emerge dalla pubblicistica che ruota intorno allo slogan go vegan , la liberazione dovrebbe materializzarsi come somma di atti di volontà individuale, generati da un’empatia indifferente agli assi della razza, del genere o della classe e, in definitiva, del tutto disincarnata.
In questo scenario, quella delle sorelle Ko è, sempre prendendo a prestito una fortunata espressione di Breeze Harper, “un’avventura di giustizia epistemica”. Non è solo la determinazione del soggetto nero escluso dal discorso animalista bianco a demolire il trasversalismo politico di chi, anche in Italia, afferma incessantemente che tutti “gli altri discorsi” non fanno altro che sottrarre energie alla liberazione animale; è anche la storia della razza e dell’animalità che, riscritta da un soggetto nero con gli strumenti decoloniali, mostra come sia semplicemente impossibile parlare di due elementi distinti. Le autrici illustrano infatti come razzializzazione e animalizzazione siano legate in modo molto più stretto di quanto lascino pensare gli stessi argomenti che da qualche anno iniziano a circolare in alcune nicchie antispeciste.”
Trovate l’intera recensione nell’edizione di giugno di Ghinea.
“Dimenticate ciò che pensate di sapere sul femminismo nero, l’antirazzismo e la liberazione animale. Venite a intraprendere il viaggio insieme a queste due sorelle rivoluzionarie per cambiare il futuro del femminismo, della giustizia razziale, dell’etica e del veganismo”.
Cit. A. Breeze Harper
Nato dal lavoro sul web di due sorelle, “Afro-ismo” è un libro che mette a tema e intreccia animalità, animalizzazione, razzismo e supremazia bianca.
Le autrici, Aph e Syl Ko, mescolano gli elementi provenienti dalla cultura pop come i video, i blog e i social network e i concetti degli animal studies, degli studi critici sulla razza, sui neri e sul femminismo con l’intento di mostrare come sia necessario decostruire la relazione che gli umani impostano con gli animali e di come ciò sia un passo fondamentale per iniziare a mettere in discussione tutto ciò che crediamo dato e immaginare nuove vie.
Leggine un estratto…
“Avete mai incontrato qualcuno che mangia carne e vi bombarda
con innumerevoli domande basate su situazioni improbabili
solo per aver messo in discussione le sue abitudini alimentari?
Questa persona solitamente afferma: “Ma cosa faremmo
di tutti gli animali negli allevamenti se questi ultimi
non esistessero più? Dovremmo liberarli tutti in una volta?
Non sarebbe un problema?”. Oppure, avete mai parlato con
qualcuno della fine del sistema carcerario, e questa persona a
un certo punto dice: “Se dovessimo chiudere le prigioni, che
dovremmo fare con tutti i prigionieri, lasciarli semplicemente
uscire?”. Benché queste domande siano frustranti e a volte
prevedibili, mostrano fino a che punto le persone siano colonizzate
dal sistema vigente, tanto da non riuscire nemmeno a
immaginare nuove possibilità. Non sono in grado di figurarsi
un sistema diverso da quello che è stato loro imposto.
Trovarsi in un contesto nuovo e caotico fa parte dell’attivismo,
ed è ciò che ci permette di varcare la soglia di un territorio
concettuale inedito. Quando si abbandonano le più banali
convinzioni, può succedere di non sapere esattamente cosa
fare, ed è questa la situazione in cui dovrebbero trovarsi
molti più attivisti. La confusione è di solito un sintomo della
decolonizzazione del sé dal sistema vigente. Le risposte non ti
vengono semplicemente offerte, dal momento che d’ora in poi
sei costretto a pensare in maniera critica. Devi creare nuovi
schemi e immaginare nuovi modi di interagire con le persone
e di fare le cose. Spesso le persone colonizzate dal sistema contemporaneo
pongono le domande in modo paternalistico,
perché non vogliono che i cambiamenti avvengano, dal momento
che la maggior parte delle persone vive all’interno della
propria comfort zone. Il cambiamento è una minaccia.
Ricordo che una volta dissi a un professore sessista della
mia università che ero femminista. Avevamo appena terminato
una riunione e stavamo uscendo dall’edificio. Mentre camminavamo
verso l’uscita, mi chiese: “So che sei femminista e
non voglio offenderti, posso aprirti la porta? Consenti agli
uomini che ti aprano la porta o ti offendi?”.
Ovviamente, me lo stava chiedendo in tono paternalistico
per deridere le mie convinzioni politiche. Tuttavia, le sue domande
mi hanno fatto capire come fosse lui quello ansioso,
perché non voleva affrontare la sua confusione sulle interazioni
di genere. Era lui a essere ansioso e a non saper cosa fare
quando si trattava di aprire la porta, non io. Del resto, sono
certa che da quando le donne hanno conquistato maggiori diritti
negli Stati Uniti, gli uomini condizionati a considerarci
degli esseri sciocchi hanno reagito negativamente, sottolineando
quanto fossero confusi. Devo pagare la cena? Comprare
fiori? Aprire la porta?
Credo che la confusione sia positiva.
Il discorso sulla cavalleria, con la gente che continua a
chiedere se “la cavalleria è morta” o se dovrebbe tornare di
moda, non riappare per caso: è il contraccolpo all’avanzata
femminista. La mia generazione, quella dei cosiddetti millennial,
prova particolare nostalgia per la galanteria perché evidentemente
era “molto più facile allora”. Era più facile vivere
in un periodo in cui tali comportamenti potevano essere espliciti,
perché non dovevi metterli in discussione: la società ti diceva
cosa fare, come vestirti, come comportarti, e se seguivi il
copione ricevevi la ricompensa.
Molti uomini sciovinisti, aggrappati alle norme di genere
del passato, quando incontrano le donne danno al femminismo
la colpa di aver contribuito alla loro confusione. Sono
convinti che le interazioni di genere siano molto più stressanti
di prima. Tuttavia, non sapere come parlare o come comportarsi
con le donne è qualcosa di prezioso. Significa che non si
guarda più alle donne dal punto di vista univoco che ci vuole
tutte facilmente impressionate da esibizioni di finto rispetto
(aprirle la porta, ma al contempo non prendere sul serio ciò
che dice). Confusione significa che si è entrati in un nuovo
territorio e quel che bisogna fare è pensare. Non sapere cosa
fare perché i tuoi riferimenti stanno cambiando funge da catalizzatore:
dà vita a momenti in cui il tuo sé colonizzato si trova
a confrontarsi, o scontrarsi, con il tuo sé “decolonizzante”.
L’unico modo in cui possiamo ripartire da zero è darci la
possibilità di essere confusi. Gli spazi dell’attivismo sono in
fermento proprio perché le persone non vogliono accogliere
questa confusione necessaria. È divertente buttare lì la parola
“intersezionalità”, ma le persone in realtà hanno paura di creare
connessioni tra i diversi movimenti, perché ciò implicherebbe
creare nuovi schemi per il proprio attivismo. Ed è difficile,
specialmente se l’attivismo che pratichi è diventato la tua
identità.
L’attivismo è fatto quasi sempre di mantra e copioni già
scritti, non incoraggia il pensiero critico o le domande. In
realtà mi sono accorta che, quando ci impegniamo con altre
persone nell’attivismo, spesso si creano situazioni piuttosto
violente, perché riproducono gli stessi problemi contro i quali
si sta lottando. Persino i movimenti di giustizia sociale che si
aggrappano dogmaticamente all’intersezionalità sono spazi relativamente
acritici in cui le persone cercano una struttura da
seguire, non una struttura utile alla riflessione critica. Quando
pensi criticamente, non ti aggrappi necessariamente a un modello
o a un modo specifico di vedere il mondo: cambi continuamente
le prospettive, le dislochi.
Come ho scritto nel terzo capitolo, i vegan bianchi hanno
attaccato il mio articolo sui 100 Vegani Neri perché ritenevano
che spostare l’attenzione sulla razza e sull’animalità nell’ambito
dei diritti animali avrebbe distratto le persone dall’aiutare
“gli animali”. Sebbene molte persone fossero arrabbiate,
alcune sembravano davvero spaventate dal fatto che il
loro movimento stesse cambiando, al punto da affermare che
chi parla di razza e animalità (come me) appartiene a una “setta”
(non sto scherzando). No, non faccio parte di una setta. In
effetti, se non si riesce a interpretare le mie azioni o teorie come
qualcosa di diverso da un culto, allora forse si fa effettivamente
parte di un gruppo con una visione del mondo rigida.
Dato che esiste uno schema già consolidato su come impegnarsi
nell’attivismo per i diritti degli animali, alcune persone
si spaventano quando vedono messe in pratica modalità differenti.
Sono terrorizzate dai tentativi, compiuti da alcuni attivisti,
di mostrare come lo specismo si colleghi al razzismo e al
sessismo, perché “solitamente” non si fa così. Ho incontrato la
stessa ansia nei movimenti antirazzisti tradizionali. Quando
sollevo le questioni relative ad animalità e razza, spesso mi
trovo di fronte una resistenza immediata da parte di gente nera
che non crede che lo specismo abbia qualcosa a che fare con
il razzismo. In effetti, vengo umiliata sia negli spazi fisici sia in
quelli virtuali che hanno già un modo specifico di condurre
l’attivismo antirazzista, in quanto i modi di pensare che li caratterizzano
non sono progettati per interpretare la teoria che
politicizza l’animalità e la supremazia bianca.
Comprendo intimamente quanto possa essere spaventoso
trovarsi esposti a una teoria che trasforma radicalmente il tuo
attivismo. Di recente, mentre mi stavo preparando per una
presentazione e avevo quasi completato gli appunti, mi è capitato
di leggere alcuni articoli di Tommy Curry, docente di filosofia
africana, che sfidano il modo in cui le persone parlano e teorizzano gli uomini di colore e la violenza razziale.
Curry afferma che gli uomini di colore non sperimentano soltanto il
razzismo, ma simultaneamente anche una forma di razzismo
sessuale, considerato che sono regolarmente molestati sessualmente
e violentati dagli agenti di polizia (cosa che i media
mainstream tendono a non menzionare nelle proprie analisi
del razzismo e della violenza della polizia) e sono sottoposti a
traumi sessuali dai tempi della schiavitù. Curry sottolinea in
maniera brillante che, quando inquadriamo la violenza di genere
come un fenomeno che ruota attorno alle donne (in particolare
alle donne bianche), cancelliamo il modo in cui le
donne bianche hanno storicamente aggredito gli uomini di
colore e continuano a commettere violenza sessuale sui corpi
degli uomini neri. Questi articoli hanno frantumato le strutture
intersezionali che avevo usato nel mio attivismo, e ricordo
di essere andata nel panico: ero d’accordo con l’autore e,
proprio per questo, ritenevo che tutta la mia presentazione
non fosse valida perché mi rendevo conto delle mie innumerevoli
lacune concettuali. Tuttavia, ho integrato le sue teorie
perché ero desiderosa di rendere note queste idee provocatorie
e rivoluzionarie a chi mi avrebbe ascoltato.
Sfortunatamente, molti attivisti non permettono che le
teorie e le pratiche a loro care vengano alterate in maniera così
radicale. Alcuni preferirebbero rimanere in un sistema oppressivo
pur di conservare una qualche parvenza di potere, piuttosto
che affrontare nuove idee e nuove voci che destabilizzano
il loro bisogno di controllo.
Nel marzo 2015 sono stata a una conferenza di Angela
Davis nel corso di un ciclo di studi sulle donne. La parte del
suo incredibile discorso in cui mi sono maggiormente ritrovata
è stata l’analisi di come gli attivisti spesso riproducano comportamenti
oppressivi, non permettendo a sé stessi di cambiare
i propri punti di vista. In sostanza, Davis affermava che tutti
noi usiamo schemi nel nostro attivismo. Quando qualcuno
ci offre nuove informazioni capaci di turbare le nostre strutture,
molti di noi si aggrappano ancora più convintamente ai
propri schemi e punti di vista, perché abbiamo paura di cambiare.
Apparentemente non c’è niente di peggio per un attivista
che essere introdotto a una nuova prospettiva o una nuova
teoria capace di sfidare il modo in cui ha fatto le cose fino a
quel momento. Piuttosto che agire come se quella prospettiva
non esistesse, Davis ha suggerito di immergervisi e permetterci
di confrontarci con essa. Il riflesso di girarci dall’altra parte,
che caratterizza anche gli attivisti, è un prodotto della nostra
colonizzazione.
Dobbiamo incoraggiare le persone a mettere in discussione
i propri comportamenti e favorire la confusione, che è una
delle posizioni più rivoluzionarie in cui trovarsi, perché in tal
modo non si è vincolati da comportamenti e norme oppressive.
In questo spazio possiamo tutti essere architetti concettuali.
Le domande smantellano i copioni culturali e la confusione
può produrre nuovi schemi utili al cambiamento. La confusione
è una fase necessaria dell’attivismo e, se ci si accorge di
sentirsi raramente confusi e messi alla prova, allora forse si sta
seguendo un copione”.
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