Articolo di Loredana Magazzeni, originariamente comparso su Letterate Magazine
Scrive Monica Farnetti in Anacronismi. Appunti sul romanzo storico delle donne, che l’anacronismo è una «pratica feconda e inaggirabile della nostra relazione con il passato». Relazione che nelle opere letterarie e artistiche diviene «un dispositivo generatore di “somiglianze fuori posto”», forse perché «la storia è fatta di passato ma altresì di futuro, di memoria e profezia».
Di memoria e profezia ha bisogno il romanzo oggi per ancorarsi nella storia ma guardare al futuro come costruzione di senso.
Se Diderot considerava la storia “un cattivo romanzo”, scrive ancora Farnetti in Il manoscritto ritrovato. Storia letteraria di una finzione, spesso le scrittrici si sono affidate a diverse forme di narrazione (diari, lettere, romanzi) per riscoprire il passato e colmarne i vuoti.
Ogni realtà del passato infatti si rivela oggi portatrice di nuovo senso, se guardata con consapevolezza e capacità di sguardo che siano state nutrite dagli oltre quarant’anni di studi femministi in Italia e nel mondo.
È possibile così leggere i romanzi storici delle scrittrici di oggi come una forma di autoconsapevolezza o autocoscienza: lo scrive Giulia Valori nella sua tesi, riportando le parole di Carol Lazzaro-Weis, secondo la quale sono «i romanzi storici delle scrittrici, che invece “interiorizzano” la storia e la usano come mezzo per attuare un processo di autocoscienza». Tesi in cui riporta anche le parole di Laura Fortini: «la letteratura a firma di donne ha acquistato nel tempo una produttività simbolica di cui è risultata evidente la capacità di significazione politica», ossia attraverso i loro romanzi le scrittrici hanno restituito, al pari delle storiche femministe, dignità e importanza storica all’altra metà dell’umanità.
Il romanzo storico è il genere attraverso il quale si può risalire alla condizione delle donne e denunciarne i vuoti nella storiografia e nella letteratura, perché, come suggeriva Anna Banti, «la storia esista nel momento in cui viene scritta e in tale maniera tramandata». Ma raccontare l’altra è raccontare anche un po’ se stesse, ed è il gesto di cura che ci ha insegnato Adriana Cavarero nel suo saggio fondamentale Tu che mi guardi, tu che mi racconti.
Come Dacia Maraini in Marianna Ucria «usa il romanzo storico come mezzo per denunciare gli abusi subìti e legittimati dalla società patriarcale come anche la marginalizzazione storica delle donne» (Valori), così nel suo nuovo romanzo Lo scandalo della felicità Pina Mandolfo mette a fuoco non tanto un processo di emancipazione ostacolato, quanto la carica eversiva del desiderio e dell’aspirazione alla felicità, di cui dice il titolo.
Anche Ernestina Pellegrini in Donne allo specchio. Riflessioni su una collezione personale di biografie imperfette scrive: «biografia e autobiografia si legano così in un unico desiderio. Per una donna scrivere la vita di un’altra donna […] significa incidere l’esperienza di un soggetto femminile nella letteratura per capire ed elaborare in modo radicale il rapporto della donna con la realtà sociale in un determinato periodo storico; […] significa crearsi un alter ego per avere un’altra possibilità di destino femminile, insomma per reinventarsi in un altrove».
Diversi sono quindi i piani di lettura del romanzo di Pina Mandolfo, segnalati anche dalle spie linguistiche, in un linguaggio mimetico barocco con effetto anticato che rimanda al Seicento, nella tradizione delle lingue fiorite degli scrittori siciliani (da Bufalino a Consolo). Questo piano linguistico ibrido e dislocato supporta le varie istanze del testo: l’istanza femminista, il bisogno di colmare un vuoto di memoria storica, l’importanza delle microstorie.
Mandolfo è partita da documenti provenienti dall’archivio privato gentilizio Papè di Valdina e dalle ricerche correlate di Liboria Salomone per il periodico della Società Messinese di Storia Patria, che riguardano la vicenda della monacazione di Anna Valdina e le sue istanze, durate tutta la vita, per ottenere lo scioglimento dei voti. Gli inserti che costellano il romanzo, resi graficamente evidenti dal corsivo, sono appunto lacerti dei verbali «sopra la nullità della professione dell’Ill.e Donna Anna Valdina p.ssa di Valdina».
Scrive Mandolfo che la suggestione iniziale le è nata visitando una mostra presso l’Archivio di Stato di Palermo, sui Ruoli femminili nella documentazione d’Archivio nei secoli XII-XIX. A partire da qui si colloca la costruzione dei personaggi, la protagonista Anna e la sua fedele creata Giovanna Nasca, i personaggi della Badessa e del prelato, che si oppongono duramente e con continuità alle sue istanze di libertà e alla sua rabbia, la figura del padre, principe di Valdina e del fratello maggiore. Intorno, con precisione cinematografica la Sicilia dell’epoca, le rivolte, l’oppressione degli umili in contrasto con lo sfarzo e le liturgie delle cerimonie pubbliche della nobiltà.
Una storia che, data la professione di Pina Mandolfo, scrittrice, sceneggiatrice, regista e operatrice culturale, ha una sua compattezza temporale e visiva quasi cinematografica.
Sul piano storico, quello delle monacazioni forzate, oltre al Manzoni della Monaca di Monza e al Verga di Storia di una capinera, non si può non citare la recente riscoperta della vita e dell’opera di Arcangela Tarabotti (Venezia, 1604-1652), costretta dal volere paterno a una clausura forzata contro cui scrive almeno due opere, la Tirannia paterna, pubblicata postuma nel 1654 con il titolo ingannevole di La semplicità ingannata, titolo che sposta il focus da denuncia dell’oppressione patriarcale (famigliare, istituzionale) all’innocenza delle donne, vittime culturali della loro credulità e mitezza, e L’inferno monacale (1990). Considerata dalla critica «una scrittrice protofemminista e una delle prime teoriche politiche», la sua posizione è radicale, nel «condannare l’oppressione e l’ignoranza in cui sono tenute le donne» (Fubini, Leuzzi). Ma mentre nel libro di Tarabotti è Dio che fa alle donne il dono della loro libertà, nel libro della femminista Pina Mandolfo, è Anna Valdina che agisce in prima persona per dare la libertà a sé stessa.
Sul piano della storia vivente, metodologia praticata dalla Comunità di storia vivente di Milano, composta da studiose quali Maria Milagros Rivera Garretas, Marirì Martinengo, Marina Santini, Luciana Tavernini e Laura Modini, la vicenda narrata da Mandolfo farebbe parte della sua personale riflessione come donna, artista e attivista, che del “partire da sé” agisce una comprensione non mediata ma incarnata.
Sul piano della “storia indiziaria”, che con Carlo Ginzburg procedeva per indizi, spie, il paradigma indiziario indicava un modo di conoscenza della realtà fondato su “un metodo interpretativo imperniato sugli scarti, sui dati marginali, considerati come rivelatori.
Come scrissi su Letterate Magazine nel 2021, per presentare il saggio di Marina Giovannelli, Sulle tracce di Gasperina. Una biografia congetturale, l’andamento congetturale è quello che chiama invece oggi le scrittrici di storia a intervenire nel testo di cui si tengono in conto e si mettono in campo le congetture, ovvero le costruzioni sovrastrutturali del racconto, che si reggono sulle basi storiche vere, grazie a una qualità che è tipica di chi scrive racconti e non solo ricerche storiche: l’immaginazione. Ma è anche un lungo lavoro di indagine sul valore del tempo e sul carattere relazionale della memoria.
In questo romanzo, che suggerisce, tanti livelli di lettura e fruizione, ma anche tanta genealogia di pensiero delle donne da cui deriva, il focus è sulla scandalosa, smodata, ricerca di felicità delle donne, che a partire dal mito attraversa tutta la storia letteraria. A fare scandalo non è più solo la violenza dell’oppressione e dell’ignoranza in cui erano relegate, ma la loro scandalosa forza di ribellarsi e reagire, pretendendo la personale felicità (ben prima che divenisse un principio della Costituzione americana, non contemplato ancora in quella italiana).
Dunque l’elemento rivoluzionario e contemporaneo che Mandolfo apporta a questa storia di secolare oppressione e subalternità è appunto quello della rabbia: la rabbia di Audre Lorde, la rabbia delle minoranze e delle Riot, la rabbia che sa scalzare catene dentro e fuori di noi e apre lo spazio al desiderio e alla felicità.