Recensione di Cristina Quochi, originariamente apparsa qui
Con il romanzo “Il mio nome è Aoise” Marta Correggia, magistrato della Procura di Santa Maria Capua Vetere che si occupa di sfruttamento della prostituzione, è riuscita a realizzare un piccolo, importante miracolo: raccontare l’orrore della tratta delle donne nigeriane coniugando realtà e finzione, muovendosi in perfetto equilibrio fra un realismo crudo e spietato e una delicatezza che rasenta la poesia.
Sin dalle prime pagine è chiaro al lettore che non si tratta semplicemente di una storia di fantasia, o meglio che nella potentissima figura della protagonista si condensano le storie di tante ragazze che hanno avuto lo stesso tragico destino. Aoise ha soltanto diciassette anni quando viene indotta a lasciare il suo villaggio in Nigeria per raggiungere l’Italia dove, le promettono, un’organizzazione di connazionali la farà lavorare come parrucchiera. In questo modo, saldato il debito con chi le ha pagato il viaggio, potrà avere un futuro e mandare soldi alla madre e i fratelli più giovani in Nigeria, visto che il padre è morto lasciando la famiglia in assoluta povertà.
La realtà, di cui un po’ abbiamo sentito parlare anche noi ma che l’autrice conosce benissimo in virtù del suo lavoro, è ben diversa: il giuramento ju-ju che Aoise è costretta a fare prima di partire, la vincola a una sorta di patto col diavolo che, per quanto a stento concepibile per noi occidentali, ha su di lei un potere assoluto ponendola alla completa mercé dell’organizzazione criminale che la destina al mercato della prostituzione a Castel Volturno all’interno di una Connection House.
Con un linguaggio scorrevole e alternando il racconto delle atrocità subite nel presente con le esperienze vissute nell’amata Nigeria, dove la povertà e la difficile situazione familiare non hanno impedito ad Aoise, nonostante la sofferenza, di sentirsi comunque amata e partecipe di un contesto culturale ricco di significato, l’autrice conduce con grazia il lettore all’interno di una realtà che ha il triste sapore dell’incubo: una pennellata dopo l’altra, il quadro che tratteggia appare terribilmente vero e fonte di vergogna per la nostra società che, di fronte all’impero economico costruito dalle organizzazioni criminali nigeriane, libiche e italiane, preferisce fingere di non sapere, abbandonando tante donne al loro destino. Ridotte in schiavitù e private persino del loro nome, a queste ragazze non resta nulla: chi tenta di resistere o di opporsi finisce con l’essere uccisa o col subire comunque violenze tali da scivolare nella pazzia.
Eppure anche in quell’inferno può aprirsi uno spiraglio di speranza, possono nascere affetti profondi, sentimenti di amicizia e complicità fra persone che, nonostante l’orrore, non rinunciano alla loro umanità e offrono, mettendosi in gioco e spesso anche in pericolo, una possibile via d’uscita.
Un romanzo la cui lettura consiglio assolutamente per comprendere “dall’interno” un fenomeno che troppo spesso ci lascia indifferenti e che potrebbe essere addirittura proposto in classe agli studenti delle scuole superiori, nonostante le scene crude e raccontate senza filtri. Oltre ad essere una storia emozionante, avvincente e ben scritta, offre infatti tantissimi preziosi spunti di riflessione su una realtà ancora troppo poco conosciuta o raccontata parzialmente, che merita invece di essere affrontata e approfondita con onestà e coraggio.
(Cristina Quochi)