di Marta Traverso (Mentelocale, 18 luglio 2015)
– Se dico Arabia Saudita, quali sono le prime parole che ti vengono in mente?
Se dico Arabia Saudita, quali sono le prime parole che ti vengono in mente? Tento un’ipotesi: petrolio, Islam, La Mecca, re, Osama Bin Laden, Raif Badawi. Se dico Arabia Saudita dopo aver letto Nonostante il velo e parlato con l’autrice Michela Fontana, queste le prime parole che vengono in mente a me: abaya, hijab, niqab, halal, haram, Shura, mahram, mutaween. Immersa nella melodia dei termini più pronunciati tra le donne in quel Paese, scopro ancora una volta che ogni luogo e ogni comunità di questa terra non è un unicum – sebbene spesso lo percepiamo come tale – ma una complessa varietà di sfaccettature e sfumature.
Nonostante il velo racconta storie di saudite dirigenti d’azienda, avvocate, ingegnere, dottoresse, persino una viceministra. Saudite che si truccano e ricorrono alla chirurgia estetica, pur coprendosi il viso con il niqab ove sono tenute a farlo. Saudite che hanno studiato in Egitto, Europa e Stati Uniti, e hanno poi fatto ritorno a casa, perché è la loro casa, appunto. Saudite che scaricano film da Internet, leggono clandestinamente i romanzi haram (proibiti), cercano l’amore nelle chat e si informano su Twitter. Saudite che piangono la morte di Osama Bin Laden e si scandalizzano all’idea che una recente legge consenta loro di lavorare come commesse nei negozi di abbigliamento e biancheria intima femminile.
Scelgo di parlare con Michela perché queste storie, le loro sfaccettature e sfumature, meritano rispetto. Il rispetto che lei per prima, mi spiega, ha accordato loro durante la sua permanenza: «Devo premettere che quanto descrivo è solo uno spicchio della società saudita: le donne che hanno accettato di parlare con me, perché non tutte sono disposte o interessate a conoscere un’occidentale, e che hanno avuto il permesso dai rispettivi guardiani. Confesso di aver avuto difficoltà, all’inizio, nel trovare il tono più giusto per parlare, porre domande, creare un legame di reciproca fiducia. L’altra persona lo sente, quando ti rivolgi a lei con pregiudizio: solo sgombrando del tutto la mente mi sono potuta avvicinare a persone con una cultura così lontana dalla mia».
Le saudite non possono fare nulla senza l’approvazione del guardiano (mahram), il parente maschio più prossimo: né lasciare il Paese, né prelevare dal bancomat, né iscriversi all’Università o cercare un lavoro. La condizione femminile ha conosciuto una recente evoluzione quando il re Abdullah, deceduto da pochi mesi, ha accordato loro il diritto di voto e la possibilità di candidarsi ai consigli municipali e di entrare nella Shura, l’organo consultivo della monarchia. Nulla di tutto questo sarebbe avvenuto, se non per mano di un uomo. «La rivendicazione dei diritti delle saudite si può definire femminismo di Stato, precisa Michela. Donne che ottengono privilegi grazie a famiglie benestanti e di aperte vedute, che consentono loro di studiare all’estero e trovare poi lavoro in una delle grandi aziende saudite, talvolta quella di famiglia. Donne che vengono poi esibite, a cui è consentito incontrare persone straniere e andare all’estero, a rappresentare e raccontare il proprio Paese. Un ulteriore privilegio che si ottiene per concessione del re, Padre gentile e illuminato, e non un diritto che spetta loro tout court».
Una cosa alle saudite non è ancora permessa: guidare. Chi deve spostarsi per necessità quotidiane, per andare all’Università oppure al lavoro, deve essere accompagnata ogni giorno da un parente maschio o da un autista. Il diritto alla guida, che nel Paese con una segregazione sessuale tra le più rigide al mondo non è certo una priorità, ha acquisito nel tempo un forte valore simbolico. Michela ha incontrato alcune donne che nel 1990 hanno partecipato alla prima manifestazione della storia saudita, guidando nel centro della capitale Riad. «La guida è emblematica nel dare l’idea di quante limitazioni vivano le saudite, prosegue Michela. Una rivendicazione simbolica ma efficace, tanto che le ultime due donne che hanno guidato in pubblico, verso la fine del 2014, sono state arrestate con l’accusa di terrorismo. Molte di loro mi hanno confidato che guidare non è poi così importante, sia tra chi sostiene è così comodo avere l’autista, ma anche tra chi l’autista non può permetterselo. Il vero obiettivo, più difficile da affrontare apertamente, punta dritto al cuore della segregazione: non vogliamo più essere solo donne, ma esseri umani, mi hanno detto. La figura del guardiano ricorda – se mi si concede il paragone – quella dei/delle minorenni occidentali, che hanno bisogno dell’autorizzazione dei genitori quasi per ogni cosa che fanno: la condizione delle saudite è di essere minorenni a vita».
Ciò che tuttavia emerge, dalla lettura di Nonostante il velo, è che molte non cambierebbero la loro condizione. Il loro destino è radicato fin dalla primissima infanzia attraverso una rigida educazione wahhabita (la corrente dell’Islam praticata in Arabia Saudita), e anche chi ha vissuto all’estero vede l’Occidente come un luogo senza morale e pericoloso. Mi domando quanto sia stata reciproca la curiosità, quante e quali domande siano state poste a Michela, non solo sulla condizione femminile in Occidente ma anche su argomenti più leggeri come la cucina italiana. «Ho percepito di rado una simile curiosità da parte loro, non sono state in molte a pormi domande, e qualora avvenisse era sempre restando sulla difensiva. Come noi occidentali abbiamo preconcetti sull’Islam duri da sfatare, loro ne hanno di analoghi nei nostri confronti, e non sembravano interessate a ottenere chiarificazioni a riguardo. Il trovarsi nella stessa stanza con un’occidentale e parlare con lei esauriva già la loro curiosità. Anche le più giovani, le attiviste, mi chiedevano di essere un mezzo per far sentire la loro voce al di fuori del Paese, ma nulla di più».
Michela è tornata in Italia da circa due anni. Le donne che ha incontrato sanno che le loro conversazioni sono divenute un libro, ma non lo possono leggere. Nonostante il velo è haram (proibito) in Arabia Saudita. Chiedo a Michela cosa le manca di più di quel Paese: «Vivere in Arabia Saudita mi ha arricchita moltissimo, sotto diversi aspetti: io stessa, nonostante fossi straniera, ho dovuto sottostare alle stesse regole imposte alle donne saudite. In un Paese occidentale sarebbe impensabile vivere così immersa in ambienti esclusivamente femminili, e ho compreso che le dinamiche emotive e molti argomenti di conversazione fra donne sono identici in ogni luogo del mondo. Non sarebbe giusto andare da queste donne a impartire lezioni, a trasmettere i nostri valori come i più giusti o gli unici giusti. Il solo risultato che si ottiene è un atteggiamento di difesa e ostilità da parte delle donne. L’Arabia Saudita è un Paese dove tutto procede molto lentamente, e dove i principi della cultura e della religione sono radicatissimi in ogni persona. Ho incontrato ragazze molto giovani, la cui mentalità è assai diversa da quella delle loro madri: chattano con i ragazzi per scegliere da sé il futuro marito, in un Paese dove donne e uomini non imparentati non possono stare nella stessa stanza. I desideri di cambiamento devono maturare dall’interno, nessuno glieli può imporre».
Vero. L’istinto di liberare le oppresse viene meno, proseguendo nella lettura, quando ci si rende conto che poche fra loro vogliono o ritengono di poter essere liberate. Solo chi vive situazioni di estrema violenza, come la ragazza dell’ultima storia raccontata nel libro, che scappa non da una cultura o da una religione ma dal pericolo per la sua stessa vita. Tutte le altre – ripeto, donne benestanti e con un guardiano aperto, in una società dove la povertà è presente ma tenuta nascosta – sanno dalla nascita che la loro vita è quella, e la scelgono di buon grado anche dopo aver conosciuto il modo di vivere occidentale. Come una donna ha fatto notare a Michela, anche da voi le donne guadagnano meno degli uomini, no? Non siamo poi così diverse.