di Claudia Cangemi (Il Giorno, 19 aprile 2015)
– Michela Fontana racconta la vita la vita delle donne a Riad.
Il volto meno disumano dell’integralismo islamico. Si potrebbe forse definire così l’Arabia Saudita, accusata in passato d’essere stata culla dei terroristi di Al Qaeda ma ufficialmente al fianco dell’Islam moderatoe del fronte anti Isis. Ma il Paese governato in base ai dettami della Sharia è noto alle cronache anche per la rigida segregazione e le oppressive limitazioni della libertà delle donne, cui è vietato guidare la macchina e muoversi senza un “guardiano”, pena l’arresto. In questa nazione teocratica, e ricca di preziose materie prime (il petriolio innanzi tutto) ha vissuto per due anni e mezzo Michela Fontana, giornalista e saggista milanese con lunghi trascorsi all’estero anche come addettascientifica nelle ambasciate, dagli Stati Uniti alla Cina. E con il pragmatismo tipico del documentarismo e il piglio del miglior giornalista d’inchiesta, Fontana ha voluto esplorare in profondità quella società, per capire cosa pensano le donne sotto e “Nonostante il velo – Donne dell’Arabia Saudita“. «Parlare con le dirette interessate era il solo modo per capire – spiega-. In una società così chiusa ci vuole tempo per superare la diffidenza inculcata verso l’occidente inculcata in queste persone».
Qual è il quadro che emerge dalle sue ricerche sul campo? «Dall’interno può sembrare una società immobile in regressione, ma da vicino si scorge qualche segnale di movimento, in mezzo a mille contraddizioni».
Nell’anno 2015 come possono le donne arabe accettare una condizione così anacronisticamente subalterna? «Pare incomprensibile in effetti. Ma occorre considerare il fatto che l’Arabia Saudita non è una democrazia bensì una monarchia assoluta di tipo teocratico. i sauditi fon dalla tenera età subiscono un vero e proprio lavaggio del crevello: basti pensare che frequentano 5 volte al giorno di lezioni religiose e il merito più grande è recitare a memoria tutto il Corano».
Nel libro racconta un episodio straziante, accaduto tredici anni fa. «Una storia ancora peggiore di quella ricordata nella Giornata della Donna. L’11 marzo 2002 scoppiò un incendio in una scuola della Mecca. Le ragazze che seguivano le lezioni tentarono di mettersi in salvo, ma i sacerdoti le ricacciarono indietro perchè non indossavanoo “abaja”e il velo. Impedirono di entrare persinio ai vigili del fuoco e ai genitori disperati. Morirono in quindici, altre cinquanta rimasero ferite».
Ci racconti come vive “l’araba media”. «È soggetta al potere maschile, come si suol dire, dalla culla alla tomba. In genere passa senza soluzione di continuità dalla prevaricazione del padre a quella del marito. raramento lavora e resta quasi sempre segragata in ambienti esclusivamente femminili. Non può uscire se non velata o in compagnia di un uomo».
E quali sono i segnali di cambiamento di cui parla? «Le ragazze studiano più a lungo, si sposano spesso molto più tardi (non a 16-17 ma a 25 o 30) o a volte rifiutano le nozze per restare nella famiglia d’origine e non subire più botte e violenze o di finire ripudiate. Sempre più frequenti sono i matrimoni d’amore anzichè combinati dalle famiglie».
Merito di tv e web che portano il mondo in casa? «Infatti, questo è un elemento più tra i più stridenti. In un Paese dove viene impedito ogni contatto tra uomini e donne, molte ragazzine chattano via Internet proprio come le loro coetanee americane…».
E dal virtuale si passa poi al reale? «Capita, sì. Ma poichè le più emancipate e intraprendenti sono considerate “facili”, spesso i ragazzi ne approfittano: le seducono promettendo il matrimonio e poi le lasciano, senza subire alcuna riprovazione sociale. Gli uomini possono sposare tutte le donne che sono in grado di mantenere e c’è persino una forma di adulterio legalizzato: il matrimonio temporaneo può durare pochi giorni e non implica alcun obbligo».
Come possono accettare tutto ciò, le donne? «Oltre all’educazione oppressiva, hanno molta da perdere. Essere messe al margine o in carcere. Alcune poi sostengono di sentirsi protette dalla segregazione e di considerare noi occidentali alla mercé della violenza maschile».
C’è modo di aiutarle sulla via dell’emencipazione? «Le attiviste chiedono di parlare di loro il più possibile: la cattiva reputazione internazionale è il tallone d’Achille del regime».