di Pinella Leocata (La Sicilia, 5 marzo 2019)
– La riscoperta. Deborah Ardilli nel suo volume ricostruisce le lotte delle donne degli anni Sessanta e Settanta del ‘900, spesso dimenticate e sconosciute alle nuove generazioni, attraverso gli scritti politici e programmatici elaborati da gruppi e singole tra il 1964 e il 1977, partendo dalla consapevolezza che «la nostra inferiorità era oppressione»
Le nuove generazioni di donne hanno smarrito la memoria del femminismo radicale degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, un periodo dimenticato anche dall’editoria che lo ha raccontato in modo monologico, riduttivo, sebbene al suo interno abbiano convissuto anime ed esperienze diverse.
Soprattutto a loro, alle nuove generazioni, è rivolto il libro “Manifesti femministi” (Morellini editore) di Deborah Ardilli, studiosa di teoria politica e storia dei movimenti femministi, che ricostruisce la ricchezza e la varietà del femminismo radicale attraverso gli innumerevoli scritti politici e programmatici elaborati da gruppi e singole femministe tra il 1964 e il 1977.
ll femminismo radicale – scrive – non è una cosa, congelata in assiomi fuori dal tempo, ma una modalità storicamente (e geograficamente) situata di pensarsi. di agire e di pensare il proprio agire». E l’atto stesso di elaborare e pubblicare un manifesto è una pratica politica. Lo ha spiegato bene – nel corso della presentazione del saggio tenutasi nei giorni scorsi al centro antiviolenza Thamaia di Catania – Maria Grazia Nicolosi, docente di Letteratura inglese comparata e studi di genere nell’università etnea.
Il manifesto politico è un documento pubblico per definizione, vecchio quanto la storia del soggetto liberale-borghese, un atto retorico che ha avuto sempre una declinazione al maschile. Dunque per le donne scrivere manifesti, rendere pubblica la propria voce in un territorio maschile, era un atto di rottura, un inter¬vento politico, a prescindere dal contenuto, una scelta dirompente perché interpella e chiede di prendere posizione. Un atto divisivo».
E se della diversità, e rivalità, delle posizioni delle femministe si è persa la memoria, è anche perché le donne hanno difficoltà a gestire il “polemos”. A differenza degli uomini che sono addestrati alla competizione dialettica e legittimati a farlo. Invece le donne vivono lo scontrarsi tra loro come una cancellazione del proprio essere, come se litigando si dissolvessero.
“Manifesti femministi” vuole riportare alla luce tutta la ricchezza e la complessità delle pratiche politiche e delle riflessioni teoriche di quel periodo, anche lanciando un ponte al di qua e al di là dell’Atlantico per mettere in risalto la reciprocità del debito delle elaborazioni prodotte in Italia, Francia e Stati Uniti.
Perché, come sottolinea Deborah Ardilli, il movimento femminista è transnazionale e, a differenza di quanto si legge nei resti universitari, non procede per ondate omogenee. Ne consegue che gli anni ’60 e ’70 sono quelli della radicalità, della valorizzazione di una specificità sessuata (essenzialismo): gli anni ’80 quelli della politica della differenza, basata sull’affidamento: e i ’90 quelli in cui in nome della micropolitica del quotidiano si smarriscono i riferimenti al potere politico.
I testi dei manifesti femministi ci riconsegnano una realtà storica più complessa e varia: dalle riflessioni delle attiviste americane dei movimenti per i diritti civili sulla doppia subordinazione di genere e di razza, alla centralità e diversità dei gruppi di autocoscienza, esperienza in seguito svilita come se fosse stato un modo di indulgere ad una dimensione privata, mentre quel privato aveva urta grande valenza politica.
E ancora. Gli scritti programmatici restituiscono gli argomenti diversi con cui è stata giustificata la scelta separatista, le analisi sulla complicità delle donne alla propria subordinazione, le spiegazioni diverse e contrastanti sui motivi del per¬durare del potere patriarcale, le differenti posizioni critiche rispetto al modello di emancipazione femminile, la politicizzazione del lesbismo all’interno del movimento, le diverse interpretazioni sulle origini del patriarcato, e le riflessioni sul modo in cui il conflitto tra classi di sesso s’interseca con quello servo-padrone.
Tutte questioni aperte ancora oggi e che continuano ad interpellarci.
Per questo nel saggio di Deborah Ardilli non si ritrova alcun trionfalismo, non si sostiene che il femminismo è l’unica rivoluzione riuscita del Novecento, ma viene messo in evidenza lo scarto tra gli obiettivi del movimento e ciò che si è riuscito a fare.
E questo a partire da una consapevolezza di fondo di cui noi donne sono debitrici a Carla Lonzi: la scoperta che ala nostra inferiorità era oppressione.. Una coscienza difficile da acquisire e da porre al centro del confronto perché, soprattutto nell’attuale contesto storico, «si teme che dirsi oppresse equivale a dirsi vittime, a condannarsi ad una passività senza riscatto».
Invece, ricorda Ardilli, per le generazioni del femminismo radicale «questo aut aut non esisteva e la coscienza dell’oppressione corrispondeva alla propria soggettivazione, punto di partenza del lavoro di autocostruzione».