di Michela Fontana (La 27esima Ora, 7 febbraio 2018)
– Cosa cambia davvero per le donne in Arabia Saudita finalmente libere di guidare? Le recenti decisioni del giovane erede al trono Mohammed bin Salman (MBS) che agisce con l’avallo del padre re Salman consentiranno l’emancipazione femminile che molti auspicano? Si può essere ottimisti? O si tratta soltanto di una delle innovazioni «cosmetiche» per compiacere le opinioni pubbliche dei paesi occidentali, primo fra tutti gli stati uniti di Trump che con l’Arabia Saudita ha rinsaldato gli storici legami?
Quando solo pochi anni fa le amiche che frequentavo a Riad organizzavano campagne per il diritto alla guida, nessuna di loro avrebbe potuto prevedere quando il divieto sarebbe caduto. O quando i cinema sarebbero stati riaperti, avrebbero potuto assistere ad una partita di calcio o entrare in un ufficio senza un accompagnatore maschile. Il cambiamento è stato sempre lento in Arabia Saudita, soprattutto agli occhi di un occidentale. La società che io ho conosciuto dal 2010 al 2013, ai tempi del precedente re Abdullah, appariva per la maggior parte conservatrice, anche se si percepivano segnali di fermento e si coglieva l’anelito della parte femminile, la più vivace e pronta al cambiamento. Ma le donne saudite hanno sempre avuto chiaro che quanto ottengono è una concessione dall’alto e mai la conquista di un diritto, in un paese dominato da una monarca assoluto. E — tranne pochi casi, come quello di Manal Al Sharif, l’animatrice della campagna per la guida del 2011, che ora vive fuori dal Paese — non hanno mai spinto le loro rivendicazioni fino a rischiare davvero l’incarcerazione prolungata. Nulla di paragonabile alle lotte delle suffragette inglesi di cento anni fa, pronte a morire. Anche se non si possono paragonare culture e paesi profondamente lontani come Inghilterra e Arabia Saudita.
Re Abdullah era visto dalla donne come un padre benevolo che aveva concesso loro il diritto di sedere nello Shura council, la possibilità di votare ed essere elette alle elezioni municipali, di accedere alle borse di studio per l’estero, purché accompagnate da un parente maschio e aveva consentito loro di lavorare come commesse nei negozi di profumeria e biancheria intima. Aveva anche aperto la più grande università femminile del mondo che ospita 60 mila studentesse. E dove gli uomini — anche docenti — non sono ammessi. Le concessioni di casa Saud alle donne di ieri e di oggi sono un dato positivo innegabile, e tutte le mie amiche saudite ne sono felici, ma il regno Saudita resta ancora un paese paternalista dove la sottomissione della donna è parte integrante del patto tra casa Saud e religiosi wahhabiti, basato sull’adesione ad un islam puro e privo di concessioni sociali. Un rigoroso «nazionalismo religioso» , come lo chiama Madawi al Rasheed la studiosa saudita che vive e insegna a Londra nel suo libro («A most masculine state gender politics and Religion in Saudi Arabia», Uno stato molto maschile: genere politica e religione in arabia saudita) . La stessa studiosa che ha chiamato «femminismo di stato» la vetrina di donne saudite che hanno successo nella professione spesso esibita sulla scena internazionale dalla casa reale.
La rivoluzione dinastica del giugno dello scorso anno ha certamente cambiato la fisionomia del Paese. Dare il potere ad un 32enne rappresenta un salto generazionale rivoluzionario dopo che sul trono del regno saudita si erano soltanto succeduti figli Ibn Saud, (fondatore del regno nel 1932), fratelli sempre più anziani, che hanno guidato un paese dove il 70 per cento degli abitanti ha meno di trent’anni. E dove erano in attesa di arrivare al potere tutti i cugini più anziani di MBS. Mohammed BS oltre che giovane, e’ deciso, spregiudicato, pronto alla guerra, al ridimensionamento della polizia religiosa, e alla resa dei conti all’interno della famiglia reale, come dimostra la sua recente campagna contro la corruzione.
Nel documento Vision 2030 ha tracciato insieme al padre il profilo di una paese più moderno, che non dipende interamente dai proventi del petrolio, che vuole ridurre l’impiego dei lavoratori stranieri. Un regno che avrà bisogno di donne che lavorano. Che guidano, fanno la spesa e portano i figli a scuola. E che saranno anche in grado — almeno teoricamente— di uscire di casa e fuggire da un padre o un marito violento, alla guida di un automobile. Sarà capace il futuro re di cambiare la cultura paternalista profonda , fino ad abolire totalmente la segregazione di genere e la figura del guardiano ( padre, marito, fratello, figlio maschio) che ha ancora sulle donne potere assoluto e le rende eterne minorenni.? E impedisce loro di viaggiare senza la sua autorizzazione , di ottenere la custodia dei figli dopo il divorzio, di sposarsi con uno straniero? Oppure tutto sembra cambiare per le donne perché non cambi davvero nulla? Avendo frequentato a lungo le donne saudite sono ottimista. Nonostante il velo, ce la faranno.
Michela Fontana è l’autrice di «Nonostante il velo» (VandA ePublishing-Morellini Editore) in libreria da maggio 2018.