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Recensione – Il corpo lesbico

Un corpo che si chiama desiderio. Wittig ritradotta

di Jamila Mascat, articolo su Nazione Indiana

VandA ha recentemente ripubblicato Il corpo lesbico di Monique Wittig nella traduzione di Deborah Ardilli, che ne ha anche curato l’introduzione.

Qui di seguito l’incipit dell’introduzione e del libro.

di Deborah Ardilli

All’interno del romanzo di formazione della generazione che, nell’ultimo scorcio del Novecento, ha tentato l’assalto al dominio patriarcale, Monique Wittig occupa il posto riservato alle grandi esploratrici, alle intrepide che prendono il largo per inoltrarsi in mare aperto, in attesa di essere raggiunte da chi è rimasta indietro. «Wittig è stata il nostro primo spaesamento culturale», ha scritto Simonetta Spinelli (2001) rievocando la forza d’urto di una scrittrice* capace di far deflagrare assetti categoriali ritenuti intangibili e, perciò stesso, di suscitare reazioni contrastanti nella generazione femminista e lesbica degli anni Settanta. In generale, non è affatto raro che il disorientamento provocato dall’incontro con l’inaudito dia luogo a risposte divergenti, sospese tra i poli estremi dell’accettazione senza riserve e del rifiuto pregiudiziale. Lo spaesamento può essere la prima tappa di un’avventura politica e conoscitiva perseguita fino alle estreme conseguenze o, viceversa, può indurre l’attivazione di meccanismi difensivi finalizzati a neutralizzare l’agente estraneo insinuatosi in un sistema di credenze naturalizzate. In particolare, se si volge lo sguardo alla prima ricezione italiana del Corpo lesbico, apparso in traduzione nel 1976 per le Edizioni delle Donne, salta agli occhi una pronunciata tendenza alla neutralizzazione.

Certo, il vantaggio prospettico della posterità impone un esercizio di carità ermeneutica nei confronti del lavoro di chi ci ha precedute: le valutazioni che oggi sono possibili, all’epoca erano precluse, o rese difficilmente udibili, da una serie di fattori contestuali che hanno pesantemente condizionato la ricezione italiana di Wittig. Nel 1976 non esiste ancora, nel nostro Paese, una vera e propria soggettività lesbofemminista e i contatti del movimento delle donne con l’area francese sono mediati quasi esclusivamente da incontri periodici con le donne di Psychanalyse et politique, il gruppo raccolto intorno all’autorità carismatica di Antoinette Fouque, avverso al riconoscimento politico del lesbismo e incline semmai a riferirsi a un’omosessualità primaria concepita in chiave psicoanalitica. Per Psychanalyse et politique, la funzione del movimento delle donne consisteva infatti nel riattivare l’originaria relazione madre-figlia in modo da farne la via maestra per il recupero della differenza femminile forclusa dall’ordine fallogocentrico. Era questa la forma archetipa dell’omosessualità individuata da Fouque, per altro convinta che non esistesse nulla di più falso della celebre affermazione di Simone de Beauvoir – successivamente ripresa da Wittig in chiave lesbica – secondo cui «donna non si nasce». A propria volta, la valorizzazione simbolica dell’omosessualità primaria e della libido femminile che le era connessa – una libido creandi assimilata in tutto e per tutto alla procreazione – era intesa da Fouque come tappa essenziale di processo più ampio, finalizzato alla costruzione di relazioni più “autentiche” con gli uomini, libere dal potere, fondate sull’amore e sull’avvento di una “vera” eterosessualità. Poste tali premesse, l’ostilità di Psychanalyse et politique era riservata alla tendenza femminista rivoluzionaria, rea di volersi liberare simultaneamente della discriminazione e della differenza sessuale, e a maggior ragione alla coscienza politica lesbica che, in quella tendenza, affondava le proprie radici. Il lesbismo politico, inteso come indisponibilità permanente allo sguardo maschile, come denuncia vivente dell’oppressione patriarcale, come possibilità incarnata di rimettere in questione la società eterosessuale e le sue istituzioni, rappresentava, all’interno del quadro politico e concettuale disegnato da Psychanalyse et politique, una provocazione inconcepibile o, al più, una fissazione di segno regressivo.

Nella battaglia delle idee, Antoinette Fouque poteva inoltre giovarsi di una risorsa egemonica come le éditions des femmes la casa editrice creata nel 1972 da Psychanalyse et politique, grazie ai generosi finanziamenti dell’ereditiera Sylvina Boissonnas, con l’obiettivo di promuovere la letteratura femminile rifiutata dalle case editrici mainstream e di creare un presidio culturale capace di fare da cassa di risonanza alla teoria della differenza sessuale.

L’ambiguità irrisolta tra la denigrazione del lesbismo, squalificato da Psychanalyse et politique come grottesca imitazione del modello maschile, e l’enfatica messa in scena dell’amore tra donne, è stata il binario ideologico su cui ha viaggiato Il corpo lesbico nella sua prima sortita al di qua delle Alpi: circostanza, questa, che ha impedito alle femministe italiane di apprezzare appieno la novità della visione politica del lesbismo tratteggiata da Wittig. Se la scrittrice francese intuisce precocemente la necessità di accelerare il passo per non lasciar rifluire la radicalità originaria del movimento, le italiane continuano invece a procedere con maggiore prudenza. Del resto, l’eco dei conflitti che infiammano il movimento di liberazione delle donne a Parigi, in particolare a partire dal momento in cui Wittig inizia a premere (senza successo) per la costituzione di un Fronte Lesbico Internazionale**, non raggiunge il nostro Paese: le prime manifestazioni di autocoscienza lesbica legate al femminismo si sviluppano in un contesto non toccato dalla «grande disputa tra le madri e le amazzoni» (Wittig e Zeig [1976] 2020, p. 51) che, a metà degli anni Settanta, porta la scrittrice ad allontanarsi dalla Francia e a stabilirsi negli Stati Uniti. Estranee ai quadri di riferimento entro cui si svolge la discussione fra le femministe italiane in quegli anni sono anche le premesse teoriche che, in Wittig, saldano l’affermazione del punto di vista lesbico all’attacco sferrato contro l’eterosessualità, intesa come sistema sociale fondato sull’appropriazione delle donne da parte degli uomini e come forma ideologica volta a giustificare, tramite la dottrina della differenza tra i sessi, tale appropriazione. Mancano ancora all’appello gli scritti in cui Wittig espone i lineamenti teorici della propria politica; e soprattutto manca, in Italia, un filone autoctono di femminismo radicale e materialista in grado di sintonizzarsi con la proposta della francese.

Date queste condizioni, sfugge una chiave interpretativa indispensabile per avvicinare Il corpo lesbico: nella pratica politica, letteraria e teorica di Wittig il lesbismo non denota un orientamento sessuale o un marchio identitario, non configura un’ennesima differenza essenziale candidata al riconoscimento. Esso si pone invece come negazione determinata di un rapporto sociale di oppressione e, perciò stesso, come punto prospettico privilegiato in vista della ricostruzione del contratto sociale al di là dei meccanismi costitutivi di alterizzazione e inferiorizzazione delle donne riprodotti nel contesto del dominio eterosessuale. Come ha sottolineato Christine Delphy, sua sodale all’interno delle Féministes Révolutionnaires e delle Gouines Rouges (le “lesbicacce rosse”) nei primi anni Settanta e poi ancora nei tre anni di vita della rivista Questions féministes (1977-1980), Wittig non è stata certo la prima scrittrice francese a far sapere di essere “omosessuale”: è stata invece la prima «ad aver collocato il lesbismo al centro della sua politica, e la sua politica al centro del lavoro di scrittura» (Delphy [1985] 2020). Al di fuori di queste coordinate, la prima ricezione italiana del Corpo lesbico risente di una provincializzazione profondamente equivoca del messaggio wittighiano. Ascritto d’ufficio al novero della “scrittura femminile”, il libro è presentato come un esempio di rivalutazione della differenza sessuale, alla sua figurazione del lesbismo vengono attribuite le fattezze di un’omosessualità onirica equivalente all’autoerotismo femminile e i presupposti di poetica che governano l’orchestrazione del testo passano clamorosamente inosservati.

[…]

*Wittig prediligeva per sé la denominazione écrivain (scrittore), in luogo del femminile écrivaine (scrittrice), per distanziarsi da esponenti dell’écriture féminine come Hélène Cixous, Luce Irigaray, Annie Leclerc e Chantal Chawaf, a cui imputa un fraintendimento naturalistico del lavoro di scrittura, ridotto alla stregua di una secrezione naturale. Ciò nonostante, al pari di altre studiose (per esempio Feole 2020), utilizzerò il sostantivo “scrittrice” per indicare Wittig, ferma restando la necessità di dissociare il termine da ogni riferimento alla “scrittura femminile” e al suo apparato categoriale: differenza, specificità, natura, produzione inconscia, rimandi metaforici alla generatività corporea. Sulla critica di Wittig all’écriture féminine, cfr. Wenzel 1981; Griffin Crowder 1983; Armengaud 1998; Lasserre 2018.

** Wittig inizia a pensare al progetto della costituzione di un Fronte Lesbico Internazionale nel novembre del 1974, in occasione della Conferenza Internazionale delle Donne di Francoforte, a cui partecipano 600 donne provenienti da 18 paesi. L’idea di una coalizione lesbica internazionale è la proposta politica che Wittig lancia per evitare un riassorbimento del movimento di liberazione delle donne all’interno dell’ideologia patriarcale, eventualità che nella Francia di quel periodo appariva tutt’altro che remota: il 1974, infatti, non è solo l’anno dell’esplosione pubblica dell’écriture féminine, ma anche quello della creazione del Segretariato di Stato sulla condizione femminile, istituito dopo l’elezione presidenziale di Valéry Giscard d’Estaing. La proposta, tuttavia, non sopravvive all’ostilità che Wittig incontra non tanto da parte di Psychanalyse et politique quanto da parte della componente maggioritaria delle Féministes Révolutionnaires. Per la ricostruzione di queste vicende, si vedano Turcotte 2003 ed Eloit 2018; 2019. L’amarezza e la disillusione di Wittig per gli esiti di quelle vicende hanno trovato una trasposizione letteraria in Paris-la-politique (Wittig 1999).

***

Monique Wittig,  Il corpo lesbico

In questa geenna dorata adorata nera è tempo di dire addio m/ia molto bella m/ia molto forte m/ia molto indomita m/ia molto sapiente m/ia molto feroce m/ia molto dolce m/ia prediletta, a ciò che esse chiamano l’affetto la tenerezza o il grazioso abbandono. Ciò che ha corso qui, nessuna lo ignora, non ha nome per ora, che esse lo cerchino se ci tengono veramente, che si lancino in una battaglia di belle rivalità, cosa di cui i/o m/i disinteresso quasi completamente mentre tu puoi con voce da sirena supplicare qualcuna dalle ginocchia brillanti di venirti in aiuto. Ma lo sai, nessuna potrà sopportare di vederti gli occhi revulsi le palpebre tagliate gli intestini gialli fumanti spalmati nell’incavo delle tue mani la lingua sputata fuori dalla bocca i lunghi filamenti verdi della bile colanti sui tuoi seni, nessuna potrà sopportare l’ascolto della tua risata bassa frenetica insistente. Lo splendore dei tuoi denti la tua gioia il tuo dolore la vita segreta delle tue viscere il tuo sangue le tue arterie le tue vene i tuoi abitacoli cavi i tuoi organi i tuoi nervi la loro disgregazione il loro zampillo la morte la lenta decomposizione il lezzo il divoramento da parte dei vermi il tuo cranio aperto, tutto sarà per loro ugualmente insopportabile.

Se qualcuna pronuncia il tuo nome m/i sembra che le orecchie siano sul punto di caderm/i pesantemente a terra, sento il sangue surriscaldarsi nelle m/ie arterie, percepisco d’un tratto i circuiti che irriga, un grido m/i sale dal fondo dei polmoni per farm/i scoppiare, stento a contenerlo, i/o divento bruscamente il luogo dei più oscuri misteri, la pelle m/i si accappona e si copre di macchie, i/o sono la pece che brucia le teste assalitrici, i/o sono il coltello che squarcia la carotide delle agnelle neonate, i/o sono le pallottole delle mitragliatrici che perforano gli intestini, i/o sono le tenaglie arroventate al fuoco che tormentano le carni, i/o sono la frusta che flagella la pelle, i/o sono la corrente elettrica che folgora e paralizza i muscoli, i/o sono il bavaglio che imbavaglia la bocca, i/o sono la benda che copre gli occhi, i/o sono i lacci che legano le mani, i/o sono l’aguzzina forsennata galvanizzata dalle torture e le tue grida m/i eccitano tanto più m/ia prediletta perché le trattieni. A questo punto i/o ti chiamo in m/io aiuto Saffo m/ia incomparabile, damm/i a migliaia le dita che leniscono le ferite, damm/i le labbra la lingua la saliva che porta nel lento nel dolce nel velenoso paese da cui non si può fare ritorno.

Scopro che la tua pelle può essere rimossa delicatamente pellicola per pellicola, tiro, si solleva, si avvolge sopra le tue ginocchia, a partire dalle ninfe tiro, scivola lungo il ventre, sottile fino all’estrema trasparenza, a partire dai lombi i/o tiro, la pelle scopre i muscoli rotondi e i trapezi della schiena, si solleva fino alla nuca, arrivo sotto i tuoi capelli, le m/ie dita ne attraversano la massa, tocco il tuo cranio, lo tengo con tutte le dita, lo comprimo, palpo la pelle sull’insieme della scatola cranica, strappo brutalmente la pelle sotto i capelli, scopro la bellezza dell’osso lucente percorso da vasi sanguigni, le m/ie mani frantumano la volta e l’occipite dietro, le m/ie dita ora sprofondano nelle circonvoluzioni cerebrali, le meningi sono attraversate mentre il liquido rachidiano defluisce da ogni parte, le m/ie mani sono immerse negli emisferi molli, cerco il bulbo rachidiano e il cervelletto racchiusi sotto da qualche parte, ti ho afferrata ora tutta intera muta immobilizzata ogni grido bloccato in gola i tuoi ultimi pensieri dietro gli occhi chiusi nelle m/ie mani, il giorno non è più puro del fondo del m/io cuore m/ia amatissima.

Con i tuoi diecimila occhi tu m/i guardi, lo fai e sono i/o, non m/i muovo, ho i piedi completamente piantati nella terra del suolo, m/i lascio raggiungere dai tuoi diecimila sguardi o se preferisci dallo sguardo unico dei tuoi diecimila occhi ma non è lo stesso, questo sguardo immenso m/i tocca in ogni parte, esito a muoverm/i, se alzo le braccia verso il sole tu abbassi gli occhi di sbieco rispetto alla luce, scintillano ma tu m/i guardi oppure se vado verso l’ombra ho freddo i tuoi occhi non sono visibili là dove tu m/i segui neanch’i/o sono vista da te, i/o sono muta in questo deserto svuotato dei tuoi diecimila occhi più nero del nero in cui i tuoi occhi m/i apparirebbero diecimila alla volta neri e brillanti, i/o sono sola fino a quando sento come dei rumori di campane dei rintocchi si dice, tremo, ho le vertigini, m/i risuona dentro, m/i sconvolge, è la musica degli occhi m/i dico, sia che si urtino dolcemente e con violenza sia che da soli producano questi suoni molteplici, cado bocconi davanti o dietro da questa parte o dall’altra, gesticolo disordinatamente il tempo di capire che i/o non posso sfuggire alla molteplicità dei tuoi sguardi, ovunque i/o sia tu m/i guardi m/ia ineffabile con i tuoi diecimila occhi.

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Presentazione – Lo scandalo della felicità

Cinquant’anni per uscire dal convento: alla Casa delle donne il libro sulla storia vera di Vandina, monacata da bambina

Articolo originariamente comparso su La Repubblica

Lunedì 17 aprile, alle ore 18, alla Casa delle donne in via della Lungara, la presentazione de Il segreto della felicità, l’ultimo libro di Pina Gandolfo. L’autrice dialogherà con Francesca Comencini, Maria Rosa Cutrufelli, Laura Delli Colli

Alla Casa delle donne di Roma, si parla de Lo scandalo della felicità. È l’ultimo libro pubblicato da Pina Mandolfo, giornalista, scrittrice, regista che nel volume edito da VandA edizioni racconta la storia vera, ambienta nella Palermo del 1600, di Anna Vandina, la donna che fu monacata da bambina e trascorse quasi 50 anni della sua vita nel tentativo di ottenere un processo per sciogliersi (liberarsi) dal voto reliogioso. Alla fine Vandina ce la farà.

Ma la storia degli anni trascorsi nel chiuso di un convento si intreccia con i fatti più rilevanti della Palermo di epoca spagnola. Un racconto carico di tensione. 

“Di tutta la passione verso un personaggio femminile – dice Mandolfo, già autrice nel 1996 di Desiderio per Baldini&Castoldi – non comune, di cui ho voluto narrare la grandezza, descrivendone l’esemplarità di donna assoggettata ma non soggetta”.

Alla presentazione del libro, in programma lunedì 17 aprile alle 18 alla Casa delle donne di Roma, in via della Lungara, l’autrice dialogherà con Francesca ComenciniMaria Rosa CutrufelliLaura Delli ColliPatrizia D’Antona leggerà dei brani del libro. Coordina l’incontro Maria Palazzesi.

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L’omaggio a Monique Wittig – Bookpride

in un talk condotto da Carlotta Cossutta e Deborah Ardilli

Appunti per un corpo rivoluzionario 

15 / 4 / 2023, articolo su Global Project

Domenica 11 marzo il Book Pride di Milano ha fatto un omaggio alla scrittrice Monique Wittiga vent’anni dalla sua morte, con un talk organizzato da VandA Edizioni. Il focus del talk è stato quello di riscoprire la sua produzione politica ed il suo modo unico di concepire i codici linguistici. Per fare ciò le relatrici Carlotta Cossutta e Deborah Ardilli hanno utilizzato Il corpo lesbico, libro che la Wittig ha scritto nel 1973, ristampato quest’anno da VandA e curato dalla stessa Ardilli.

Il filo conduttore dell’incontro è stato il lesbismo come atto rivoluzionario, ovvero la trasformazione da oggetto passivo a soggetto attivo. Non si tratta semplicemente dell’orientamento sessuale ma di pratiche sociali che mettono in crisi l’ordine costituito, auto-elettosi come dogmatico e citando Wittig «Il lesbismo è molto più dell’omosessualità. Il lesbismo è molto più della sessualità. […] La “donna” ha senso solo nei sistemi di pensiero e nei sistemi economici sessuali e ne consegue che le lesbiche non sono “donne”».

Siamo abituatx ad una rappresentazione del femminile sotto l’attento occhio del male gaze, in cui il corpo viene erotizzato dal patriarcato e proprio qui si inserisce Wittig, scorporando il corpo dallo sguardo maschile e riportandolo a qualcosa che “non ha ancora nome”. Ardilli sottolinea più volte come il termine “corpo” sia polisemico, non esiste solo a livello fisico ma anche sociale, evacuato teoricamente dalla presenza maschile.

Il corpo lesbico e il corpus letterario lesbico nascono dalla distruzione del corpus dominante (eterosessuale) – che vede le donne come appropriate dagli uomini, sinonimo di patriarcato e legittimazione ideologica – e vogliono sconvolgere ed aggredire i pilastri della nostra percezione eterosessuale del mondo.

Le protagoniste nello scritto di Wittig non sono personaggi convenzionali ma due pronomi personali: io e tu, pensati in una relazione non gerarchica e permutabili. I due pronomi, nel corpo dei frammenti, subiscono una metamorfosi e vengono usati per reinterpretare, per esempio, storie del mondo classico. Ricorre infatti nei miti l’inganno che prelude uno stupro e Wittig cerca di cambiare il corso della storia utilizzando la poesia.

Cossutta e Ardilli entrano nel vivo del discorso sbattendo la porta senza preoccuparsi di offendere una qualche parte del pubblico presente e questo perché il centro del talk mirava a sovvertire il pensiero comune. D’altronde i temi affrontati da Wittig sono essi stessi rivoluzionari e il suo concetto di lesbismo è da intendersi come rivolta. Essere “donna”, per la scrittrice, significa essere appropriata dagli uomini; rompere il contratto sessuale significa di conseguenza cercare di mettere fine alla storia materiale e simbolica di appropriazione.

Wittig ne “Il corpo lesbico” supera il dimorfismo sessuale, il corpo si materializza e smaterializza in un loop senza fine, costruendo un sistema di segni ed espressivo che non ha precedenti. Questo libro rimane ad oggi uno dei più complessi ed oscuri della letteratura wittighiana e per quanto sia sempre stata una figura estremamente conversa nel panorama culturale europeo è però innegabile che il suo pensiero abbia procurato disturbo e che abbia creato un dibattito mai chiuso sulla concezione della libertà individuale.

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Recensione – Lo scandalo della felicità

Articolo di Ivana Margarese, originariamente comparso su Marel – voci dall’isola

“A volte una donna, dimenticata e taciuta, si “appella” a un’altra donna per prendere corpo e uscire dall’oblio. È un richiamo misterioso che, negli ultimi decenni, storiche, letterate, artiste hanno imparato a riconoscere e decifrare. Siamo una schiera che porta alla luce un incommensurabile patrimonio di vite celate per costruire, finalmente, una genealogia femminile: solo allora un millennio diverrà un giorno. Un giorno in cui altri e altre conosceranno le “sconosciute” nascoste negli scarti della storia”.
Pina Mandolfo racconta la storia di una donna coraggiosa, la principessa Anna Valdina, che nel 1600 a Palermo fu monacata a forza quasi bambina e trascorse cinquant’anni della sua vita nel tentativo di ottenere un processo per lo scioglimento dei voti, fino a riuscirci. La storia privata si intreccia con eventi e personaggi della Palermo spagnola, contrapponendo la logica del desiderio e della scelta del singolo agli intrecci di potere del tempo in un romanzo dal ritmo musicale e appassionato che permette al lettore di entrare dentro “una stanza tutta per sé”.


Lo scandalo della felicità
 è un titolo molto bello che ben rende la vicenda che racconti in questo romanzo, ovvero quella della principessa Anna Valdina, costretta a farsi monaca appena adolescente, contro la sua volontà. Come nasce l’esigenza di raccontare questa storia? Cosa ti ha condotto a Anna Valdina?

Camminando per le vie di Palermo mi sono imbattuta per caso in una mostra dell’Archivio di Stato  che metteva in mostra alcune pergamene usate per le professioni di voto. La stessa mostra pubblicizzava il carteggio di un processo per lo scioglimento dei voti richiesto da una donna, Anna Valdina, di illustri natali monacata a forza nel 1600. Essendo il mio progetto di vita quello di portare alla luce donne taciute dalla storia non potevo che raccogliere, quasi come un dovere, i dettagli di questa vicenda che mi incuriosì molto a tal punto che trascorsi dei mesi dentro l’archivio per decifrare e poi finalmente riuscire a leggere le testimonianze del processo.

“Scrivendo di Anna Valdina, immaginando la sua vita, sentivo la mia intrecciarsi alla sua, in quel prodigioso corpo a corpo che si stabilisce tra chi scrive e le sue creature. Il suo tempo è diventato il mio e quello di tante donne che, ieri come oggi, lottano per mettersi al mondo libere”. La protagonista, come te, è siciliana e ha vissuto in un secolo di sfarzi, inganni e ipocrisie ostile alla sua voglia di chiarezza e di espressione senza infingimenti. Ritengo che l’habitus siciliano si riveli spesso piuttosto teatrale o legato allo sguardo, al silenzioso movimento del guardare ed essere guardati più che all’azione palese e manifesta. Vorrei una tua considerazione.

Personalmente non credo che il “principio” di vanità sia peculiare della tradizione siciliana. La nobiltà delle corti europee ruotava intorno all’apparire. Dietro il quale nascondere intrighi, silenzi, trame. Forse oggi quel costume è superato ma la spavalda abitudine della maldicenza, del turpiloquio usati e abusati senza filtri non sono da meno. Restringendo il campo alla nostra terra direi che la teatralità del gesto e della parola forse è un costume antico ma anche dell’oggi. Lo vedo soprattutto nel parlare palermitano talvolta esagerato e triviale, tal’altra gradevole e così coinvolgente da stupire e del tutto peculiare la cui singolarità è difficile da imitare.

Tra i ringraziamenti c’è anche quello a Maria Nadotti, donna impegnata da sempre nella riflessione sulla condizione femminile. Qual è il rapporto che vi unisce?

Maria è una vecchia e cara amica. Ci siamo incontrate casualmente nel corso di un convegno della Società Italiana delle Storiche a Siena circa ventotto anni fa. Da allora la nostra amicizia è cresciuta condividendo eventi letterari, festival cinematografici e momenti di vita comune. La complicità fatta di ammirazione reciproca di condivisione di idee e progetti ha nutrito la nostra relazione.

“Angoscia, per mettere in scacco la morte e trascinare la vita, qui, sul luogo in cui una donna possa avanzarsi attraverso l’angoscia, sentirsi ascoltata da donne, nel luogo che non rigetta, sentirsi letta, accompagnata, nel luogo che fa corpo con il tuo corpo, al di là della Legge e della sua scena della castrazione, nello spazio già aperto dal movimento delle donne, quel gesto, quel pensiero che soli possono dare al testo poetico la sua portata politica”. All’inizio del romanzo riporti queste straordinarie parole di Hélène Cixous. E via via nel testo in apertura delle varie parti troviamo in epigrafe Adrienne Rich, Anna Maria Ortese, Virginia Woolf e altre che intrecciano la loro voce a quella di Anna e alla tua creando così una disseminazione di voci femminili che raccontano la storia di una difficile conquista della libertà per le donne. Non a caso in conclusione c’è un riferimento a Olympe de Gouges, morta per la sua rivendicazione di libertà.

Portare alla luce il soggetto femminile precipitato nelle scorie della storia o creare un legame con altre donne dell’oggi il cui vissuto è fonte di stima, di sana emulazione è la strada per la creazione di un corpo collettivo forte che potrebbe incidere nella crescita e nella messa al mondo della libertà delle donne. E’ la necessità di creare quella genealogia femminile imprevista dai canoni disciplinari. Impedita da una sudditanza creata dall’impianto potente della disparità di genere. Le donne citate nel mio libro oltre alle protagoniste sono le tante a cui dobbiamo appellarci e alle quali io mi appello insieme a tante altre più o meno note per colmare la distanza tra noi e la cultura che ci è stata data. Nutrimento simbolico per il nostro sesso. Anna in convento fa esperienza dell’invidia e del livore delle altre monache ma anche del sentimento di amicizia e solidarietà tra donne in maniera non dissimile a ciò che ciascuna di noi ha sperimentato nel corso della sua vita. Che ruolo ha l’amicizia nel sostenere le nostre idee?

Ritengo che le invidie e le gelosie tra donne siano un veleno letale che indebolisce il nostro sesso e ci toglie la capacità e la forza per un cambiamento radicale. Come già detto solo la solidarietà, l’ammirazione, la complicità è la strada per prendere in mano il mondo e donare pace e bellezza.

Che ruolo ha l’attesa in questo romanzo?

 “L’attesa” era il titolo che in un primo momento avevo scelto per il mio libro. L’attesa della protagonista durata oltre cinquant’anni mi è sembrata qualcosa di straordinario. Giorni, mesi, anni incredibilmente lunghi con un unico progetto la libertà. Un canto di libertà che difficilmenteNun essere umano riesce a portare avanti. Immaginare Anna Valdina nutrirsi di questo sentimento senza mai lasciarsi prendere dal desiderio di cedere è così vicino a qualcosa che è mio. La lotta che dagli anni ’70 ad oggi con tante altre donne mettiamo in atto contro la misoginia imperante, più o meno manifesta, che affligge il nostro mondo e che ci affligge. Ma dire “Lo scandalo della felicità” poi mi è sembrato poi più significativo perché lottare per la nostra libertà quando c’è qualcuno che ti impedisce fa scandalo esige gesti e parole scandalose. Così che l’attesa si fa scandalosa per la singolarità di gesti e parole che la nutrono.

Infine vorrei chiederti un parere sui cambiamenti che osservi in termini di diritto per le donne e su cosa ti auguri per il futuro.

    -Purtroppo la risposta è semplice e non certo positiva. Abbiamo raggiunto obiettivi impensabili anni fa. Ma l’equivoco dell’emancipazione ci rende ancora soggette e discriminate. Nel nostro privato sentiamo di aver raggiunto una autodeterminazione che troppo spesso non corrisponde al nostro stare al mondo. E se in molti paesi le donne sono ancora assoggettate, non credo che nel mondo occidentale si viva la prossimità di ruoli di vera parità pur nella nostra irriducibile differenza. Quella parità che ci consenta di essere guida del mondo. Un mondo che il patriarcato e il soggetto maschile, diciamolo pure, ci consegna giorno dopo giorno, sempre più alla deriva. Colpevole di discriminazioni, violenze, stupri, femminicidi, per non parlare di guerre e azioni rovinose per il pianeta. Lotteremo ancora, così come recitava uno slogan del femminismo glorioso degli anni ’70 “La lotta non è finita”. Quella lotta che ha regalato esito felice alla mia protagonista la assumo come simbolica per un esito simile per noi donne tutte che nell’oggi cerchiamo la strada scandalosa della vera democrazia: la felicità.

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Recensione – Il mio nome è Aoise

A cura di Emma Fenu, comparsa originariamente su Cultura al Femminile

Il mio nome è Aoise è un romanzo di Marta Correggia, magistrata, edito da Vanda nel 2022.

Di cosa tratta Il mio nome è Aoise?

Aoise raccoglie erbe medicamentose nella foresta.

Erabon riceve una scarica di pugni in faccia.

Aoise corre nelle piantagioni di cacao.

Erabon sale su barcone in balia delle onde.

Aoise va a scuola ed ha la grafia più bella della classe.

Erabon si tinge le palpebre di azzurro e la bocca di rosso.

Aoise si addormemta sullo stuoino ascoltando le fiabe del nonno.

Erabon è corpo da macello, penetrato per tutto in giorno.

Aioise è la parte pura di Erabon, quella che credeva di fare la parrucchiera in Italia, di innamorarsi e diventare madre, di studiare l’italiano ed apprendere sempre più cose.

Erabon è la schiava del sesso, solo carne a cui hanno tolto perfino il nome, l’identità e la sacralità del ventre.

Ci sarà un giorno in cui Aoise, nel suo grembo che è stato di tutti, lascerà spazio ad Erabon, la chiuderà nelle sue viscere, lasciando che il passato sia storia.

Perché leggere  Il mio nome è Aoise?

Il romanzo racconta una delle tante vicende che coinvolgono le prostitute nigeriane: ragazze giovani e ingenue che affrontano un viaggio estenuante, si sottopongono a rituali magici per cui, se scappano. gli spiriti dei morti si vendicheranno sulla famiglia, vengono violentate e picchiate e infinr costrette a prostituirsi tutto il giorno fino a riscattare la liberta per la somma di 50.000 euro, una cifra enorme considerando che da sole sostengono le piccole spese e inviano denaro in patria.

Un libro crudo, straziante e poetico sul corpo delle donne, sull’uso di ciò che ancora viene considerato oggetto di piacere e possesso, e sulla rinascita. Da leggere.

Sinossi

Una volta arrivata a Castel Volturno, ad Aoise non rimane nulla, neppure il suo nome.

Lei e le sisters, Joy, Friday, e Prudence, hanno già giurato il Ju Ju e attraverso i riti sciamanici, le ragazze nigeriane restano vincolate per anni al loro destino di prostituzione.

Se disobbediscono, gli spiriti se la prendono con le loro famiglie.

E poi senza soldi, dove possono andare?

All’interno della Connection House, Aloise vive esperienze di estrema violenza. Ma in quell’inferno in terra si consumano anche sentimenti di amicizia, di complicità di protezione fra donne.

Donne come lei, ognuna con un nome, una faccia e una storia. Una storia vera, un romanzo sull’orrore della prostituzione e dello sfruttamento umano, ma anche sulla forza dell’amicizia e dell’amore, sul coraggio e su quella resistenza nutrita dalla speranza che possono portare anche le più disgraziate ragazze di Benin City a costruirsi una vita nuova, lontano dalla fame e dallo sfruttamento.

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Recensione – Lo scandalo della felicità

Articolo di Floriana Coppola, originariamente comparso su Re[a]daction Magazine

Nel romanzo Lo scandalo della felicità, storia della principessa Valdina di Palermo, edito da Vanda Edizioni,  Pina Mandolfo narra con uno stile fluido e scorrevole le drammatiche vicende di una ragazzina della nobiltà palermitana che, nel seicento, fu costretta forzatamente a diventare monaca e a rimanere per cinquant’anni reclusa in un monastero. Trascorse una vita intera nel tentativo di ottenere un processo per lo scioglimento dei voti, fino a riuscirci pochi anni prima di morire.

Pina Mandolfo, regista e scrittrice palermitana, socia fondatrice della Società Italiana delle Letterate, dice “ A volte una donna dimenticata e taciuta, si “appella” a un’altra donna per prendere corpo e uscire dall’oblio. E’ un richiamo misterioso che, negli ultimi decenni storiche, letterate, artiste hanno imparato a riconoscere e decifrare. Siamo una schiera che porta alla luce un incommensurabile patrimonio di vite celate per costruire finalmente una genealogia femminile: solo allora un millennio diverrà un giorno. Un giorno in cui altri e altre conosceranno le “sconosciute” nascoste negli scarti della storia. Nell’Archivio privato gentilizio Papè di Valdina, Pina Mandolfo ha studiato con paziente tenacia il lungo epistolario che ha portato Anna Valdina allo scioglimento dei voti. Il romanzo racconta questa battaglia interminabile di questa giovane donna costretta dal padre tiranno e anaffettivo, per motivi economici ed ereditari, ad accettare un destino di abuso e di maltrattamento psicologico.

La bambina è costretta a rinunciare alla vita e ai suoi desideri, ai suoi talenti per diventare prigioniera in convento, senza aver mai dichiarato  nessuna vocazione religiosa. La storia della protagonista e della sua vita di clausura si intreccia con i fatti più rilevanti e con i personaggi della Palermo spagnola, in un racconto affascinante e struggente, carico di tensione. Un personaggio femminile coraggioso e indimenticabile che emerge in tutta la sua diversità. Mai compiacente, sicura di volere assolutamente porre fine a quella ingiustizia vissuta dalla famiglia come un destino ineluttabile, Anna Valdina scrisse realmente lettere appassionate e sincere, cercando ogni genere di alleanze per uscire dal convento, in cui era stata rinchiusa contro la sua volontà. Lettere che vengono in parte inserite nel romanzo.

Altre “personagge” emergono dalla narrazione, disegnando un’umanità femminile piegata dal potere religioso e politico, serva del potere economico, oppure perversamente dominata dalle logiche classiste e sessiste esistenti in quell’epoca. Sicuramente l’atteggiamento ribelle e provocatorio della protagonista venne tollerato, essendo una ricca nobildonna, la cui ricca famiglia foraggiava lautamente il monastero che imprigionava la principessa. Il padre e il fratello di Anna sono la rappresentazione del potere patriarcale sulle donne, trattate come schiave, persone considerate inferiori subordinate all’interesse economico della dinastia e per questo private di ogni libertà e del loro patrimonio anche legittimo.

Nel Seicento, per molto meno, le donne popolane rischiavano la morte, la tortura e il rogo. Pina Mandolfo riesce attraverso questo racconto drammatico a focalizzare l’attenzione sugli abusi e i maltrattamenti sulle donne novizie dalle donne consacrate e dai preti dell’istituzione cattolica, questione drammatica che sta diventando oggetto di studio e di denuncia da parte dell’Osservatorio Interreligioso contro la violenza sulle donne, associazione voluta fortemente dalla teologa Paola Cavallari. Infatti oltre la monacazione forzata, costume orrendo esistente in quel secolo, esiste un’ incresciosa dimensione di violenza e di sopraffazione  maschile. Le suore ancora oggi si chiudono nel silenzio per non denunciare gli abusi subiti, i casi di pedofilia attraversati, gli stupri e le gravidanze indesiderate. Silenzio dovuto anche agli effetti post-traumatici di tanta violenza e al senso di colpa che rende le suore psicologicamente travagliate da una percezione abnorme di complicità involontaria.

La dipendenza psicologica che si evince determina silenzio, vergogna e imbarazzo nel percorso di denuncia di tanta violenza.  Da qualche anno si sta affrontando la ricerca che studia e testimonia la violenza e i maltrattamenti fisici e psicologici che subiscono le donne nei conventi da parte dei preti. Nel romanzo di Mandolfo, l’atteggiamento aggressivo e giudicante interessa anche le donne che hanno gradi superiori e si accaniscono contro le giovani novizie.

Nella storia di Anna Valdina, il patriarcato religioso viene sostenuto sia dai sacerdoti che dalle badesse in questa narrazione. Il codice di genere presente nel racconto indica una cornice temporale politica e di classe ma apre uno squarcio nell’educazione ecclesiastica basata sulla manipolazione psicologica della gerarchia religiosa cattolica. Il monastero diventa una cittadella chiusa, una prigione reale dove la piramide gerarchica maschilista e misogina si duplica in un contesto verticistico e violento.  La forza delle donne consacrate, quando la vocazione è autentica,  testimonia la loro fede nella verità, fruttifica relazioni mature di sostegno e di reciprocità, vivendo in pieno la loro responsabilità nel servizio missionario, mentre la logica del potere che sta emergendo da tante denunce oggi fa capire che esiste ancora una misoginia e una sperequazione di genere che umilia e mortifica le donne nella chiesa, non dando loro la possibilità di emergere in quanto persone autonome e libere di scegliere. In questo contesto di abusi che parte da lontano, si evince la vulnerabilità femminile ancora presente negli spazi chiusi dei monasteri e dei conventi. Vulnerabilità psicologiche che le rendono ingenuamente dipendenti affettivamente dalle figure maschili dirigenti, che le accompagnano nella loro vita spirituale.

Alda Valdina non ha paura della gerarchia, riesce coraggiosamente a reggere dialetticamente il contrasto con le suore superiori per grado e con le altre persone di potere che incontra nella sua vita. In questo però è erede della sua classe, perché da aristocratica è consapevole della sua cultura, della sua collocazione sociale nel mondo. Nel romanzo è chiara la sudditanza sociale economica e culturale delle giovani donne, provenienti da classi marginali, contadine e operaie.   Ma questo coraggio è sicuramente non condiviso dalla maggioranza delle donne costrette nell’istituzione religiosa a subire il potere maschile. Causa di questa subordinazione può essere dovuto soprattutto dall’accompagnamento spirituale duale, che piega e manipola profondamente l’animo delle giovani e non le rende idonee a una conversazione paritaria e dialettica. Il romanzo di Pina Landolfo rende illuminante il principio che ci deve guidare ogni giorno nella nostra vita, ciò che è per ogni donna assolutamente irrinunciabile : la libertà, essere libera di scegliere.

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Recensione – Lo scandalo della felicità

Articolo di Loredana Magazzeni, originariamente comparso su Letterate Magazine

Scrive Monica Farnetti in Anacronismi. Appunti sul romanzo storico delle donne, che l’anacronismo è una «pratica feconda e inaggirabile della nostra relazione con il passato». Relazione che nelle opere letterarie e artistiche diviene «un dispositivo generatore di “somiglianze fuori posto”», forse perché «la storia è fatta di passato ma altresì di futuro, di memoria e profezia».
Di memoria e profezia ha bisogno il romanzo oggi per ancorarsi nella storia ma guardare al futuro come costruzione di senso.
Se Diderot considerava la storia “un cattivo romanzo”, scrive ancora Farnetti in Il manoscritto ritrovato. Storia letteraria di una finzione, spesso le scrittrici si sono affidate a diverse forme di narrazione (diari, lettere, romanzi) per riscoprire il passato e colmarne i vuoti.
Ogni realtà del passato infatti si rivela oggi portatrice di nuovo senso, se guardata con consapevolezza e capacità di sguardo che siano state nutrite dagli oltre quarant’anni di studi femministi in Italia e nel mondo.

È possibile così leggere i romanzi storici delle scrittrici di oggi come una forma di autoconsapevolezza o autocoscienza: lo scrive Giulia Valori nella sua tesi, riportando le parole di Carol Lazzaro-Weis, secondo la quale sono «i romanzi storici delle scrittrici, che invece “interiorizzano” la storia e la usano come mezzo per attuare un processo di autocoscienza». Tesi in cui riporta anche le parole di Laura Fortini: «la letteratura a firma di donne ha acquistato nel tempo una produttività simbolica di cui è risultata evidente la capacità di significazione politica», ossia attraverso i loro romanzi le scrittrici hanno restituito, al pari delle storiche femministe, dignità e importanza storica all’altra metà dell’umanità.
Il romanzo storico è il genere attraverso il quale si può risalire alla condizione delle donne e denunciarne i vuoti nella storiografia e nella letteratura, perché, come suggeriva Anna Banti, «la storia esista nel momento in cui viene scritta e in tale maniera tramandata». Ma raccontare l’altra è raccontare anche un po’ se stesse, ed è il gesto di cura che ci ha insegnato Adriana Cavarero nel suo saggio fondamentale Tu che mi guardi, tu che mi racconti.
Come Dacia Maraini in Marianna Ucria «usa il romanzo storico come mezzo per denunciare gli abusi subìti e legittimati dalla società patriarcale come anche la marginalizzazione storica delle donne» (Valori), così nel suo nuovo romanzo Lo scandalo della felicità Pina Mandolfo mette a fuoco non tanto un processo di emancipazione ostacolato, quanto la carica eversiva del desiderio e dell’aspirazione alla felicità, di cui dice il titolo.
Anche Ernestina Pellegrini in Donne allo specchio. Riflessioni su una collezione personale di biografie imperfette scrive: «biografia e autobiografia si legano così in un unico desiderio. Per una donna scrivere la vita di un’altra donna […] significa incidere l’esperienza di un soggetto femminile nella letteratura per capire ed elaborare in modo radicale il rapporto della donna con la realtà sociale in un determinato periodo storico; […] significa crearsi un alter ego per avere un’altra possibilità di destino femminile, insomma per reinventarsi in un altrove».
Diversi sono quindi i piani di lettura del romanzo di Pina Mandolfo, segnalati anche dalle spie linguistiche, in un linguaggio mimetico barocco con effetto anticato che rimanda al Seicento, nella tradizione delle lingue fiorite degli scrittori siciliani (da Bufalino a Consolo). Questo piano linguistico ibrido e dislocato supporta le varie istanze del testo: l’istanza femminista, il bisogno di colmare un vuoto di memoria storica, l’importanza delle microstorie.
Mandolfo è partita da documenti provenienti dall’archivio privato gentilizio Papè di Valdina e dalle ricerche correlate di Liboria Salomone per il periodico della Società Messinese di Storia Patria, che riguardano la vicenda della monacazione di Anna Valdina e le sue istanze, durate tutta la vita, per ottenere lo scioglimento dei voti. Gli inserti che costellano il romanzo, resi graficamente evidenti dal corsivo, sono appunto lacerti dei verbali «sopra la nullità della professione dell’Ill.e Donna Anna Valdina p.ssa di Valdina».
Scrive Mandolfo che la suggestione iniziale le è nata visitando una mostra presso l’Archivio di Stato di Palermo, sui Ruoli femminili nella documentazione d’Archivio nei secoli XII-XIX. A partire da qui si colloca la costruzione dei personaggi, la protagonista Anna e la sua fedele creata Giovanna Nasca, i personaggi della Badessa e del prelato, che si oppongono duramente e con continuità alle sue istanze di libertà e alla sua rabbia, la figura del padre, principe di Valdina e del fratello maggiore. Intorno, con precisione cinematografica la Sicilia dell’epoca, le rivolte, l’oppressione degli umili in contrasto con lo sfarzo e le liturgie delle cerimonie pubbliche della nobiltà.
Una storia che, data la professione di Pina Mandolfo, scrittrice, sceneggiatrice, regista e operatrice culturale, ha una sua compattezza temporale e visiva quasi cinematografica.
Sul piano storico, quello delle monacazioni forzate, oltre al Manzoni della Monaca di Monza e al Verga di Storia di una capinera, non si può non citare la recente riscoperta della vita e dell’opera di Arcangela Tarabotti (Venezia, 1604-1652), costretta dal volere paterno a una clausura forzata contro cui scrive almeno due opere, la Tirannia paterna, pubblicata postuma nel 1654 con il titolo ingannevole di La semplicità ingannata, titolo che sposta il focus da denuncia dell’oppressione patriarcale (famigliare, istituzionale) all’innocenza delle donne, vittime culturali della loro credulità e mitezza, e L’inferno monacale (1990). Considerata dalla critica «una scrittrice protofemminista e una delle prime teoriche politiche», la sua posizione è radicale, nel «condannare l’oppressione e l’ignoranza in cui sono tenute le donne» (Fubini, Leuzzi). Ma mentre nel libro di Tarabotti è Dio che fa alle donne il dono della loro libertà, nel libro della femminista Pina Mandolfo, è Anna Valdina che agisce in prima persona per dare la libertà a sé stessa.
Sul piano della storia vivente, metodologia praticata dalla Comunità di storia vivente di Milano, composta da studiose quali Maria Milagros Rivera Garretas, Marirì Martinengo, Marina Santini, Luciana Tavernini e Laura Modini, la vicenda narrata da Mandolfo farebbe parte della sua personale riflessione come donna, artista e attivista, che del “partire da sé” agisce una comprensione non mediata ma incarnata.
Sul piano della “storia indiziaria”, che con Carlo Ginzburg procedeva per indizi, spie, il paradigma indiziario indicava un modo di conoscenza della realtà fondato su “un metodo interpretativo imperniato sugli scarti, sui dati marginali, considerati come rivelatori.
Come scrissi su Letterate Magazine nel 2021, per presentare il saggio di Marina Giovannelli, Sulle tracce di Gasperina. Una biografia congetturale, l’andamento congetturale è quello che chiama invece oggi le scrittrici di storia a intervenire nel testo di cui si tengono in conto e si mettono in campo le congetture, ovvero le costruzioni sovrastrutturali del racconto, che si reggono sulle basi storiche vere, grazie a una qualità che è tipica di chi scrive racconti e non solo ricerche storiche: l’immaginazione. Ma è anche un lungo lavoro di indagine sul valore del tempo e sul carattere relazionale della memoria.
In questo romanzo, che suggerisce, tanti livelli di lettura e fruizione, ma anche tanta genealogia di pensiero delle donne da cui deriva, il focus è sulla scandalosa, smodata, ricerca di felicità delle donne, che a partire dal mito attraversa tutta la storia letteraria. A fare scandalo non è più solo la violenza dell’oppressione e dell’ignoranza in cui erano relegate, ma la loro scandalosa forza di ribellarsi e reagire, pretendendo la personale felicità (ben prima che divenisse un principio della Costituzione americana, non contemplato ancora in quella italiana).
Dunque l’elemento rivoluzionario e contemporaneo che Mandolfo apporta a questa storia di secolare oppressione e subalternità è appunto quello della rabbia: la rabbia di Audre Lorde, la rabbia delle minoranze e delle Riot, la rabbia che sa scalzare catene dentro e fuori di noi e apre lo spazio al desiderio e alla felicità.

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Recensione – Il mio nome è Aoise

A cura di Donatella Palumbo, comparsa originariamente su Giustizia Insieme

Recensione al romanzo “Il mio nome è Aoise” di Marta Correggia

a cura di Donatella Palumbo

Sommario: 1. L’autrice – 2. I luoghi – 3. Il romanzo – 4. Per trovare la salvezza, bisogna solo desiderarla. 

1.    L’autrice

Marta Correggia attualmente presta servizio presso il Tribunale di Napoli con le funzioni di giudice del lavoro. In precedenza, si è occupata per molto tempo di reati predatori e di sfruttamento della prostituzione in qualità di sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere. L’esperienza di quegli anni ha messo in contatto l’autrice con la realtà della prostituzione vissuta nelle periferie, con il suo carico di violenze e sopraffazioni. Da qui l’idea di scrivere un libro che, attraverso la forma del romanzo, potesse restituire un’anima e un’identità a quei “corpi da marciapiede”. Del resto, se è vero che il mestiere del magistrato è analizzare vicende, studiarle ed esprimere giudizi, allo stesso tempo un magistrato non può non tenere conto dell’umanità nascosta dietro le carte e questa umanità porta inevitabilmente le sue vicende, anche infernali, chiede di essere ascoltata e vuole giustizia.

È l’inferno dei viventi de “Le città Invisibili” di Italo Calvino: “L’’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

L’autrice ha scelto il secondo modo. Così è nata Aoise, così è cresciuta Erabon.

La prefazione è di padre Alex Zanotelli.

2. I luoghi

Gli anni di lavoro come sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere hanno ispirato l’autrice per l’ambientazione del romanzo a Castel Volturno, in provincia di Caserta, uno dei luoghi chiave della tratta del sesso e scenario principale della narrazione dei fatti avvenuti in Italia. Ma, come precisa l’autrice, il romanzo potrebbe essere immaginato in ogni luogo poiché “la scelta è ricaduta su Castel Volturno in quanto parte di un territorio che conosco e che perciò avevo un certo agio a descrivere. Di fatto la città vera e propria non c’è, come non ci sono i suoi abitanti. Questo romanzo avrebbe potuto essere ambientato ovunque ci siano donne oggetto di tratta, ridotte in schiavitù e costrette a prostituirsi”. La protagonista si ritrova in una casa fatiscente a Castel Volturno  “un posto nella terra dei bianchi ma popolato da neri che l’avevano occupata e se n’erano impossessati per farne la loro terra, con la complicità dei bianchi che quella terra l’avevano venduta e si servivano dei neri per i loro affari”.

Il degrado e la violenza dei luoghi riflettono così la condizione misera della protagonista, costretta a prostituirsi, senza alcuna possibilità di scelta. Il mondo fuori si dipana lungo dedali di strade, rifiuti, ruderi sgangherati privi di sistema fognario, buche e avvallamenti ovunque; eppure, in mezzo all’inferno, ad un tratto si diffonde la musica e una speranza emerge.

Il compito dell’autrice è stato, dunque dare voce a una coraggiosa ragazza nigeriana e concedere spazio a Castel Volturno, terra tanto bellissima quanto sfortunata.

3. Il romanzo

Il romanzo “Il mio nome è Aoise” è un’opera di fantasia che s’ispira, dunque, a storie vere, a situazioni reali, anche se non esattamente nel modo in cui sono state raccontate dall’autrice, la quale ha riadattato storie e personaggi tratti dalla propria esperienza e li ha resi puramente rappresentativi del complesso e variegato universo della prostituzione descritto come “un dissennato arcipelago di isole umane”.

Il romanzo si snoda alternando la dimensione del ricordo dell’infanzia e dell’adolescenza vissute dalla protagonista in Nigeria – ove prevalgono, nonostante la condizione di estrema povertà, immagini dolci e accoglienti di vita familiare felice e tenera con i fratellini e il padre Yusuf e immagini bucoliche del villaggio e del paesaggio africano – con la cruda realtà della schiavitù in Italia, che esplode con tutta la sua violenza anche linguistica. La lettura restituisce sensazioni di estrema dolcezza, legate al passato, e agghiaccianti momenti di brutalità legati al presente.

Perché partire? Di certo per il desiderio di una vita migliore. Le fanno credere che l’Italia è il paradiso e poi le ripetono di continuo: “Peggio di come stai, che ci può essere?”. Il padre e il nonno sono morti, la famiglia versa nel momento di maggior bisogno economico e, dunque, il fratello si mette in contatto con Nadir, un apparente intermediario che in realtà è un procacciatore di prostitute. Così, una volta scoperto l’inganno, la protagonista arriva a pensare che “era meglio morire di fame in Nigeria che diventare una schiava, un corpo a disposizione di tutti fuorché di sé stessa”.

Viene descritto in modo dettagliato il meccanismo della tratta delle donne africane – tema principale del romanzo – che, attingendo alle paure e alle credenze più recondite, è collegato in modo inscindibile al momento del giuramento con Priest Wami, eseguito prima di partire per l’Italia. Difatti il giuramento è dotato di una forza vincolante dirompente, radicata in modo profondo, risiedendo nella supposta esistenza di spiriti maligni che causano disgrazie irreversibili a coloro che ne violano i precetti, di talchè il terrore per gli effetti che ne conseguono riecheggia ogni volta nella mente della protagonista allorquando tenta di sottrarsi ai suoi aguzzini: “Se non adempi alla promessa fatta al mio santuario ci servirà il tuo sangue e quello dei tuoi cari. Posso usare il mio potere per distruggere qualunque cosa io voglia. Sono in grado di generare qualsiasi malattia in una persona. Se prometti, devi farlo, altrimenti il semidio Eshu manderà gli spiriti dei morti a uccidere te e la tua famiglia. Nel tempio di Eshu sono riposti i tuoi peli e le tue unghie, in questa scatola la tua biancheria intima, c’è il tuo nome, se non obbedirai agli ordini della madame verranno utilizzati per scatenare gli spiriti contro di te”.

L’assoluta mercificazione della donna, trattata solo come oggetto da cui gli aguzzini Sammy e Sonia pretendono denaro ogni settimana, esplode in tutta la sua crudeltà nel cambio di nome che viene imposto alla protagonista: Aoise diventando Erabon deve rinnegare il suo vissuto, le sue origini, il suo essere più profondo. Il denaro da versare periodicamente alla madame diventa più importante della vita umana.

Altri temi si stagliano sullo sfondo e si intrecciano con la storia della protagonista: l’aborto coatto (la gravidanza di Prudence costretta all’interruzione in modo clandestino nonostante il desiderio di tenere il figlio – “l’unica cosa mia” – che finirà per suicidarsi in quanto non sopravvissuta al dolore), storie di caporalato, il traffico di droga e di armi la cui scoperta viene punita con la violenza sessuale di Sammy ai danni della protagonista, il pregiudizio per il colore della pelle, la sparatoria a Castel Volturno che riecheggia la strage del 18 Settembre del 2008 (c.d. strage di Castel Volturno).

4. Per trovare la salvezza, bisogna solo desiderarla

Tuttavia, anche nei luoghi più cupi, anche nell’inferno in cui sembra non ci sia alcuna via d’uscita, emergono sentimenti positivi che non possono essere soffocati dalla maman e dai suoi metodi violenti e che prima o poi, anzi, prendono il sopravvento.

Dapprima la solidarietà e l’amicizia tra le sisters, con momenti di convivialità e di leggerezza, che offrono al lettore una sensazione di apparente gioia, che svanisce quando la protagonista nutre sensi di colpa per la difficoltà di proteggere le ragazze più fragili, e poi l’amore, fino a quel momento solo idealizzato nelle favole raccontate dal nonno in Nigeria, assume il volto di Francis: “Erabon non aveva bisogno di complimenti, ma di un’amorevole forma di considerazione. La tenerezza dei corpi rimpiccioliva le difese e si vedevano per ciò che erano: due giovani ragazzi africani che si volevano bene”. L’amore, un sentimento così profondo che consente alla protagonista di riappropriarsi di sé stessa, del suo destino e, finalmente, del suo nome: “Fu in uno di questi momenti che lui prese a chiamarla Aoise”.

Dall’amore alla salvezza: Francis presenta ad Aoise Ciccio, un volontario del centro di accoglienza per migranti, per il tramite del quale la protagonista intravede spiragli di cambiamento nella propria vita attraverso la prospettata denuncia alle forze dell’ordine. Per la prima volta Aoise viene trattata come un essere umano e non viene vista come una “cosa”: “Non è colpa tua, tu sei solo una vittima… tutte quelle storie sul rito ju-ju e sugli spiriti dei morti sono storie inventate, credimi” e le strinse la mano ancora più forte. “Devi denunciarli, sarai protetta dalla polizia, ci sono molti posti dove accolgono le ragazze come te; sono gestiti da donne che hanno avuto la tua stessa esperienza di prostituzione, devi solo decidere. Ai tuoi parenti in Nigeria si può dire di andare via dalla città per un po’, una soluzione la si trova.”.

Chiaramente il percorso non è semplice e l’autrice offre al lettore tutta la confusione emotiva di Aoise, dilaniata da sentimenti contrastanti: da un lato il desiderio di andare via da quel posto infernale, dall’altro la paura che gli spiriti dei morti si vendichino sulla madre e sui fratelli, in virtù del giuramento officiato da Priest Wami. La protagonista è totalmente prigioniera delle sue credenze, terrorizzata, incapace di credere che possa esserci una vita migliore per lei e la sua famiglia, che la sua sorte possa essere volta al meglio. Aoise allora decide di svelare tutta la verità alla madre, la quale tuttavia resta silente al telefono: mancanza di comprensione nei confronti della figlia o totale consapevolezza della situazione? Per la prima volta la protagonista realizza che l’unica cosa che importava alla madre era il denaro mandato in Nigeria, indipendentemente da come lo guadagnasse.

Da questa amara scoperta la protagonista comincia a vincere le resistenze, a superare le paure, e finalmente a pianificare la fuga. “Ecco, io ci sono. Venite a prendermi, spiriti maligni. Forse esistete, o forse no, ma io non ne posso più!” E quando, in un antro limpido della sua mente, scandì queste parole, la paura divenne meno odiosa. Tirò fuori una voce immensa e gridò: «Basta!!!” (…) “In quel momento non si sentì sola, perché avvertiva la presenza dei suoi cari accanto a lei. E fu insieme a Prudence che salì sulla macchina di Ciccio, con i sedili bucati e la puzza di tabacco; fu insieme a papà Yusuf e a Daren che salutò Francis dal vetro posteriore della Fiat Punto, mentre la città di Castel Volturno, il mare, le case, i cumuli di rifiuti lungo le strade si dissolvevano esangui sotto il suo sguardo”.

Una volta al sicuro, sfuggita al controllo anche psicologico dei suoi aguzzini, decide di denunciare Sonia e Sammy, collaborando con le forze dell’ordine, trovando così il coraggio di diventare una donna finalmente libera: “Io non mi chiamo più Erabon, mi chiamo Aoise”.

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Agenda Rossa – articolo di Luciana Grillo

Recensione comparsa su L’Adigetto.it

Giulia Mafai, «Agenda rossa» – Uno quadro duro, amaro e impietoso sui pregiudizi di un mondo maschilista e retrogrado

Giulia Mafai ha un cognome importante, figlia di Mario Mafai e di Antonietta Raphael, sorella di Miriam, è stata una importante protagonista della vita culturale italiana del secondo Novecento.
La sua ultima fatica letteraria, Agenda rossa, è stata pubblicata dopo la sua morte.
Al centro della storia c’è Katya, a cui dà vita una giovane donna, aspirante giornalista – Samantha detta Samy – che per una pura coincidenza va a vivere, una volta laureata, proprio nella casa dove Katya aveva abitato fino alla morte.
Lì trova un’agenda rossa «dimenticata o scivolata inavvertitamente dal sacco di plastica: anno 1965… dentro i giorni e i mesi si srotolavano vuoti… qualche appunto senza interesse… treni e riunioni, riunioni e treni…».
 
Per Samy il desiderio di scoprire chi fosse stata la donna che l’aveva preceduta fra quelle mura è insopprimibile, così comincia a indagare: esiste solo un indizio, il nome Katya e l’iniziale del cognome, B.
Samy chiede all’agente immobiliare, alla cassiera del bar dove va a prendere il caffè e lentamente cominciano ad apparire ricordi e dettagli: non Katya, ma Adua; non un’oscura impiegata ma una donna impegnata in politica, «una vera combattente…altro che anonima signora borghese… Su internet c’erano pagine e pagine».
Una figlia, a cui il padre aveva dato un nome che testimoniasse l’appartenenza al Fascismo (Adua), nome che lei aveva rifiutato, dopo aver capito, dopo averlo visto partire per Salò insieme al giovane Umberto, il fratello non ancora maggiorenne <<che aveva opposto una timida resistenza dicendo che non se la sentiva…».
 
Di Umberto, madre e sorella non seppero più nulla, «disperso», mentre il padre tornò, ma non gli fu permesso di rientrare in casa, come se nulla fosse accaduto.
Adua-Katya «era cresciuta odiandolo per come si muoveva, per la voracità con cui mangiava, per la voce sempre alta, volgare. Il solo ricordo le faceva orrore, provocandole repulsione, perciò le era stato facile, istintivo, ritrovarsi a combattere sulla sponda opposta».
Con l’aiuto del suo primo, grande amore – Renzo – Adua era cresciuta, aveva capito, era entrata nella Resistenza; poi la vita li aveva separati, ma avevano continuato a sentirsi.
Per Adua il Partito era stato lavoro e vita, ma con le donne non sempre gli uomini del Partito erano teneri, dunque Adua dovette lasciare Roma, affrontare ambienti ostili, dove era semplicemente donna, sola e per giunta comunista.
Pregiudizi che la isolavano dalla comunità.
 
Lo sguardo di Mafai su questo mondo maschilista e retrogrado è impietoso.
Per Adua sempre e soltanto lavoro – lavoro – lavoro, anche quando nascono i suoi figli che, abituati a vivere negli ambienti della Sezione, crescendo si rivelano ribelli e contrari ad impostazioni politiche.
Così è la vita, Adua!
Tuo marito se ne va con una donna più giovane, a te non rimangono che una prestigiosa onorificenza e un’agenda rossa da lasciare a Samy con le pagine bianche.

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Recensione Il mio nome è Aoise

Recensione di Cristina Quochi, originariamente apparsa qui

Con il romanzo “Il mio nome è Aoise” Marta Correggia, magistrato della Procura di Santa Maria Capua Vetere che si occupa di sfruttamento della prostituzione, è riuscita a realizzare un piccolo, importante miracolo: raccontare l’orrore della tratta delle donne nigeriane coniugando realtà e finzione, muovendosi in perfetto equilibrio fra un realismo crudo e spietato e una delicatezza che rasenta la poesia.
Sin dalle prime pagine è chiaro al lettore che non si tratta semplicemente di una storia di fantasia, o meglio che nella potentissima figura della protagonista si condensano le storie di tante ragazze che hanno avuto lo stesso tragico destino. Aoise ha soltanto diciassette anni quando viene indotta a lasciare il suo villaggio in Nigeria per raggiungere l’Italia dove, le promettono, un’organizzazione di connazionali la farà lavorare come parrucchiera. In questo modo, saldato il debito con chi le ha pagato il viaggio, potrà avere un futuro e mandare soldi alla madre e i fratelli più giovani in Nigeria, visto che il padre è morto lasciando la famiglia in assoluta povertà.
La realtà, di cui un po’ abbiamo sentito parlare anche noi ma che l’autrice conosce benissimo in virtù del suo lavoro, è ben diversa: il giuramento ju-ju che Aoise è costretta a fare prima di partire, la vincola a una sorta di patto col diavolo che, per quanto a stento concepibile per noi occidentali, ha su di lei un potere assoluto ponendola alla completa mercé dell’organizzazione criminale che la destina al mercato della prostituzione a Castel Volturno all’interno di una Connection House.
Con un linguaggio scorrevole e alternando il racconto delle atrocità subite nel presente con le esperienze vissute nell’amata Nigeria, dove la povertà e la difficile situazione familiare non hanno impedito ad Aoise, nonostante la sofferenza, di sentirsi comunque amata e partecipe di un contesto culturale ricco di significato, l’autrice conduce con grazia il lettore all’interno di una realtà che ha il triste sapore dell’incubo: una pennellata dopo l’altra, il quadro che tratteggia appare terribilmente vero e fonte di vergogna per la nostra società che, di fronte all’impero economico costruito dalle organizzazioni criminali nigeriane, libiche e italiane, preferisce fingere di non sapere, abbandonando tante donne al loro destino. Ridotte in schiavitù e private persino del loro nome, a queste ragazze non resta nulla: chi tenta di resistere o di opporsi finisce con l’essere uccisa o col subire comunque violenze tali da scivolare nella pazzia.
Eppure anche in quell’inferno può aprirsi uno spiraglio di speranza, possono nascere affetti profondi, sentimenti di amicizia e complicità fra persone che, nonostante l’orrore, non rinunciano alla loro umanità e offrono, mettendosi in gioco e spesso anche in pericolo, una possibile via d’uscita.
Un romanzo la cui lettura consiglio assolutamente per comprendere “dall’interno” un fenomeno che troppo spesso ci lascia indifferenti e che potrebbe essere addirittura proposto in classe agli studenti delle scuole superiori, nonostante le scene crude e raccontate senza filtri. Oltre ad essere una storia emozionante, avvincente e ben scritta, offre infatti tantissimi preziosi spunti di riflessione su una realtà ancora troppo poco conosciuta o raccontata parzialmente, che merita invece di essere affrontata e approfondita con onestà e coraggio.
(Cristina Quochi)

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Chiara Valerio parla de “Il corpo Lesbico” su Repubblica

Essere lesbiche non è fare sesso

È fare politica

Scomparsa vent’anni fa, Monique Wittig torna di grandissima attualità, e in libreria, con le sue opere fondamentali. Ecco perché va riscoperta

di Chiara Valerio (per leggere l’articolo integrale qui)

«Tu nel momento stesso in cui non sei altro che una pressione un’insistenza nel m/io corpo… i/o ti chiedo di lasciarti vedere, ti domando di lasciarti toccare».

È probabile che Monique Wittig scrittrice e teorica francese, lesbica, scomparsa venti anni or sono, il 3 gennaio del 2003 a Tucson, dove insegnava letteratura francese e studi di genere – abbia scritto ciò che ha scritto, troppo presto. Il suo primo romanzo L’opoponax – pubblicato per la prima volta nel 1966 (Einaudi, trad. C. Lusignoli), uscirà presto in una nuova traduzione di Ilaria Piperno per Luiss University Press – vince il Prix Médicis e racconta la storia d’amore tra due adolescenti. È il 1964 e, del romanzo, Marguerite Duras dirà che è un capolavoro, il New Yorker, quando il libro uscirà in America, ne sottolineerà le prodezze linguistiche e la New York Times Review of Books strillerà che la migliore definizione è «uno smagliante rientro nell’infanzia». Quando, insomma, Monique Wittig, nata nel 1935 in una famiglia modesta e conservatrice a Dannemarie, paesino nell’Alto Reno, irrompe sulla scena letteraria, se ne accorgono tutti. Nathalie Sarraute dira: «Probabilmente non sarò qui a testimoniarlo, ma vedrete tra venti o trenta anni che scrittrice abbiamo premiato oggi».

Monique Wittig voleva essere chiamata “scrittore”.

Amore, prodezze linguistiche e infanzia, dunque trasformazione, rimarranno caratteristiche fondanti e motrici di tutta l’opera di Wittig – sia letteraria che teorica, teorica perché letteraria – talmente presenti che quando nel 1973 esce Il corpo lesbico, non tutti – e, in questo tutto, la comunità lesbica – capiscono che per Wittig il lesbismo non è solo un orientamento sessuale ma una pratica politica. Wittig lavora sui pronomi, cerca la scomparsa dei generi, scrive all’impersonale, smantella i generi grammaticali per tentare di intaccare le gabbie di genere nella società. Forse è troppo presto, oggi aggettivi come fluido o queer sono componenti di una riflessione che non riguarda solo le comunità omosessuali e gli studiosi e le studiose di genere.

Corpi che mutano in nuove forme. Lavorare sui pronomi, in parole forse troppo povere, significa rifiutarsi che il maschile faccia funzione di neutro, si appropri dell’universale.

Il 26 agosto 1970 Wittig è nello sparuto drappello di militanti che depone una corona di fiori alla memoria della moglie del milite ignoto, sotto l’Arc de Triomphe a Parigi. Il gesto, la performance diremmo oggi, segna la nascita del movimento femminista francese.

Sei anni più tardi, Wittig lascia la Francia per gli Stati Uniti, in rotta con le compagne del movimento, o si mette in discussione l’eterosessualità come modello sociale, o non si va da nessuna parte, ribadisce che lesbismo è pratica politica e non solo orientamento sessuale.

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“Lo scandalo della felicità”, storia della Principessa Valdina di Palermo

Articolo di Margherita Francalanza, originariamente apparso qui.

L’ultimo romanzo di Pina Mandolfo, scrittrice e sceneggiatrice, intellettuale da anni impegnata nella difesa e promozione dei diritti internazionali delle donne e nel riscatto culturale della Sicilia, narra la storia vera e straordinaria di una donna, Anna Valdina, principessa palermitana che, nel 1600 a Palermo, fu monacata a forza quasi bambina.

La protagonista trascorse cinquant’anni della sua vita nel tentativo di ottenere un processo per lo scioglimento dei voti, fino a riuscirci. Con implacabile geometria narrativa, Pina Mandolfo racconta la volontà e le ragioni di Anna Valdina, un’autentica e coraggiosa combattente, vissuta in un’epoca in cui il potere patriarcale comprimeva ogni anelito di libertà femminile. La storia di Anna e della sua vita in convento si intreccia con i fatti più rilevanti e con i personaggi della Palermo spagnola, in un racconto affascinante e struggente, carico di tensione.

La Valdina è certamente una donna di cui difficilmente ci si dimentica, la sua sola voce risuona forte da un lontano passato , attraversa i secoli e giunge alla contemporaneità. Provoca nel lettore una naturale complicità partecipativa, di indignazione e insieme desiderio di battersi al suo fianco, camminare scandalosamente .passo dopo passo, verso il diritto alla felicità degno di ogni essere umano.

“Il mio racconto , scrive l’autrice, è carico di tutta la passione verso un personaggio femminile non comune di cui ho voluto narrare la grandezza, descrivendone l’esemplarità di donna assoggettata ma non soggetta.”

Il racconto trae spunto da alcuni documenti d’Archivio ritrovati casualmente da Pina Mandolfo, poche trame elaborate tra ricerca storica, eventi del tempo e molta invenzione narrativa. Ma forse il “ caso “ è la miglior guida nel far emergere dal silenzio storie di donne dimenticate o volutamente occultate dalla Storia ufficiale per ulteriormente mortificarne la grandezza.

Numerosi personaggi ruotano attorno alle continue e singolari azioni di Anna Valdina, irriducibile nella volontà di chiedere un processo per lo scioglimento dei voti monacali. La storia della protagonista e la sua strana vita in convento si intrecciano con i più importanti fatti e personaggi della Palermo spagnola secentesca, le cui tracce, da quel tempo particolare, sono giunte fino a noi in un emozionante “continuum narrativo “.

Tra tanti personaggi, ad esempio, emerge Eleonora di Mora, l’unica donna, taciuta dalla storia, che divenne viceré a Palermo per ventinove giorni e rivoluzionò la città, ma “ taciuta dalla storia ufficiale “ e tutta da esplorare.

“Lo scandalo della felicità, storia della principessa Valdina di Palermo” potrebbe rientrare nella categoria del romanzo storico, le tracce d’archivio, la ricerca degli accadimenti e della società del tempo sembrano ricondurci a tale definizione. Eppure il libro , nella sua originalità , ci appare libero da “recinti” temporali e di genere. L’autrice crea un ponte ben visibile tra passato e presente, trascina il lettore dentro la storia che , trascinato nel tempo e nello spazio di Anna Valdina , è costretto a farsene carico , a portarla con se’ , finalmente alla luce del sole, fuori dalle stanze buie conventuali ,a farla finalmente vivere libera e ri/conosciuta.

La prosa di Pina Mandolfo è agile e insieme ricercata l’ impianto narrativo ritmato e intenso, un romanzo degno della migliore tradizione narrativa italiana e insieme una scoperta dell’immensa ricchezza nascosta della nostra Isola ,metafora del viaggio esistenziale delle donne (e dell’umanità tutta) nell’incessante ricerca della “ felicità” come diritto e dovere , promotrici di “ scandalo” e di scomode vite , pronte ad essere distrutte , per divenire Seme generativo di libertà.

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Basta lacrime – Storia politica di una femminista

Articolo di Alessandra Macci originariamente apparso qui .

Basta lacrime – Storia politica di una femminista-1995-2020 Vanda Edizioni 2022 di Alessandra Bocchetti, figura autorevole del femminismo italiano e presidente per molti anni del Centro Culturale Virginia Woolf di cui è stata tra le fondatrici, è un libro di grande interesse che raccoglie interventi, lettere, articoli, saggi scritti dal 1995 al 2020, anni in cui il femminismo della differenza si afferma sempre più come filosofia, politica e pratica quotidiana. Basta lacrime è un invito, una “chiamata” che tiene insieme pratica politica e pensiero delle donne, a non lasciarsi considerare sempre oppresse, perseguitate, osteggiate e danneggiate dal sistema patriarcale. Basta lacrime dice Bocchetti è un invito a uscire dalla trappola del vittimismo e a far leva, a prendere coscienza della grande forza che hanno le donne. E’certamente spiazzante per la storia e per l’esperienza troppo a lungo inespressa anche dalle donne stesse. Ragiona su dualismi quali: violenza-forza; declinata anche come debolezza/forza; bisogni-desideri; potere-potenza; autorità-potere; ordine-disordine; civiltà degli uomini-civiltà delle donne. E racconta le parole del femminismo: il privato è politico; il partire da sé; il diritto alla felicità. Si sofferma sul perché è importante passare dalla civiltà dell’uno alla civiltà del due che rappresenterebbe un cambiamento epocale, il tanto auspicato cambio di civiltà. Pone criticamente il tema dell’utero in affitto affermando che si sta operando sul corpo delle donne uno sfruttamento peggiore di quello operato sulla classe operaia. Non dimentica la pandemia, la fragilità e il bisogno di attenzione, cura ed amore espressa dalle donne in quella tragica fase. Ai dualismi, alle parole del femminismo, alle critiche alla politica dei partiti e delle istituzioni l’autrice in e cerca di offrire un terreno di confronto e di lavoro politico. Lo fa percorrendo la storia del movimento delle donne, del femminismo della fine degli anni sessanta, a partire dalle lotte che hanno segnato il femminismo della differenza e quello di Stato. Ricorda la grande manifestazione del 13 febbraio 2011 quando il paese da spettacolo da basso impero e le prime pagine dei quotidiani sono piene delle performance sessuali del Presidente del Consiglio. Ma quel giorno le donne danno al Paese una grande lezione di civiltà. E la Bocchetti intervenendo alla manifestazione in Piazza del Popolo gremita, esordisce con un “Bentornate”. E conclude con: “Buona fortuna a tutte, perché anche la fortuna ci vuole!” Basta lacrime dunque.

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SAVE THE DATE: eventi di gennaio-febbraio 2023

13 gennaio
Collettivo Mama presenta ROSA SPIA
Biblioteca Auris (Vignola MO) ore 20:30
Con le autrici Anna Paragliola, musica e voce Ellen River

13 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Istituto Gramsci Siciliano (Palermo) ore 17:00
Con l’autrice Mariella Pasinati e Maria Concetta Sala

14 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Cavallotto Librerie (Catania) ore 17:30
Con l’autrice José Calabrò, Giovanna Crivelli, Anna di Salvo

15 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Biblioteca Comunale (Giarre CT) ore 17:30
Con l’autrice Teresa Sciacca, Gabriella Gullotta, Alessandra Nucifora, Tania Spitaleri

19 gennaio 
Antonella Ortelli presenta SENZA AZIONE
Casa delle donne (Milano) ore 18:00
Azione teatrale di Irene Quartana
Con l’autrice Giulia Kimberly Colombo, Chiara Martucci, Giuliana Peyronel e Annamaria Teruzzi

23 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Spazio Sette Libreria (Roma) ore 18:30
Con l’autrice Nadia Fusini, Daniela Preziosi e Linda Laura Sabbadini

26 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Istituto studi filosofici (Napoli) ore 16:30
Con l’autrice Giovanna Borrello, Alessandra Macci e Stefania Tarantino

27 gennaio

Marta Correggia presenta IL MIO NOME È AOISE
Galleria d’Arte di Palazzo Candia (Aversa) ore 18:00
con l’autrice Dott. Nicola Graziano, Dott.ssa Caterina di Martino e Avv. Giovanni Puca
Riflessioni musicali del Mastero Edoardo Amirante, Reading a cura di Camilla Aiello

1 febbraio
Danielle Sassoon presenta A BEIRUT NON CI SONO PIÙ CANI
Verso Libri (Milano) ore 19:00
con l’autrice Moni Ovadia

2 febbraio
Pina Mandolfo presenta LO SCANDALO DELLA FELICITÀ
Cavallotto Librerie (Catania) ore 17:30
Con l’autrice Giovanna Giordano 

8 febbraio 
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Manfredonia (FG)

9 febbraio 
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Biblioteca Magna Capitanata ore 17:00 (Viale Michelangelo 1 Foggia)
Con l’autrice Gabriella Berardi, Adele Longo, Mariagrazia Napolitano, Katia Ricci

10 febbraio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Palazzo dell’Acquedotto Pugliese Via Cognetti 38 Bari
Con l’autrice Chiara Divella e Giusi Giannelli

10 febbraio
Danielle Sassoon presenta A BEIRUT NON CI SONO PIÙ CANI
Libreria Ubik Ferrara ore 17:30
con l’autrice Moni Ovadia

21 febbraio
Danielle Sassoon presenta A BEIRUT NON CI SONO PIÙ CANI
Libreria degli Asinelli (Varese) ore 19:00
con l’autrice Moni Ovadia

24 febbraio
Pina Mandolfo presenta LO SCANDALO DELLA FELICITÀ
Belpasso, presso Biblioteca comunare Roberto Sava. Converseranno con l’autrice Margherita Francalanza e Luigi Calabrese. Agata Longo leggerà alcuni brani del romanzo. Introdurranno l’incontro gli assessori Fiorella Valadà alla Pubblica Istruzione e Tony di Mauro alla cultura- sarà presente il Sindaco Daniele Motta.

13 gennaio
Collettivo Mama presenta ROSA SPIA
Biblioteca Auris (Vignola MO) ore 20:30
Con le autrici Anna Paragliola, musica e voce Ellen River

13 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Istituto Gramsci Siciliano (Palermo) ore 17:00
Con l’autrice Mariella Pasinati e Maria Concetta Sala

14 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Cavallotto Librerie (Catania) ore 17:30
Con l’autrice José Calabrò, Giovanna Crivelli, Anna di Salvo

15 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Biblioteca Comunale (Giarre CT) ore 17:30
Con l’autrice Teresa Sciacca, Gabriella Gullotta, Alessandra Nucifora, Tania Spitaleri

19 gennaio
Antonella Ortelli presenta SENZA AZIONE
Casa delle donne (Milano) ore 18:00
Azione teatrale di Irene Quartana
Con l’autrice Giulia Kimberly Colombo, Chiara Martucci, Giuliana Peyronel e Annamaria Teruzzi

23 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Spazio Sette Libreria (Roma) ore 18:30
Con l’autrice Nadia Fusini, Daniela Preziosi e Linda Laura Sabbadini

26 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Istituto studi filosofici (Napoli) ore 16:30
Con l’autrice Giovanna Borrello, Alessandra Macci e Stefania Tarantino

27 gennaio

Marta Correggia presenta IL MIO NOME È AOISE
Galleria d’Arte di Palazzo Candia (Aversa) ore 18:00
con l’autrice Dott. Nicola Graziano, Dott.ssa Caterina di Martino e Avv. Giovanni Puca
Riflessioni musicali del Mastero Edoardo Amirante, Reading a cura di Camilla Aiello

1 febbraio
Danielle Sassoon presenta A BEIRUT NON CI SONO PIÙ CANI
Verso Libri (Milano) ore 19:00
con l’autrice Moni Ovadia

2 febbraio
Pina Mandolfo presenta LO SCANDALO DELLA FELICITÀ
Cavallotto Librerie (Catania) ore 17:30
Con l’autrice Giovanna Giordano

8 febbraio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Manfredonia (FG)

9 febbraio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Biblioteca Magna Capitanata ore 17:00 (Viale Michelangelo 1 Foggia)
Con l’autrice Gabriella Berardi, Adele Longo, Mariagrazia Napolitano, Katia Ricci

10 febbraio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Palazzo dell’Acquedotto Pugliese Via Cognetti 38 Bari
Con l’autrice Chiara Divella e Giusi Giannelli

10 febbraio
Danielle Sassoon presenta A BEIRUT NON CI SONO PIÙ CANI
Libreria Ubik Ferrara ore 17:30
con l’autrice Moni Ovadia

21 febbraio
Danielle Sassoon presenta A BEIRUT NON CI SONO PIÙ CANI
Libreria degli Asinelli (Varese) ore 19:00
con l’autrice Moni Ovadia

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Un buon auspicio! Basta lacrime!

Articolo di Maria Concetta Sala originariamente apparso qui.

Nel contesto sconquassato e sgangherato in cui ci troviamo a vivere la lettura dell’ultimo libro di Alessandra Bocchetti Basta lacrime (VandA.edizioni, 2022) offre a donne e uomini, a ragazze e ragazzi – interessati a leggere il risvolto meno noto delle origini dello scardinamento in atto e delle aperture su idee e visioni in un orizzonte di autentica libertà grazie alla potenza di un’idea sovvertitrice dell’ordine millenario del patriarcato – la possibilità di ripercorrere, se non di scoprire, la storia politica dell’Italia nel venticinquennio 1995-2020 attraverso lo sguardo di una donna impegnata insieme ad altre donne nell’edificazione di una civiltà che metta al primo posto un nuovo senso dell’umano rivolto alla cura del vivente, all’attenzione materna, alla tensione verso la giustizia.

Si tratta di una storia politica che continua ad alimentare « principi ordinatori della società » totalmente diversi da quelli dominanti –  quali il potere, il denaro, la violenza –  e che contribuisce a diffondere « una cultura meno eroica, meno violenta, più radicata nel mondo » (p. 287), perché ancorata alla conoscenza e all’accettazione della fragilità umana e della condizione di interdipendenza alla quale tutti, donne e uomini, siamo sottoposti. Si tratta di una straordinaria reinvenzione dello stare al mondo e nel mondo a partire dal « lavoro oscuro » delle donne, « insomma, l’invisibile della storia », che è « oggi, un tesoro da spendere accumulato nel corso di secoli, che è il loro sapere materiale generato dall’aver visto l’umanità sempre da molto vicino, nel suo splendore e nella sua miseria, nei profumi e nelle puzze » (p. 78).

Alla femminista della differenza Alessandra Bocchetti, figura di spicco del  Centro culturale Virginia Woolf di Roma, fondato nel 1979 insieme ad altre amiche, alla donna da sempre in dialogo con le istituzioni ma distante dal femminismo istituzionale o di Stato dobbiamo questa raccolta di scritti politici che pur precisamente datati in quel ventennio ruotano intorno a questioni ancor oggi decisive per il futuro dell’umanità tutta e sollecitano a un ulteriore dibattito – ne elenco alcune: violenza e identità, corpo e maternità, violenza e giustizia, diritti e desideri, libertà e liberazione, femminismo e femminismi, soggettività e governo delle donne… Questioni complesse che i documenti, le lettere, gli articoli di Bocchetti hanno il pregio di porgere con grande pacatezza e di formulare in un registro piano, scorrevole e chiaro.

Mi soffermo su alcuni aspetti in una certa misura sorprendenti e che più hanno destato la mia curiosità e suscitato interesse, primo fra tutti il riaffiorare in diversi scritti di un vocabolo quale « dignità umana », che vorrei reinterrogare tenendo presente la possibilità di stabilire dei nessi con la ricerca della felicità da parte di una donna.

Dignità è una parolina che ha una lunga storia: riguarda il valore unico e irripetibile che ogni individuo maschio o femmina possiede di per sé in quanto essere umano esistente su questa terra, nella sua qualità di essere umano, nel suo essere partecipe alla comune umanità. Simone Weil, molto amata da Alessandra Bocchetti, e il cui pensiero ricorre spesso in questa raccolta,  è la prima a fare dell’affermazione della dignità umana un obbligo incondizionato, l’obbligo primario, agganciandola ai bisogni umani, al nutrimento del corpo e dell’anima di ogni essere umano:

L’oggetto dell’obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l’essere umano in quanto tale. C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia ad intervenire; e persino quando non gliene si riconoscesse alcuno.

Quest’obbligo non si fonda su nessuna situazione di fatto, né sulla giurisprudenza, né sui costumi, né sulla struttura sociale, né sui rapporti di forza, né sull’eredità del passato, né sul supposto orientamento della storia. Perché nessuna situazione di fatto può suscitare un obbligo.

Quest’obbligo non si fonda su alcuna convenzione. Perché tutte le convenzioni sono modificabili secondo la volontà dei contraenti, mentre in esso nessun cambiamento nella volontà degli uomini può nulla modificare (1) .

Si tratta, continua Simone Weil, di un obbligo fondamentale, eterno, incondizionato, che « non ha un fondamento, bensì una verifica nell’accordo della coscienza universale » (2) e che si trova espresso nei più antichi testi a partire dall’antico Egitto.

Per Alessandra Bocchetti dignità è una grande parola: « A pensarci bene, da sola basterebbe a fare un buon programma di governo. Se si pensasse alla dignità che a ciascun essere umano si deve in questa terra, che meravigliosi programmi si farebbero per il lavoro, per l’istruzione, per la salute! Sì, dignità è una parola che ci aiuta a fare bene » (p. 224). Gli esseri umani, donne e uomini, sostiene giustamente Bocchetti, sono uguali unicamente nella dignità, che « non è un bene da conquistare ma che ciascuno ha, malgrado se stesso, per il solo fatto di essere nato, per il solo fatto di condividere la condizione umana. Mi piacerebbe leggere nelle aule dei tribunali la scritta in bella vista: “La dignità è in ciascuno di noi”, sarebbe forse una frase profondamente più vera de “La giustizia è uguale per tutti”» (p. 245).

Il riconoscimento della dignità umana, lo sappiamo,  è un pilastro della civiltà giuridica e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata nel 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e sappiamo anche quali e quante lotte le donne hanno dovuto sostenere perché questo principio si traducesse in realtà di fatto, ma, sottolinea con vigore Bocchetti, tutto quello che le donne hanno conquistato sulla carta, nei diritti, « può restare lettera morta se non viene animato da un soffio […] che dà energia» e questo soffio « è appunto un’idea nuova e forte, capace di cambiare le regole del gioco. […] È l’idea di diritto-aspettativa di felicità. Vedete, ho usato una doppia parola, “diritto-aspettativa”, in realtà né l’una né l’altra vanno bene, la parola diritto è troppo arrogante, la parola aspettativa è troppo debole. Ce ne vorrebbe una terza…» (p. 81).

Saggiamente viene sottolineato in un altro scritto che si tratta di un’idea nuova, di uno straordinario e rivoluzionario risultato, perché ha innescato un mutamento nell’ordine del discorso e nell’ordine dei fatti, ma qua e là affiora l’impazienza del “tutto e subito” che è a mio parere un errore, perché la rivoluzione delle donne è una rivoluzione simbolica, nella quale rientrano azione e contemplazione, e necessita di tempi lunghissimi E del resto lo ammette la stessa Bocchetti nel suo intervento nel corso di  un convegno sugli anni Settanta svoltosi a Cinisi nel 2018: « La felicità di una donna ha dato sempre un certo scandalo nell’ordine dei padri, risultava sempre un po’ fuori posto, il dolore era il sentimento che più si addiceva alla donna, la sua icona. Adesso invece questa felicità possibile è nella testa di tutte noi » (p. 239); e questo «è stato un grandioso passo avanti verso la libertà » (p. 247), lo ribadisce in un discorso tenuto durante il convegno “Stereotipi e pregiudizi sulla violenza di genere” organizzato dall’ Area Democratica per la Giustizia in Senato nel 2019.

Un altro aspetto importante di questo libro è il rilievo dato al lavoro delle donne, quello in casa, quello fuori di casa, fino alla presa di posizione giustamente intransigente nei confronti di quel terribile contratto che regola la  maternità per altri. Bocchetti è consapevole della visione statica della libertà delle donne che la politica tradizionale ha fatto propria e denuncia le armi a doppio taglio quali, ad esempio i congedi parentali e il part time, che mantengono le donne prigioniere e protette in gabbia; e si pronuncia contro le politiche di genere che hanno rafforzato e non eroso la miseria e la debolezza femminili in una sincera autocritica che è qualcosa di raro e di esemplare nella storia del movimento delle donne: « Abbiamo dato credito solo alla miseria delle donne, alla loro debolezza e abbiamo cercato di mettere a punto politiche di tutela, di riparo, di consolazione, non rendendoci conto che, così facendo, contribuiamo alla nostra imperfetta cittadinanza. […] La nostra cittadinanza diventa piena solo quando la nostra attenzione e tensione modificatrice va alla società intesa nella sua complessità », perché le donne sono « parte costituente della società stessa» (pp. 152-53). La sua riflessione sulla formula “forza-lavoro” è fondamentale ancora oggi : «Un padrone di fabbrica non compera l’operaio, compera la sua “forza-lavoro”. L’operaio non vende il suo corpo, vende la sua “forza-lavoro”. Simone Weil e altri ci hanno spiegato questo puro imbroglio. Weil, che ha voluto sperimentare la catena di montaggio alla Renault, ci racconta che è l’intera vita che se ne va, se ne va il poter pensare, il poter immaginare, la voglia di parlare, la salute, l’eros…» (pp. 217-18).

Alessandra Bocchetti fa bene a sottolineare l’importanza che potrebbe avere oggi una riflessione delle donne sul lavoro: « Nessuno ha mai difeso veramente il lavoro delle donne, né i partiti, né i sindacati. Il lavoro delle donne è stato sempre considerato aggiuntivo. […] È importante che il femminismo si assuma questo tema in questo momento, è un tema allo stesso tempo materiale e profondamente simbolico » (articolo apparso il 20 luglio 2020 sul supplemento La 27esima ora del «Corriere della Sera»). Sono d’accordo, bisogna riprendere le fila del discorso a partire dal «Sottosopra» del 2009, Immagina che il lavoro, un manifesto ben sintetizzato nella formula Primum vivere, che significa mettere al centro la vita ma non subordinando l’esperienza materiale del vivere alla riflessione teorica sul vivere o viceversa, bensì attribuendo valore a ciò che rende la vita degna di essere vissuta, a ciò che è vitale e non mortifero (3).

________________________

1) Simone Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, trad. di Franco Fortini, SE, Milano, 1990, p. 14.

2) Ibid., p. 15.

3) A questo proposito si  vedano ulteriori considerazioni nell’articolo redatto per «pressenza. International Press Agency, redazione di Palermo:  https://www.pressenza.com/it/2020/11/tutto-il-lavoro-indispensabile-alla-vita/

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Una donna in tribunale per fuggire dal convento

Articolo di Antonella Scandone (Repubblica.it) originariamente apparso qui.

Io non ci morirò in questo luogo“.Fu questo il ripetuto grido di dolore che per oltre quaranta lunghi anni accompagnò la vita di una nobile palermitana del Seicento, la sua discesa in un inferno rappresentato da una vita che non voleva e contro la quale lottò, a dispetto degli uomini e delle loro ottuse convinzioni. Questa è la storia di una donna, nata principessa Anna Valdina, vissuta come suor Maddalena e morta come principessa Anna Valdina. Finalmente donna libera dopo una vita da suora. La sua vicenda, sconosciuta ai più, è venuta fuori da tre polverosi faldoni che raccolgono le carte di un processo lungo tre anni. Processo che le consentì il ritorno alla vita secolare, dopo che, entrata in convento a sette anni per ricevere un’ educazione consona ad una donna del suo ceto, fu costretta a prendere i voti a soli dodici anni. Cinquanta anni da sepolta viva nel Monastero delle Stimmate, a Porta Maqueda, successivamente distrutto per far spazio alla costruzione del Teatro Massimo. Ne uscirà, la suora-principessa, grazie ad un’ incredibile forza d’ animo che non l’ abbandonò mai, a 57 anni. Morì, dopo essere tornata in possesso dei suoi averi e del suo titolo, cinque anni dopo. A fare rivivere la dolorosa vicenda di Anna dei principi Valdina è stata giovedì scorso al Kalhesa la professoressa Pina Mandolfo, tra le fondatrici della “Società italiana delle letterate” che si occupa della scoperta e della diffusione del sapere e della cultura delle donne, delle loro vite spesso nascoste. La Mandolfo ha tenuto una conferenza sulla Valdina, nell’ ambito del ciclo di incontri organizzato dal Fai. «Mi sono imbattuta nella storia di Anna Valdina – racconta Pina Mandolfo, autrice del libro “Desiderio” – mentre effettuavo una ricerca all’ Archivio di Stato sui ruoli femminili dal dodicesimo al diciannovesimo secolo. Erano gli atti del suo processo per lo scioglimento dei voti, e mi sono sembrati una scoperta interessante per lo spaccato che offrivano sulla realtà politica e sociale della Palermo del Seicento. Non vorrei sembrare estremista, ma mi sembra che nulla, o quasi, sia cambiato da allora. Questa è ancora una terra piena di intrighi, privilegi, dove qualsiasi iniziativa culturale è boicottata al fine di rendere tutto immutabile. Dove vige solo una cultura del privilegio, dell’ apparire e del non essere». Una cultura, insomma, intrisa ancora di quella mentalità che portò la famiglia a rinchiudere Anna e le sue tre sorelle in un convento per preservare i beni della famiglia ad un unico erede. La sua storia si differisce, però, da quella di tante altre sfortunate che prima e dopo di lei subirono lo stesso destino, perché Anna non si rassegnò mai, gridò per tutta la vita, contro chi le impediva una vita normale. «Fu solo dopo la morte del fratello – prosegue la Mandolfo – che dopo aver causato tanto dolore a lei ed alle sorelle, morì senza lasciare eredi, che Anna riuscì a farsi aiutare da un potente zio, protonotaro del Regno, al quale promise di lasciare in eredità tutti i suoi beni, se solo fosse riuscita a tornarne in possesso, sciogliendosi dai voti. Quei beni che, il fratello, morendo, aveva lasciato ad un prelato con il quale, per tutta la vita, aveva intessuto una relazione dai contorni non chiari, e che fu uno dei più strenui oppositori alla libertà di Anna». Dopo la morte del padre e del fratello, figure fortemente temute, molti accettarono di testimoniare e di raccontare come i suoi voti non avessero nulla a che vedere con la vocazione ma fossero solamente il frutto di una barbara usanza. Testimonianze che, alla fine, le consentirono di vincere il processo. «Alla morte di Anna, ultima erede della sua famiglia – racconta ancora la Mandolfo – i beni passarono, così come da lei promesso, alla famiglia dello zio. Il palazzo Papè Valdina in via del Protonotaro, di fronte alla biblioteca, appartiene ancora oggi alla famiglia ma versa in uno stato di totale degrado e mi auguro che si possa intervenire per restituirlo agli antichi splendori, così come è avvenuto per un’ altra proprietà della famiglia, il castello di Rocca Valdina, che è stato restaurato ed aperto al pubblico. Trovo particolarmente impressionante in questa vicenda, che tra le numerose carte esistenti, tra tutte le testimonianze, non compaiono mai donne. Neppure la madre della stessa Anna. Nessuna voce femminile che si alzi a difesa della sua libertà, a riprova che il presunto matriarcato di cui tanto si parla, funge solo da portavoce di una cultura maschile». Dalla ricerca della professoressa sono venute fuori anche altre storie simili, altri destini che si sono incrociati con quelli di Anna. Come quello della siciliana Francesca Lucchesi Palli, contemporanea della prima, o come quella di due sorelle ragusane, della famiglia Grimaldi, che nell’ Ottocento riuscirono ad uscire dal convento, a sposarsi e poi a donare tutti i loro averi per la costruzione di scuole femminili. Con la convinzione che solo la conoscenza potesse liberare le donne da un destino senza speranza. Ed esistono anche delle testimonianze autobiografiche, come quella di Arcangela Tarabotti, anche lei vissuta nel Seicento e del suo manoscritto, conservato per decenni in un archivio privato e recentemente ritrovato e pubblicato con l’ esplicito titolo di “Inferno monacale”, o come “Misteri del Chiostro napoletano”, nel quale Enrichetta Caracciolo, napoletana vissuta nell’ Ottocento, narra la sua vicenda di reclusione e di libertà riconquistata con una resistenza ed una lotta ostinata che più volte la portò a dichiarare: “Fossi uomo!”. Sulla figura di Anna Valdina, Pina Mandolfo prossimamente pubblicherà un libro. Una storia che, partendo dai documenti esistenti, si trasformerà in romanzo, per restituire ad Anna i desideri e i sogni che le furono sottratti.
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“Senza azione”. Un libro di Antonella Ortelli.

Articolo di Alba Robustelli originariamente apparso qui 

Agilissime, e pure senza numerazione sono le pagine di questo libretto di Antonella Ortelli, per sperdersi come dentro un bosco o nell’erba, un fanciullino ci vedrebbe interessanti cose reali: formiche, grilli, piccole cavallette e maggiolini, e persino al crepuscolo le lucciole.

E basta aprire la biografia, prime dieci pagine, poi una o due qui e là…  qualsiasi parola o riga, ne resti incantata progressivamente, sempre di più, e ancora di più… Dovendo smettere, per un arrivederci, mi sono accorta che non lo volevo lasciare, e ne ho morso un pezzetto di copertina, in alto, a sinistra. Ha un aroma giapponese ed una carta soavissima.

Autocoscienza siamo in poche, ma tutte lo siamo con buona ragione – questo libro ci rappresenta tutte. Chi può, lo legga. Poi, se vuole, lo distribuisca: è snellissimo e scivola in tasca. In più: merita di trovare piccole e grandi lettrici, e soprattutto visibilità. Perfetto regalo ad amiche ed amici preziosi, ai familiari…, insegnanti, vicini di casa simpatici, all’infinito…Sinteticamente ecco la mia opinione personale: un piccolo inaspettato capolavoro. Qualcuna vi leggerà Antonella, altre se stesse o proprie sensazioni…

È poesia pura ed autocoscienza pura: ma con un particolare carattere; e ancora di più c’è da intravvedere…
Grazie oceanico a chi ha aiutato l’autrice in questo lungo travaglio (Anna Teruzzi che ne ha curato la grafica e Cosimo Quartana per il bel ritratto), lei che, come anguilla, si tutela da ogni forma di autoincensamento o autoinganno.
Lo proporrò a chiunque ne sia degno, è talmente poetico… e pochi leggono.

Ma la poesia è immortale. Chiudo e… ritorno al sonno soave, sto  insieme alla mia bestia preferita di oggi. Una capra. E domani quale bestia? Onore a tutte, tutte. Me lo appoggio e dormo sulla pagina, beatamente sino all’alba. Mi bastano altre due ore di sonno, d’ogni sogno…

Senza azione (Milano, VandA edizioni, 2022) verrà presentato nello Spazio da Vivere della Casa delle Donne giovedì 19 gennaio 2023, alle ore 18:00.

Dialogheranno con l’autrice Annamaria TeruzziChiara MartucciGiulia Kimberly ColomboGiuliana Peyronel.
Azione teatrale di Irene Quartana.