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Categoria: Rassegna Stampa
“Mio figlio è femminista” su Aosta Sera
La scrittrice e formatrice Monica Lanfranco: “Insegnate ai vostri figli maschi che no significa no”.
In “Mio figlio è femminista” l’educazione diventa uno strumento per dire no alla violenza contro le donne. Sabato 25 novembre l’autrice femminista Monica Lanfranco presenterà il suo “manuale di istruzioni” per arginare la cultura misogina.
“Se vi state chiedendo, essendo madre, padre o comunque punto di riferimento educativo di un bimbo o un ragazzo, se sia possibile trasferire le idee del femminismo in un giovane maschio d’oggi la mia risposta è decisamente sì”. Lo afferma la giornalista Monica Lanfranco, autrice del libro “Mio figlio è femminista”.
In questi giorni in cui il dibattito si è acceso su femminicidi e patriarcato, considerato causa della violenza di genere, il libro, che sabato 25 novembre alle ore 17 sarà presentato ad Aosta, risulta più attuale che mai.
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Recensione di “Mio figlio è femminista” su Pink Magazine Italia
Mio figlio è femminista – Pink Magazine Italia
A GIUGNO VANDA EDIZIONI HA PUBBLICATO UN MANUALE PER “CRESCERE UOMINI DISERTORI DEL PATRIARCATO”
“Mio figlio è femminista” è un libro della giornalista, scrittrice e formatrice Monica Lanfranco, madre, tra l’altro, di due figli maschi, ormai giovani uomini.
È un libro del quale il sottotitolo cattura l’attenzione forse ancor più del titolo stesso.
“Crescere maschi disertori del patriarcato”, dove le parole “disertori” e “patriarcato” rendono immediata la necessità di questa battaglia culturale ed educativa che dovrebbe iniziare nella famiglia e continuare a scuola.
A tal proposito, interessanti (spesso tristemente) le esperienze personali dell’autrice nelle nostre scuole italiane, dove la povertà dei ragazzi (non tutti, naturalmente e per fortuna) è ben descritta perfino nel loro (non) modo di vivere il loro ingombrante corpo di adolescenti. Non sanno muoversi se non colpendo, spostando, facendo cadere. La violenza verbale e fisica riempie dei vuoti di crescita evidenti. Nessuno ha saputo parlare, spiegare, rassicurare, mostrare anche con l’esempio che con le mani si può costruire, abbracciare, accarezzare.
La maggior parte di loro indossa e possiede oggetti all’avanguardia e molto costosi, ma ben pochi sanno esprimere un pensiero gentile, fare un discorso civile, avere consapevolezza del proprio corpo, dei sentimenti e delle emozioni (e le sa gestire e controllare).
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Recensione di “Mio figlio è femminista” di Monica Lanfranco su Letterate Magazine
Le vacanze, ahinoi, sono quasi giunte al termine.
In dirittura d’arrivo Silvia Neonato consiglia “Mio figlio è femminista” di Monica Lanfranco edito VandA Edizioni.
Folgorante e sincero, un libro snello e profondo che mai come in questi tempi andrebbe letto, per incamerare nel cervello e nel cuore ciò che l’autrice illustra. Parlo di “Mio figlio è femminista. Crescere uomini disertori del patriarcato”, VandA edizioni, 2023 di Monica Lanfranco, giornalista, scrittrice, formatrice femminista di lunga esperienza e, anche questo conta, madre di due maschi ora adulti. Lanfranco – che è stata una delle ideatrici di Punto G, il progetto femminista del G8 di Genova nel 2001 e che dirige la rivista Marea – spiega, senza far lezione, come educare un bimbo fin da piccolo a rispettare le donne, dandogli esempi concreti del proprio valore di donna e combattendo con fermezza gli stereotipi anche con i/le docenti dell’asilo e delle superiori. C’è un capitolo dedicato alle parole e un altro ai giocattoli e ai colori: fondamentali per contrastare il machismo e lui deve imparare, accettando la frustrazione, che “no” significa no e che può essere un’occasione. Nei capitoli a seguire ci incita a insegnare ai cuccioli i lavori domestici e la cura di piante, persone e animali, a parlare con loro di violenza maschile sulle donne, spiega come è importante che faccia amicizia con le bambine e che impari a cucinare e a presentare bene i piatti, quando è adolescente, perché la seduzione comincia dalla gola. E infine, ma ci sarebbe tanto da dire, Monica è convinta che il patriarcato si può smontare, che la non violenza si può insegnare, che la sessualità dei genitori va raccontata perché è da quel gesto d’amore che loro, i figli, nascono. Altrimenti resta solo la scuola violenta e senza gioia dei filmati porno che, scrive l’autrice, bimbi e bimbe consumano già a 8/9 anni.
Articolo di Monica Lanfranco su “Mio figlio è femminista”
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Come crescere, in un’epoca in cui purtroppo si verificano ancora femminicidi e violenze sulle donne, figli maschi femministi?
Monica Lanfranco, giornalista, formatrice e attivista, ha recentemente pubblicato il libro Mio figlio è femminista. Crescere uomini disertori del patriarcato (Vanda Edizioni), nel quale argomenta la concreta e importante possibilità di arginare la violenza maschile sulle donne cambiando le parole e le pratiche educative e la cultura fin dalla base.
Recensione su “Lo scandalo della felicità” di Pina Mandolfo
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Con eccezionale maestria, Pina Mandolfo ci presenta una delle troppe figure femminili che giacciono sommesse e sommerse nel grande fiume della storia, restituendole dignità, visibilità, luce.
La principessa Anna Valdina viene rinchiusa in convento ancora bambina, nella Palermo del 1642. Un destino altrettanto triste attende le sue sorelle. Ma Anna non si arrende: per decenni anni lotterà legalmente, tenacemente, per ottenere lo scioglimento dei voti perpetui che le sono stati imposti. Rifiuta persino di fare carriera tra le mura del chiostro, ricusando il titolo di badessa. Fino ad ottenere la sospirata, meritata libertà!
Per un momento, il cammino di Anna si incrocia con quello di Eleonora De Moura, unica donna vicerè di Sicilia, designata dal marito, senza altri eredi, in punto di morte. Eleonora regna per un mese soltanto: ma realizza importanti riforme.
Abbassa il prezzo del pane in modo significativo. Riduce assai le tasse per le famiglie numerose e concede loro aiuti concreti. Garantisce una equa dote alle ragazze in difficoltà che intendono sposarsi. Designa un magistrato del commercio, per favorire negozianti e artigiani, riunendo e agevolando oltre 72 maestranze. Ma la nobiltà e il clero la scacciano prima che possa liberare Anna Valdina dal suo giogo, accogliendone le suppliche!
Quando lascia il monastero, dopo una diatriba legale interminabile, Anna è una determinata sessantenne. Muore il 2 agosto 1702. Ha gustato la libertà per soli tre anni.
Il racconto è chiaro, avvincente, esauriente, soffuso di tenera poesia. Pagine importanti per ricordarci l’atrocità delle monacazioni forzate, sia maschili che femminili: una ingiustizia che si è protratta per secoli.
“Lo scandalo della felicità” di Pina Mandolfo è stampato da Vanda Edizioni. Pag. 173. Euro 16.
Articolo su Settimana News da Paolo M. Cattorini, “Ri-fare il genere”
Il monito della Beauvoir: “donne non si nasce ma si diventa” innerva tuttora, pur in nuove declinazioni, le teorie del femminismo (e del gender). Basterebbe ricordare la vicenda intellettuale di Monique Wittig (1935-2003), importante riferimento per il femminismo lesbico studiata e parzialmente criticata dalla Butler.
Dalla Wittig, Butler deriva la nozione di contratto eterosessuale quale paradigma epistemico che assegna intellegibilità ai corpi solo a partire da un genere stabilmente incorniciato-da e diretto-alla pratica dell’eterosessualità (e attraverso questa, alla procreazione). Per Wittig non si deve venire a patti col “regime” eterosessuale se si vuole prevenire in radice l’opposizione politica uomo-donna. Il vissuto lesbico destruttura la fissità binaria da cui deriva la tradizionale identità “femminile”.
Turbato da queste disgreganti critiche, il mercato mediatico dell’immagine ammicca e paga profumatamente, pur di riassimilare pacificamente il “corpo lesbico” ai canoni della moda (Il corpo lesbico è il titolo di un noto volume della Wittig ripubblicato recentemente da VandA Ed., Milano, 2023) invitando le “devianti” negli show televisivi più frequentati dagli e dalle influencer e you-tuber (i nuovi educatori morali sponsorizzati dal fashion business). Se donne si diventa (“one is not born a woman” – come Wittig traduce la Beauvoir) non lo si diventa per costituzione biogenetica o per rivelazione spiritualistica, ma attraverso pratiche come quella della scrittura, in cui si lavora sul linguaggio (inteso come vera e propria macchina da guerra culturale), in modo che esso riconosca forme minoritarie di vissuto erotico, rimosse dai cataloghi segnici dominanti.
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Intervista con Monica Lanfranco su Effe
Inaugurazione della libreria Lato D. venite a trovarci!
Intervista con Monica Lanfranco su Radio Sankara, sul libro “Mio figlio è femminista”
Intervista con Alessandra Bocchetti su La Verità
Articolo su La Verità di Maurizio Caverzan
Recensione di Rosa Spia su Gazzetta di Moderna
L’antidoto contro i femminicidi? Articolo di Monica Lanfranco su l’Avvenire
Il corpo lesbico – Articolo su Dinamo Press
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Uscito nel 1973 per le Éditions de Minuit, ed oggi riproposto in una traduzione di Deborah Ardilli per i tipi di VandA, “Il corpo lesbico” è uno dei testi in cui Wittig è nel pieno della sua fase di scrittrice sperimentale e dove il lesbismo diventa qualsiasi soggetto che pratica la sovversione dell’ordine eterosessista e patriarcale. Attraverso un’opera di sabotaggio dei codici ideologici e linguistici che hanno dominato secoli di letteratura sull’amore, Wittig incarica la scrittura e il linguaggio di reinventare un mondo libero dal giogo della norma eterosessuale e maschile
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Se per il primo femminismo la questione della liberazione era incentrata sulla lotta all’oggettivazione della donna da parte dell’ordine patriarcale, per Monique Wittig la donna non esiste se non come corpo lesbico. Vista l’importanza che negli anni Settanta del secolo scorso, nel pieno della conflittualità che animava tutti i movimenti di liberazione, rivestiva l’orientamento sessuale all’interno delle Questions Féministes, l’oggetto, o meglio, il soggetto del contendere è proprio il lesbismo come pratica di sovversione dei rapporti di forza materiali e simbolici che strutturano la norma eterosessuale capitalista. Per Wittig parlare della “donna” esclusivamente nei termini di differenza sessuale è fuorviante in quanto, seppur inconsapevolmente, va a rinforzare la lingua dell’economico – l’obbligo per la donna di riprodurre e prendersi cura della forza-lavoro – e a legittimare la lingua del Significante Fallo – la Donna esiste in quanto non-tutto castrato e assoggettato.
Per il movimento delle donne di allora era quindi poco percepita la «possibilità incarnata di rimettere in questione la società eterosessuale e le sue istituzioni» (Ardilli, p.12), come sostiene nella sua sapiente prefazione Deborah Ardilli, curatrice e traduttrice della nuova edizione di Il corpo lesbico per i tipi di VandA, che segue e “restaura” quella del 1976 curata da Christine Bazzin e Elisabetta Rasy per le Edizioni delle Donne. Per questa ragione, prosegue Ardilli, il lesbismo politico teorizzato e vissuto in prima persona da Wittig era visto come rischioso: nel migliore dei casi, il rapporto di sessaggio denunciato dalla scrittrice francese – lo stato di soggezione al potere dell’uomo e di assoggettamento alle dinamiche sociali del patriarcato – era considerato velleitario rispetto alla forza primaria e “trascendentale” della Legge (di Natura). Proprio per questo Psychanalyse et Politique, il gruppo che ruotava intorno alla figura carismatica di Antoinette Fouque, stigmatizzava il pensiero lesbico di Wittig come grottesca imitazione del modello maschile, tanto che Il corpo lesbico è stato più volte, e sconsideratamente, definito il frutto dell’“allucinazione onirica” di un’omosessuale in preda a deliri erotici vergati sotto l’egida di Saffo. Per il femminismo storico, insomma, il riconoscimento della libido femminile si riduceva a mera valorizzazione simbolica in grado di ripristinare un’equa e sana relazione eterosessuale, in cui libertà e amore costituivano i poli su cui far convergere le aspirazioni di emancipazione delle donne. La radicalità politica del lesbismo non può pertanto che essere invisibilizzata in nome di una critica dei rapporti di forza tra uomo e donna basata esclusivamente sulla sovversione delle norme e non dei rapporti sociali che tali norme giustificano e realizzano, consentendo la materializzazione del «rapporto di appropriazione generalizzata della classe delle donne da parte della classe degli uomini» (Ardilli, p. 19).
Quando Il corpo lesbico venne pubblicato nel 1973 dalle Éditions de Minuit, Wittig è nel pieno della sua fase di scrittrice sperimentale, autorevole esponente dell’avanguardia letteraria dei nouveaux romanciers, in cui militavano figure di spicco del dissenso narrativo quali Alain Robbe-Grillet, Marguerite Duras, Michel Butor, Claude Simon e Nathalie Sarraute. Alcuni anni prima Wittig aveva pubblicato L’Opoponax, il primo volume della silloge pronominale successivamente integrata da Le guerrigliere e, appunto, da Il corpo lesbico.L’Opoponax, creatura anti-mitica – inscritta cioè in quella fenditura, in quel margine, che turba e interrompe la solida permanenza assiomatica dell’immagine del mondo cristallizzata dal realismo etero-capitalista –, ibrido né animale né vegetale, che irrompe saltuariamente anche tra le pagine di Il corpo lesbico,anticipa gli attuali grafemi con cui si sta smantellando il falso mito dell’identità di genere. Inoltre, il ricorso straniante ad aggroviglianti ed aggrovigliati neologismi e l’uso ossessivo del pronome io lesbica, che confligge con quello io donna, costituiscono il corpo politico di un’espressività che si batte contro la tradizione del romanzo, con le sue trame, le sue psicologie, le sue logiche narrative e i suoi segretucci edipici, aggiungerebbero Deleuze e Guattari.
Ma, infine, che cosa è Il corpo lesbico, e come si legge? Il nodo da cui partire, non per interpretare la creatura mostruosa di Wittig ma, semmai, per misinterpretarla (o disinterpetrarla), aderendo così all’alternativo mondo amazzone della scrittrice è prendere le mosse, come sottolinea Ardilli, dalla celebre affermazione di Simone de Beauvoir secondo cui donna non si nasce. Questo enunciato miliare non solo è assunto da Wittig in tutta la sua dirompenza, ma la scrittrice sviluppa anche un suo completamento e una sua deriva, portando in scena una realtà ancor più oscena: se donna non si nasce sicuramente donna si muore. Questo è, in sintesi, quello che “succede” nei suoi scritti di finzione, come pure Il corpo lesbico testimonia. L’isola abitata, più che descritta, da Wittig, questo Eden anfibio, al contempo e indissolubilmente paradisiaco e infernale, in cui vivono solo “femmine” e dove tutto è declinato in grammatica lesbica – animal(e), cos(e), uman(e), personagg(e) mitich(e) –, è la libido femminile stessa, la cui scrittura è già di per sé lettura. Scrittura e lettura sono femmine e lesbiche, in quanto corpi testuali da eviscerare nella diffrazione soggettiva/possessiva di un’autrice che dà del tu alla lettrice amante. Il pronome personale e possessivo in prima persona è barrato graficamente e pertanto i/o è un attante relazionale, affettivo e sessuale più che il personaggio di un racconto erotico omosessuale. Inoltre i/o e tu, «le due istanze di enunciazione che nel testo danno corpo alla passione lesbica» (Ardilli, p. 34), sono i pronomi che pongono la questione ideologica e storica dei soggetti femminili, come sottolinea la stessa Wittig in un suo intervento del 1975.
In fondo, quindi, Il corpo lesbico è un romance, nient’altro – si fa per dire – che una storia d’amore tra l’i/o della scrittrice e il tu della lettrice. È tra queste due polarità che prende forma il divenire lesbico del mondo-tutto. Ma a chi si rivolge Wittig con quel tu? Certo non alla donna, categoria conosciuta e, per questo, vittima del discorso e della letteratura, bensì alla m/ia più sconosciuta, all’amante complice – in tutte le accezioni del termine – all’apice della raffigurazione dell’amore lesbico, a partire dalla sua posizione privilegiata di intellettuale che dispone del plus/valore delle parole: «I/o sono colei che muggisce con i suoi tre corni, i/o sono la tripla, io sono la benevola infernale, i/o sono la nera la rossa la bianca, i/o sono la grandissima l’altissima la potentissima colei il cui alito deleterio ha intossicato migliaia di generazioni e così sia, i/o siedo nell’alto dei cieli nel cerchio stellare dove sta Saffo dalle guance viola […], ma tu vieni subito m/ia più adorabile i/o abbandono la m/ia posizione indubitabilmente gerarchica […] mi getto ai tuoi piedi di cui la m/ia lingua lecca la polvere, i/o ti dico benedetta fra le donne tu che per prima sei venuta a sollevarm/i dal m/io posto di guardia situazione quanto mai eclatante tuttavia triste a causa della m/ia grande solitudine» (p. 191).
Con questo solo brano già si evince la maestria poetica di una scrittrice pienamente a proprio agio con i riferimenti della “grande” letteratura – da Saffo ai libri fondativi dell’onto-teologia occidentale, passando per le sue e i suoi contemporane* –, nonché la parentela per contagio e alleanza – non per filiazione ri/produttiva – con il pensiero deleuziano. Il divenire lesbica/animala – tutte le animali che convivono con le amazzoni dell’isola sono sempre declinate al femminile (la cangura, la serpa, la giumenta…) – significa tessere relazioni nonumane – ossia, come afferma Deleuze nella videointervista rilasciata nel 1988 a Claire Parnet, avere un rapporto animale con l’animale. Analogamente, la lettrice deve intrattenere un rapporto lesbico con la scrittrice lesbica. E ancora: quello che affascina Deleuze è che tutti gli animali hanno un mondo che gli umani non considerano o si limitano a descrivere e analizzare dall’alto della loro supposta posizione privilegiata. Allo stesso modo, Wittig crea un mondo lesbico, dove i corpi lesbici sono anatomie rovesciate, decostruzioni de-evolute, processi invertiti da un corpo a un altro corpo, corpi con così tanti organi, esposti e descritti in maniera talmente minuziosa, da divenire insostenibili per l’Eteronormatività, il Patriarcato, la Storia, il Capitale, la Razza e l’Umano.
Il teriomorfismo, l’ibrido femmina/animale è allora da considerarsi non solo oltre l’umano ma più in profondità oltre la specie: «Tocco le tue mammelle dure, le stringo nella m/ia mano. Tu ti reggi ritta sulle zampe con una di loro a momenti raspi il suolo. La tua testa sulla m/ia nuca pesa, i tuoi canini m/i incidono la carne nella parte più sensibile, m/i tieni tra le zampe […], m/i strappi la pelle con gli artigli delle tue quattro zampe […], m/i aggrappo alla tua pelliccia […], a un tratto tutta febbrile m/i prendi sulla tua schiena m/ia lupa […] le m/ie gambe serrandoti i fianchi il m/io sesso sussultante contro i tuoi lombi, ti metti a galoppare» (pp. 67-68). Correndo sensualmente con questo ibrido, in un processo di perenne ibridazione, Wittig descrive con inusitata potenza una sessualità in cui i corpi lesbici vengono sottratti al genere etero-pornografico: corpi letteralmente fatti a pezzi per essere poi ricomposti in un divenire in cui il piacere/dolore, la carnefice/vittima, la predatrice/preda sono ecceità magnetiche e cortocircuitanti che strappano visioni alla misera realtà dell’erotismo omologato: «I/o sono da te montata a pelo. Le tue cosce m/i stringono i fianchi. […] La m/ia testa è scossa tirata per tutta la criniera dalle tue mani. […] Tu armi i tuoi talloni allora e le tue gambe. Premi su di m/e con tutta la tua forza voce stridente, m/i laceri i fianchi con le tue numerose punte d’acciaio, li scortichi, ne fai uscire la carne viva […]. Allora così tormentata in tutte le m/ie parti i/o m/i slancio in una galoppata furiosa, i m/iei zoccoli martellano la terra con violenza, nitrisco senza fine, urlo con tutte le m/ie setole rizzate, ti porto via» (pp. 102-103).
Wittig, che nel 1976 abbandona la Francia per gli Stati Uniti, sembra così anticipare il post-porno americano, che reifica le posizioni del femminismo storico per poi riappropriarsene nella ricomposizione di soggettività eterodosse, sia rispetto alla categoria “eterosessualità” sia rispetto alla categoria “donna”, soggettività che diventano immediatamente soggett* rivoluzionar*. È proprio in questo frangente storico, infatti, che assistiamo all’emergere di soggettività politiche – nere e latine, migranti e precarie, prostitute e queer – relegate ai margini delle elaborazioni teoriche del femminismo bianco, soggettività rivoluzionarie che aprono inedite questioni sul sesso e pro-sesso, fino ad allora ignorate, invisibilizzate o del tutto trascurate. Pensiamo, per fare solo un esempio, alla decostruzione pansessuale di Annie Sprinkle che materializza, come afferma Preciado, «uno spazio di azione politica attraverso il quale le donne e le minoranze sessuali possono ridefinire il loro corpo e inventare nuove forme di produzione del piacere che resistano alla normalizzazione pornografica dominante».
Wittig scrive il suo romance, la sua storia d’amore con la lettrice – su/a molto tormentata, amante impaziente, esultante, interdetta, solare, celestiale, amante sovrana – come se fosse già morta e vagasse nei meandri di uno spazio-altrove, dove ad esprimersi non è più il soggetto-oggetto donna, ma il corpo lesbico in quanto cadavere squisito. La confidenza con cui la scrittrice gioca con il proprio corpo vivo/morto è la stessa con cui dispone, sovvertendola, la relazione impossibile dell’amore con la morte. Se il mito, incluso quello di Eros e Thanatos, «abolisce la complessità degli atti umani, dà loro la semplicità delle essenze […] organizza un mondo senza contraddizioni […], dispiegato nell’evidenza» (Roland Barthes, Miti d’oggi, p. 223-224), al mito eterosessuale che performa uomini e donne come gruppi naturali, Wittig contrappone l’anti-mito dell’al-di-là, una cosmologia dei desideri che si consumano su un’isola in/umana (postuma e postumana), cioè letteralmente priva di uomini e donne: «Di tanto in tanto le m/ie braccia gialle e putrefatte da cui escono lunghi vermi ti sfiorano, qualcuno di loro ti striscia sulla schiena, tu fremi […]. Lungo gallerie sottosuoli minati cripte grotte catacombe ci muoviamo mentre canti con voce vittoriosa la gioia di ritrovarm/i» (p. 65).
Come sottolinea Marcuse in L’uomo a una dimensione a proposito della letteratura d’avanguardia succeduta alla produzione artistica dell’alta cultura che, pur sostenuta dalle classi privilegiate, già conteneva in nuce la contraddizione tra il potere che concede e l’artista che sublima la propria alienazione da un mondo che rifiuta, la nuova dimensione dell’arte nelle società tecnologicamente avanzate è contrassegnata dalla rottura della comunicazione. È questa dimensione a connotare la scrittura di Wittig che proprio sulla distruzione del linguaggio a favore delle parole – isolate dal mare della comunicazione – fonda il proprio discorso poetico. Aderendo alle semiotiche di Barthes e rinunciando alle regole della proposizione, Wittig «designa un universo intollerabile, autodistruttivo, privo di continuità» (Marcuse, p. 88), crea un mondo che sovverte l’esperienza prestabilita della natura che homo (sapiens, hetero, pater)si è storicamente dato. Le parole di Wittig, per riprendere Il grado zero della scrittura di Barthes, sono segni «senza legami, forti della violenza del loro prorompere in luce […] queste parole poetiche escludono gli uomini» (p. 72).
L’opera di politicizzazione del lesbismo di Wittig sta suscitando sempre più interesse non solo in ambito accademico. L’horror femminista, per esempio, sembra incarnare la visione della scrittrice francese, che situa nell’occhio – globo oculare, retina, nervo ottico – e non nello sguardo – in cui si annida il potere vivisettorio del regista – le lacrime amare della messa in scena. Quello che registe come Julia Ducournau – autrice di Raw e Titane, due dei più emblematici film del filone cinematografico de-genere e de-generato – vogliono esplicitare è proprio la dimensione sublime del corpo come nuova poetica della carne, profetizzata a suo tempo dal maschilismo esasperato di Cronenberg. Come nella scrittura di Wittig, in questi film il corpo lesbico è una macchina da guerra che affronta polisemicamente il corpo sociale, il corpo testuale e il corpo fisico come proiezioni del mito eterosessuale da distruggere.
Ma, allora, cosa può un corpo lesbico? Può senz’altro afferire a un altro corpo, a un corpo altro. La relazione tra due corpi, lo stato di affezione descritto da Spinoza, è una forma di conoscenza che Wittig descrive minuziosamente, immaginandola come una serie di infiniti processi di composizione e di decomposizione. Le lezioni deleuziane su Spinoza ritraggono il male come un cattivo incontro tra due corpi, una cattiva combinazione tra un corpo che disgrega, taglia e smembra e un altro che subisce questa alienazione dell’agire. In questo senso, l’isola delle lesbiche diventa il luogo dove è possibile comprendere di che cosa sia capace un corpo. Le personagge teriomorfe di Wittig rappresentano mappe affettive che, oltrepassando i presunti confini di specie, razza e genere, rimettono in discussione anche la “natura” eterosessuale delle “donne”: «Decomporre il corpo in parcelle infime, s/marcarlo dalla valorizzazione selettiva (labbra, seno, glutei, apparato riproduttivo) che compongono il mito della Donna» (Ardilli, p. 50). Il che ci riporta, come lungo il bordo di un’isola, al punto di partenza: distruggere la costruzione materialsemiotica eterosessuale del corpo significa affermare che non esistono donne ma corpi lesbici.
Forse il solo modo per de/finire questo libro è restituire alla parola il carattere, il peso e la dimensione che la logica propositiva della letteratura le ha irrimediabilmente tolto. Utilizzare il grado zero della letteratura per renderla indipendente dalla lingua degli uomini e dalla scrittura connotativa del romanzo borghese. A cominciare da prima della prima pagina: «LA CIPRINA LA BAVA LA SALIVA IL MOCCIO IL SUDORE LE LACRIME IL CERUME L’URINA LE FECI GLI ESCREMENTI IL SANGUE LA LINFA LA GELATINA L’ACQUA IL CHILO IL CIMO GLI UMORI LE SECREZIONI IL PUS LE….».
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“Insegnate che no significa no” – Estratto da “Mio figlio è femminista” su Il Fatto Quotidiano
Estratto da “Mio figlio è femminista. Crescere uomini disertori del patriarcato” di Monica Lanfranco (Vanda edizioni), su Il Fatto Quotidiano
Insegnate che ‘no’ significa no
Cresciamo in una cultura ancora in grande prevalenza pervasa da influenze culturali patriarcali misogine e, di conseguenza, rischiamo di educare le persone giovani che abbiamo accanto trasmettendo, in particolare ai nostri figli maschi, un pregiudizio atavico: quello secondo il quale le ragazze e le donne dicono di no alle avances e alle proposte sessuali, ma in realtà questo loro rifiuto è ambiguo, e in parte si tratta di un sì solo rimandato, che quindi potrebbe essere anticipato con qualche ‘forzatura’.
Sembra un dettaglio di poco conto ma attenzione: il pericolo molto concreto è che passi il messaggio che le femmine umane, oltre a non essere per nulla chiare e autonome rispetto ai loro desideri e decisioni, siano creature un po’ incerte e quindi da ‘accompagnare’, magari con una spinta un po’ rude, soprattutto nelle faccende sessuali.
Si tratta di un ben misero scenario relazionale, nel quale gli uomini sarebbero predoni costantemente in caccia di donne all’apparenza riluttanti ma in realtà vogliose, che di conseguenza descrive, e rende lecita, l’ottima probabilità di una sessualità tossica e impositiva da una parte e arrendevole e mai limpida dall’altra.
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Il mio nome è Aoise
“Si strinse a Prudence che dormiva con lei. Il suo corpo era enorme, un infinito complesso privo di proporzioni: le mani, le gambe, le braccia, i seni generosi, la pancia, il naso che le cascava sul viso, gli occhi neri che ricordavano gli anfratti delle savane. Emanava odore di casa, di terra nigeriana.”
Buongiorno Book Lovers oggi vi parlo di un libro molto particolare, il tema trattato è attuale e deve farci riflettere.
Mentre mi dedicavo alla lettura di questo libro mi è capitato di vedere un programma dove l’argomento era proprio quello del libro, la tratta delle donne da sfruttare per la prostituzione.
“Il mio nome è Aoise” di Marta Correggia è un libro che racconta la verità nella sua crudezza, nella sua crudeltà, parole, quelle scritte, che ci fanno percepire le atrocità e la sofferenza che queste donne subiscono e sentono, ci fanno capire come le credenze popolari sono ancora un mezzo di corruzione e di manipolazione delle menti di queste donne, che colpiscono la loro semplicità, i loro affetti, il loro credo. L’autrice con il suo linguaggio semplice e scorrevole riusce a portare il lettore in quel mondo fatto di corruzione, cattiveria, di sfruttamento.
“Il mio nome è Aoise” racconta la vita di una giovane donna nigeriana costretta a lasciare il suo villaggio, la sua terra, la sua famiglia per raggiungere un paese lontano, un sogno, un lavoro onesto che le permetta di aiutare la sua famiglia. Aoise ha perso il padre, unica fonte di sostentamento per la famiglia, i piccoli lavoretti suoi, della madre e dei fratelli non sono sufficienti a volte neanche per comprare qualcosa da mangiare. Un giorno le viene presentato un uomo che offre denaro per il viaggio di Aoise verso l’Italia dove lavorerà come parrucchiera, con lo stipendio potrà estinguere il debito e inviare denaro a casa. Per assicurarsi il saldo del debito la ragazza viene sottoposta ad un rito, se lei non rispetterà le regole, non salderà il debito, gli spiriti faranno qualcosa di male alla sua famiglia.
L’autrice racconta in maniera molto dettagliata il rito a cui la protagonista è sottoposta, il viaggio che affronta dalla Nigeria all’Italia, la traversata, i pericoli, fino a quando Aoise si ritroverà in un’abitazione di Castel Volturno e scoprire che è stata venduta per prostituirsi. Da quel momento in poi Aoise non ha più una vita, non ha più sogni, non ha più un corpo suo, non ha più un nome. Aoise diventa Erabon.
“Mentre i suoi ricci cadevano a terra uno dopo l’altro, Erabon immaginò che ad ogni ciocca era un pezza della sua vita di prima che veniva reciso.”
L’autrice, Marta Correggia, riesce perfettamente a dividere Aoise da Erabon. Quando parla di Aoise il racconto è poetico, gioioso, anche se parla di una vita di povertà, ci sono quelle piccole cose, quei racconti del nonno, la famiglia riunita, gli insegnamenti del papà, i primi amori, la scuola che lei ama tanto, che rendono Aoise felice di vivere, vivere la semplicità del suo piccolo villaggio. Erabon, il racconto diventa crudo, freddo, spietato, crudele. Erabon non è felice, cerca di ritagliarsi piccoli frammenti nascosti di gioiosità, in quel momento ritorna ad essere Aoise. Aoise è libera. Erabon non è libera. Erabon è una schiava. Erabon è la schiava di uomini che vogliono solo pagare per fare sesso. Erabon è una puttana.
Ma Erabon può tornare ad essere Aoise? Che prezzo ha la libertà? È vero quello che le hanno raccontato degli spiriti malvagi che si vendicano? Le credenze rendono liberi?
Anche in luoghi oscuri entra la luce, lieve, sotto forma di un piccolo raggio, per Erabon la luce si chiama Francis. Con Francis Erabon ritorna ad essere Aoise. Francis le racconta il profumo della libertà. Francis le fa un piccolo regalo, una radio con le cuffie, che potrà ascoltare di nascosto. La musica è libertà, è la sua terra. La musica racconta la nostalgia, la lontananza, i ricordi. La musica porta amore nel cuore di Aoise.
“Era il colore delle cose che cambiava, le pareti si allungavano e il bagno diventava il salone di un castello, il lavandino una sorgente di acqua fresca in mezzo al bosco. La bellezza entrava sotto forma di un sogno musicale nella testa di Erabon che diventava Aoise per il tempo di un giro di do e di un accordo di settima, diventava aria, si alzava sopra le nuvole e poi tornava a essere terra.”
“Il mio nome è Aoise” un romanzo che porta il lettore a riflettere, a pensare, pur essendo un romanzo di “fantasia” rispecchia la realtà. Tutti i giorni sulla nostra costa arrivano, senza che noi lo sappiamo, tante Aoise. Affrontano un viaggio verso la schiavitù non la libertà, verso la falsità non la verità. Più si allontanano dalle coste del loro paese più perdono un pezzo del loro essere. Più diventano, a loro insaputa, Erabon. Esiste anche un’altra dura realtà e verità non tutte le Erabon ritornano ad essere Aoise. Perché la verità spesso fa male, è difficile da affrontare, ma è il prezzo da pagare per essere liberi.
Erabon dovrà accettare la verità, dovrà capire di chi fidarsi, dovrà fidarsi nuovamente di chi non conosce.
Aoise spesso quando non è felice pensa al padre, alle passeggiate in cerca di erbe mediche per curare i malati del villaggio, lei ha imparato i segreti di queste piante ma il padre le ha insegnato altro. Anche i racconti del nonno e le poche parole dello zio le hanno insegnato qualcosa. Spesso ascoltiamo e non sappiamo che un giorno quelle parole ci saranno utili.
“…a guardare il sole che filtra tra gli alberi nelle foreste più scure, a pregare gli dèi e a non arrendersi mai.”
Nei nostri momenti bui, di sconforto ricordiamoci di quel breve momento in cui il sole filtra tra gli alberi, breve ma allo stesso tempo intenso, sfuggente, che ci regala pace, gioia, serenità, vita. In quei momenti ricordiamoci…”Il mio nome è Aoise”.
Giudizio finale:
Casa editrice: VandA edizioni
Prezzo: € 18,00
Pagine: 270
Buona lettura
Recensione a cura di Marta Bianchi. E’ possibile vedere per integrale l’intervista sul sito sottostante.
A proposito di Elena di Giuseppina Norcia
Voce alle Donne
recensione di Emma Fenu
A proposito di Elena è un narrazione polifonica, che fonde saggio, piece teatrale e racconto, scritto da Giuseppina Norcia ed edito da Vanda nel 2020.
Di cosa tratta A proposito di Elena?
Fa paura Elena.
Elena dea. Elena bellezza perfetta.
Elena proiezione dell’immaginario maschile. Elena specchio della violenza della guerra.
Elena doppia. Elena Luna, multiforme e mutaforme.
Elena Donna.
La sua storia racconta cosa gli uomini sono capaci di fare per il possesso. Possesso di una città, di un corpo. Possesso che è abuso, violenza.
Elena odiata dagli uomini sedotti, a fare i conti con i propri mostri, e dalle altre donne. Se l’è andata a cercare, Elena, non è vittima sacrificale come Ifigenia o emblema del coraggio come Antigone.
Elena è rea di essere bella e viva. Imperdonabile.
Non importa se fu stuprata a dodici anni e restituita, come un corpo di bambola, da Teseo.
Non importa se viene rapita e altri decidono una guerra, non lei.
Non importa se disprezza Paride ed è costretta a concedersi.
Non importa se ha un’opinione. Nemmeno le donne hanno orecchie per la storia di Elena.
Solo una donna la difende, la saggia Penelope, quella che sa attendere: sa che è vittima dell’inganno divino che conduce alla follia e sa che non può dire né fare nulla, figuriamoci se scatenare una guerra. La guerra è la follia degli uomini.
Gli uomini devono essere belli: la frase kalòs (bello) e agathòs (buono) diventa stereotipo: le qualità morali si esplicitano in quelle esteriori.
Ma Elena è una seduttrice pericolosa: in lei si ritrovano Ecate, Persefone e, soprattutto Artemide. E Eva?
Perchè leggere A proposito di Elena?
A proposito di Elena è un libro dalla bellezza travolgente. Seduce con storie, voci, richiami interni al testo, impliciti ed espliciti, connessioni che ricuciscono il mito con la cronaca e raccontano delle donne, non di una, e del corpo di tutte.
Non ho sintetizzato i vari argomenti trattati in modo puntuale e avvincente nei capitoli e l’intersecarsi di voci e storie e urla. Spetta a voi. Necessario è ascoltare, accogliere, comprendere.
L’epilogo invita alla rinascita. Si muore quando le proprie parole sono cancellate e dimenticate, ma si vive nel ventre di ogni storia raccontata dopo millenni di assenza e silenzio imposto.
Sia Voce a Elena, dunque e finalmente.
Sia Voce alle Donne, dunque e finalmente.
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Sinossi
Personaggio controverso e fascinoso, emblema della bellezza pericolosa, Elena di Sparta è portatrice di una complessità che ci sfugge.
Crediamo di conoscerla, eppure, per certi versi, di Elena non si sa niente.
Si sa, invece, l’effetto che fa sugli altri, al punto – così si dice – di aver causato una guerra.
Chi ha paura di Elena, dunque, e perché? Qual è la verità su di lei?
Desiderata e temuta dagli uomini, disprezzata dalle donne, apparentemente Elena non riabilita il femminile, non si presta a essere un’eroina da imitare come Antigone o Ifigenia, donne del coraggio e del sacrificio.
Così sembrerebbe. Ma andando alle radici sembra disvelarsi la possibilità di una storia diversa e di un’altra bellezza.
Perché fra le pieghe della Storia esiste sempre un’altra storia, soprattutto se il soggetto è donna.
Titolo: A proposito di Elena
Autore: Giuseppina Norcia
Edizione: Vanda, 2020
Recensione a cura di Emma Feru. E’ possibile vedere per integrale l’intervista sul sito sottostante.