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Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita, di Michela Fontana


di Mimma Zuffi (Sognaparolemagazine, 10 giugno 2018)


Ha fatto una grande sensazione al mondo che da giugno 2018 le donne dell’Arabia Saudita potranno guidare un’auto: la rimozione del bando è solo una delle timide ma importanti aperture in un Paese celebre per la segregazione femminile.

Ha fatto una grande sensazione al mondo che da giugno 2018 le donne dell’Arabia Saudita potranno guidare un’auto: la rimozione del bando è solo una delle timide ma importanti aperture in un Paese celebre per la segregazione femminile.
Dietro la rigida cortina che separa le donne dal resto della società, sono proprio le donne a cercare di esprimere le più forti istanze di rinnovamento.
Nel corso di un soggiorno di due anni in Arabia Saudita la giornalista Michela Fontana ha avuto modo di conoscere e intervistare attiviste, donne d’affari, studentesse, scrittrici e di raccoglierne i pensieri, i sogni, le battaglie. Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita è un libro inchiesta di grandissima attualità per conoscere “dal di dentro” il cuore del più integralista paese islamico. Un paese in via di trasformazione con l’affermazione sulla scena politica del nuovo uomo forte del regno, l’erede al trono Mohammed Bin Salman, che ha, fra l’altro, intrapreso un significativo percorso di riforme sociali, alcune delle quali riguardanti proprio il mondo femminile.

«Negli anni vissuti a Riad ho scoperto che sempre più donne saudite si fanno protagoniste del loro destino. Non più rassegnate e sottomesse, ma attive ecoraggiose. […] Sono loro il tesoro nascosto del paese». Michela Fontana

In una società dove solo il 17% delle donne cerca un impiego, sono sempre più numerose quelle che superano le barriere della tradizione e si cimentano nelle professioni notoriamente esclusive del sesso maschile – architetto, finanziere, ingegnere, artista o scrittore – anche sfidando i pregiudizi (come dimostrano la partecipazione alla Biennale di Venezia o il successo del coraggioso libro Ragazze di Riad di Rajaa Alsanea), incoraggianti segnali di una presa di consapevolezza del proprio ruolo, ora non più strettamente legato al volere dell’uomo.

Il libro è una polifonia di voci, di storie uniche di donne di diverse provenienze sociali – donne d’affari, professioniste, islamiste o semplicemente figlie, mogli o madri -, ognuna con il suo vissuto sempre teso in una costante dicotomia tra libertà e restrizione.
Sono diciassette storie che indagano – e rappresentano – le diverse sfaccettature,talvolta contraddittorie, di una società in trasformazione, stralci di vita raccolti oltrepassando muri invalicabili, felici istantanee di sudate conquiste.

È altresì una consapevole presa d’atto di una situazione che, come ben illustra l’autrice, ha «rafforzato la convinzione che non si può chiedere a un popolo cresciuto in una cultura diversa dalla nostra di seguire una strada tracciata da altri. Né si può forzare la storia, che in ciascuna nazione deve fare il suo corso, con i suoi tempi».

«La piscina degli uomini è all’aperto, è più grande della nostra ed è bellissima, ma non te la posso mostrare» mi ha detto Sofia. E ha aggiunto, con civetteria, che quando viaggiava all’estero con il marito per le vacanze non era un problema per lei nuotare in bikini nelle piscine miste degli alberghi dove soggiornavano. – Harem

«Mio padre era molto religioso, ma non era un conservatore. A lui devo tutto, la mia istruzione e il mio coraggio. […] “Sii te stessa” mi ripeteva. È lui che ha indirizzato la mia vita. Avevo dieci anni, avevo appena finito la scuola religiosa e nessuno in famiglia voleva che continuassi gli studi, perché ero una donna. Allora lui mi ha rapito. Mi aveva iscritto a un collegio in lingua inglese senza dirlo a nessuno, nemmeno a me. […] Quando gli ho chiesto piangendo se avrei potuto vedere ancora la mamma mi ha detto che sarebbe trascorso molto tempo, ma che era per il mio bene, per avere una vita migliore della sua.»- Aisha: puttane e comuniste.

«Quando sono all’estero posso fare molte cose, e riconosco che le università che i miei figli e le mie figlie frequentano sono fantastiche. […] Ma non capisco la vostra cultura e soprattutto non approvo la libertà che viene concessa alle donne. Le ragazze escono con i ragazzi quando sono giovani, si vestono in modo sconveniente e magari rimangono incinte. Per noi è inconcepibile. Da noi la donna è considerata un bene prezioso, è protetta, trattata come un gioiello. Quando parlate di noi in Occidente vi preoccupate soltanto del velo e della guida, ma non sapete niente delle nostre tradizioni. Io non voglio che le donne guidino nel nostro paese perché è troppo pericoloso. Che bisogno c’è di guidare, è tanto comodo avere l’autista! E il velo io lo metto volentieri. È il mio modo di ringraziare Dio di avermi dato dei figli sani, Al Hamdulillah. (Grazie a Dio)!» – Oro nero: i ricchi

Michela Fontana, giornalista e saggista milanese, ha vissuto quindici anni tra Stati Uniti, Canada, Svizzera, Cina e Arabia Saudita. Il suo libro Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming (Mondadori, 2005), tradotto in francese, spagnolo e inglese, ha vinto il “Grand Prix de la biographie politique” nel 2010. Ha pubblicato inoltre Percorsi calcolati (1996) e Cina, la mia vita a Pechino (2010), entrambi con la casa editrice Le Mani.

 

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Rebecca Town in giro per l’Europa

(Thriller Magazine,  3 ottobre 2014)


– Stanno riscuotendo sempre più successo i romantic suspense in digitale con protagonista una moderna signora in giallo. Il genere romantic suspense sta conquistando fette sempre più ampie di lettori, e l’editoria digitale gli ha dato quelle possibilità di espressione che purtroppo il cartaceo troppo spesso nega.

Stanno riscuotendo sempre più successo i romantic suspense in digitale con protagonista una moderna signora in giallo. Il genere romantic suspense sta conquistando fette sempre più ampie di lettori, e l’editoria digitale gli ha dato quelle possibilità di espressione che purtroppo il cartaceo troppo spesso nega.

L’autrice torinese Manuela Siciliani sta portando  avanti per la VandA.ePublishing una serie di titoli  con protagonista Rebecca “Becky” Town: una versione moderna e digitale della Signora in Giallo. In attesa del nuovo titolo – Rebecca Town a Praga -ecco gli eBook usciti finora.

Il primo intricato caso di Becky segna l’esordio sulla scena del delitto di una splendida newyorkese, modaiola, acuta, passionale, dal passato tormentato e scrittrice di guide turistiche. Questo è infatti il primo di una serie di romanzi ambientato ogni volta in una città diversa, una città descritta come si confà a una guida: le tappe da non perdere, i locali più trendy ma anche quelli più de lati e che però meritano “una menzione”, i luoghi dello shopping, le strade, i cibi… Ogni luogo diventa così l’incantevole cornice ai misteri che Becky, detective per caso, si trova a risolvere. Una città, un delitto. Ma c’è anche la personale vicenda della nostra esuberante guida, che nel corso di ogni romanzo troverà l’amore, scoprirà la verità sulla misteriosa morte dei genitori e… chissà? A Parigi incontra il sexy Benjamin Green e l’ambigua Margareth Wallace, lanciandosi in una spirale di cospirazioni che coinvolgono l’ambasciata americana. E mentre a New York la sua amica Jessie e la zia Cecil la crederanno al sicuro nella romantica città, Becky, con l’aiuto di un ispettore francese che tanto ricorda il celebre Poirot, risolverà il caso, grazie soprattutto alla sua intraprendenza. Disponibile anche in versione cartacea (su Amazon).

Rebecca Town a Londra

Doppia indagine è il secondo romanzo della serie che ha come protagonista Rebecca Town, detta Becky. Una splendida newyorkese, modaiola, acuta, passionale, dal passato tormentato e scrittrice di guide turistiche. Ogni romanzo è ambientato in una città diversa, una città descritta come si confà a una guida: le tappe da non perdere, i locali più trendy ma anche quelli più de lati e che però meritano “una menzione”, i luoghi dello shopping, le strade, i cibi… Ogni luogo diventa così l’incantevole cornice ai misteri che Becky, detective per caso, si trova a risolvere. Una città, un delitto. Ma c’è anche la personale vicenda della nostra esuberante protagonista.
Dopo il successo della guida viaggio su Parigi, la Writers & C. le a da una nuova meta turistica: Londra, una delle città più cool e trendy d’Europa. Londra è però la città natale di Becky, da cui è stata allontanata quando aveva quindici anni, in seguito alla morte dei genitori, e dove incontra il resto della sua famiglia. Qui riscopre i luoghi tanto amati da bambina, fish and chips…
Ma Becky non sarebbe Becky senza la sua curiosità innata che la trasforma in detective. Non si tratta solo di scoprire come sono morti i suoi genitori (è stato davvero un incidente?), un omicidio viene consumato proprio nel ristorante del futuro marito della cugina Emma. In suo aiuto verrà Luke Logan, intrigante figlio dell’ispettore. Riuscirà il giovane Luke a farle dimenticare il sexy Ben, che ha tinto di rosa il suo soggiorno parigino?

Rebecca Town a Roma

Passione e mistero è il terzo romanzo della serie che ha come protagonista Rebecca Town, detta Becky. Una splendida newyorkese, modaiola, acuta, passionale, dal passato tormentato e scrittrice di guide turistiche. Ogni romanzo è ambientato in una città diversa, descritta come si confà a una guida: le tappe da non perdere, i locali più trendy ma anche quelli più de lati e che però meritano “una menzione”, i luoghi dello shopping, le strade, i cibi… Ogni luogo diventa così l’incantevole cornice ai misteri che Becky, detective per caso, si trova a risolvere. Una città, un delitto. E poi c’è la personale vicenda della nostra esuberante guida.
Cupido aveva fatto scoccare la sua freccia nella romantica Parigi, e Becky e Ben erano entrati prepotentemente nella vita uno dell’altra. Si erano però lasciati male. A Londra una telefonata di Ben aveva schiarito il cielo sopra una Becky arrabbiata dopo l’inaspettata verità sulla morte dei suoi genitori.
Nello scenario della caput mundi, al colmo della felicità per un sogno d’amore che sembra essere divenuto finalmente realtà, mentre è intenta ad ammirare la Cappella Sistina, un uomo si accascia privo di vita sotto gli occhi di Becky. All’apparenza una morte naturale. Le indagini sono presto ostacolate dall’alto, ma non sarà questo a rendere la nostra protagonista sempre più inquieta. Dubbi e paure pian piano l’assalgono, finché il suo fiuto da detective la mette di fronte a una scelta difficile, quella tra l’uomo che ama e l’amore per la verità. Quale dei due sceglierà Becky?

Manuela Siciliani è nata a Torino nel 1978. Laureata a Milano in Relazioni Pubbliche, oggi vive a Sanremo. Mamma e moglie prima di tutto, fa l’agente di viaggi per passione e scrive per diletto. Rebecca Town, la protagonista dei suoi romanzi, vi porterà alla scoperta di meravigliose città dove, suo malgrado, si troverà a risolvere complicati casi di omicidio. Il tutto condito da leggerezza e love story.


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Eppure c’era metodo nella sua follia


di Serena Guarracino (Leggendaria, maggio 2018)


– Trilogia S.C.U.M. ripropone i testi della femminista passata alla storia per aver quasi ucciso Andy Warhol nell’ambito della guerra dichiarata ai maschi. Ma Solanas ha molte cose da dire anche al femminismo di oggi.

La settima puntata della serie televisiva American Horror Story: Cult, dal titolo Valerie Solanas è morta per i nostri peccati, ripercorre la vita dell’attivista e scrittrice americana; interpretata qui da Lena Durham, a sua volta attivista femminista nella Hollywood contemporanea, la Valerie tradotta nel linguaggio pop barocco della serie tv riprende e problematizza lo stereotipo della femminista squilibrata che odia gli uomini, di cui pianifica l’estinzione insieme alla sua setta (il cult, tema centrale della stagione), la S.C.U.M. o Società per l’Abolizione del Maschio. Ma il disagio mentale di Valerie impedisce il compimento del piano e porta allo sgretolamento della setta: al fondo della sua discesa nel delirio paranoico, l’attivista si trova faccia a faccia con la visione di un Andy Warhol irritante e compiaciuto, che le rinfaccia che l’unica cosa per cui sarà mai ricordata è di avergli sparato, senza peraltro ucciderlo, quel 3 giugno del 1968.

Trilogia SCUM, volume che per la prima volta raccoglie in italiano i testi fondamentali di Solanas, si confronta sin dall’inizio con lo stereotipo quasi fumettistico di questa autrice «impudente, incendiaria, rabbiosa e tragicamente comica», come la definisce Stefania Arcara in apertura della sua ricchissima introduzione al testo. Questa raccolta registra il bisogno attuale di rileggere Valerie Solanas e di emanciparla dalla narrazione egemonica che la riduce al gesto fallito di ribellione contro il sistema. Operazione che però offre il fianco a un altro rischio, quello di guardare a Solanas in maniera nostalgica rendendola una martire dell’ineguaglianza di genere, morta davvero “per i nostri peccati” in solitudine e miseria in una stanza del famigerato Bristol Hotel di San Francisco. Ma Trilogia SCUM evita anche questa trappola rendendo giustizia alle molte sfumature della sua scrittura, e soprattutto all’intreccio paradossale di rabbia e ironia caustica che permette oggi di leggerla come una delle voci più dirompenti del femminismo occidentale.

Il volume offre tre testi fondamentali per indagare il suo pensiero e la sua influenza sulle diverse anime del femminismo contemporaneo. Il primo è il Manifesto scum, privato di quel valore di acronimo (Society for Cutting Up Men) mantenuto dall’altra traduzione disponibile in italiano (S.C.U.M. Manifesto per l’eliminazione del maschio, trad. di Adriana Apa, L’Ortica 2010) e che è invece il risultato di un intervento dell’editore Maurice Girodias per l’edizione del 1968. Il testo era già stato pubblicato indipendentemente nel 1967 dall’autrice, che ne vendeva le copie per strada nel Greenwich Village di New York, al prezzo di un dollaro per gli uomini e di venticinque centesimi per le donne; Solanas lo ripubblica poi nel 1977, ed è su questa versione che si basa la traduzione (con il testo originale a fronte) inclusa in Trilogia SCUM.

Letto attraverso il filtro delle diverse ondate di femminismo che ci separano e allo stesso tempo ci riconducono da Solanas – come dimostrano le introduzioni approfondite e ben documentate delle curatrici Stefania Arcara e Deborah Ardilli – oggi il Manifesto SCUM dimostra un’attualità non scontata tratteggiando un mondo ribaltato in cui le donne utilizzano gli strumenti inventati dagli uomini, come la tecnologia e le armi, per liberarsi finalmente di questo «incidente biologico» che è il maschio e di tutte le formazioni socioculturali che ha prodotto, dall’istituzione matrimoniale al sistema bancario. La sua struttura retorica si basa sul rovesciamento parodico delle attribuzioni essenzialiste di date caratteristiche esclusivamente a uno dei due generi sessuali: se la società che oggi definiremmo etero-patriarcale confina le donne in un orizzonte limitato, sostiene Solanas, è perché il maschio vuole «rivendica[re] come proprie tutte le caratteristiche femminili – forza e indipendenza emotiva, energia, dinamismo, risolutezza, disinvoltura, obiettività, assertività, coraggio, integrità, vitalità, intensità, profondità di carattere, fascino e così via, e proietta[re] sulle donne tutti i tratti maschili – vanità, frivolezza, banalità, debolezza e così via».

La strategia del rovesciamento, tuttavia, non risulta in una celebrazione acritica del femminile. Non solo il Manifesto identifica anche tra le donne le nemiche del nuovo ordine SCUM (letteralmente «feccia») – in particolare le «garbate Figlie di Papà, passive, accomodanti, ‘colte’ […], mentecatte, insicure, avide di approvazione»; ma soprattutto Solanas tocca una nota estremamente attuale per il dibattito femminista contemporaneo, così diviso sulle questioni della gravidanza per altri e della maternità biologica. Il Manifesto propugna infatti l’emancipazione delle donne dal lavoro riproduttivo mediante la tecnologia: «la risposta è la riproduzione artificiale dei bambini». La maternità, nel Manifesto, è infatti sempre rappresentata esclusivamente come lavoro, uno dei tanti modi in cui la ricchezza del femminile viene messa a valore nel sistema socio-economico capitalista, nonché base di quello che la teoria queer (da Lee Edelman a Jack Halberstam) chiamerà poi «futurismo riproduttivo», l’ipoteca del desiderio presente in nome della felicità futura. Nel suo stile dissacrante e provocatorio, Solanas pone la domanda che anche oggi, a cinquant’anni di distanza, ben poche sono in grado di proferire: «Perché dovrebbe importarci di quello che accadrà quando saremo morte? Perché dovrebbe importarci se non ci sarà una generazione più giovane a succederci?».

La rivoluzione parte quindi dal rifiuto del lavoro o meglio dallo «slavoro», neologismo che per Solanas indica il rifiuto di partecipare all’economia oppressiva capitalista e patriarcale. Contro la retorica della forza-lavoro Solanas propone infatti la «forza-slavoro […] la forza che fotte il sistema» inceppandone il ciclo di produzione e riproduzione fino al collasso. Protagoniste di questa rivoluzione sono le «femmine SCUM», «le femmine dominatrici, determinate, sicure di sé, cattive, violente, egoiste, indipendenti, orgogliose, avventurose, sciolte, insolenti, che si considerano adatte a governare l’universo». L’aggettivazione ipertrofica, una delle caratteristiche più macroscopiche dello stile di Solanas a cui la traduzione rende il giusto merito, fa sì che il testo proceda quasi per associazioni libere, attivando un processo che più che alle facoltà razionali fa appello all’inconscio. In questo modo, attraverso il sorriso sollecitato dall’ironia e dal paradosso, il Manifesto accompagna lettrici e lettori verso una consapevolezza degli orrori del presente che, nonostante i cinquant’anni passati dalla sua scrittura, suonano terribilmente attuali.

Prendiamo per esempio l’affermazione «il maschio è per sua natura una sanguisuga, un parassita delle emozioni e perciò non ha un diritto morale a vivere, giacché nessuno ha il diritto di vivere a spese di qualcun altro». Il testo sfrutta la generalizzazione biologico-sociale («il maschio») per generare una risposta dissociativa in chi legge («non tutti i maschi!», penseranno lettrici e lettori benintenzionati). La conclusione assume però un’evidenza catastrofica, che riporta alla mente i numerosi femminicidi a cui assistiamo quasi quotidianamente e che sono ben rievocati da quei «momenti di tregua» descritti da Solanas, momenti che il maschio ricerca ma «che possono essere raggiunti soltanto a spese di qualche femmina». L’unica risposta possibile a questa minaccia continua è lo slavoro anche emotivo, il rifiuto di fungere sostegno per una soggettività insicura e violenta ossia, per Solanas, per il maschio.

Prototipo della nuova posizionalità psicologica e socio-economica della «femmina SCUM» è Bongi Perez, protagonista di In culo a te, testo teatrale che ha visto le scene solo nel 2000 e che vedrà presto una messa in scena a cura di Nicoleugenia Prezzavento, che ne cura la traduzione. Questo testo e il breve Come conquistare la classe agiata. Un prontuario per fanciulle fanno da corollario alla lettura del Manifesto e ne illuminano alcuni passaggi fondamentali con il loro stile a metà tra l’anti-naturalismo e l’autobiografia: Bongi, accattona, barbona, prostituta, è in buona parte un surrogato dell’autrice, così come lo è voce narrante del Prontuario che racconta delle sue strategie di accattonaggio, «un’occupazione estremamente remunerativa, dai grandi stimoli creativi e fortemente incentrata sulle relazioni interpersonali […] un’occupazione, dunque, perfetta per la sensibilità femminile». Entrambi i testi offrono anche una panoplia di personaggi/e tra i più svariati/e: in particolare In culo a te presenta uno stuolo di uomini (il Tipo Bianco e il Tipo Nero, il cliente Alvin e l’artista Russell) tutti mediamente ripugnanti, nonché Ginger, Figlia di Papà a cui Solanas dona una delle battute più memorabili: «è universalmente noto che gli uomini hanno tanto più rispetto per una donna quanto più questa eccelle nel mangiare merda».

Trilogia SCUM si chiude con una ricca appendice in cui le curatrici raccolgono tributi e opere ispirate all’attivista americana dalla sua morte fino al 2016. Tra esse manca American Horror Story: Cult, uscita nel 2017, che pur nella rappresentazione stereotipa della sua figura, ne recupera la potenzialità creativa: la setta di donne SCUM è infatti l’unica a sopravvivere a tutte quelle fondate da leader maschi come, per esempio, David Koresh e Charles Manson. La sopravvivenza di Solanas resta il segno di un tempo difficile, ma anche pieno di possibilità, per il femminismo contemporaneo: ed è significativo che il suo lavoro riemerga oggi, a cinquant’anni da quel ’68 ormai soggetto a un impietoso revisionismo, grazie al lavoro di studiose che non temono a confrontarsi con questa autrice anticonformista e difficilmente irreggimentabile ma che invece la offrono a lettrici e lettori come chiave di lettura imprescindibile per il presente.

 


 

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Patriarcato, lotte e diritti: il femminismo secondo Daniela Pellegrini


di Michela Pagarini (Lettera Donna, 24 maggio 2018)


– È stata una delle prime in assoluto in Italia, quando un giorno del ’64 convocò una riunione di donne. Dall’utero in affitto a #MeToo, intervista a una pioniera.

«In molti miti e racconti il patriarcato è nato dopo anni di prevalenza del femminile. Gli uomini a un certo punto hanno cominciato ad innervosirsi e alla fine hanno ribaltato gli equilibri di potere».
Cinquantaquattro anni di femminismo attivo alle spalle, tre libri di cui due autoprodotti, un gruppo di autocoscienza che ha fondato e che da quattro anni si incontra alla Casa delle Donne di Milano e una presenza quotidiana su Facebook, dal quale racconta in pillole la sua visione del mondo. Daniela Pellegrini – fondatrice del Demau, uno dei primi gruppi femministi italiani e più tardi – insieme a Nadia Riva – del circolo delle donne Cicip & Ciciap a Milano – una vita intera dedicata e immersa nella passione femminista, non ci gira intorno e sempre di più sogna «un risveglio collettivo delle donne, che le renda libere prima di tutto dalla fascinazione del maschile e dalle sue scale di valori». Come si può riassumere la differenza fra i generi? «Semplice: da sempre le donne rischiano la morte per dare la vita. Gli uomini, invece, rischiano la vita per dare la morte». Con Daniela, in libreria con La materia sapiente del relativo plurale, abbiamo parlato delle lotte del ’68, ma anche di utero in affitto e ovviamente #MeToo.

DOMANDA: Lei è una delle femministe più longeve d’Italia, come è iniziato il suo percorso?
RISPOSTA: 
Da giovanissima mi angosciava molto il mio destino. La specie umana, con i suoi meccanismi violenti e le logiche di sopraffazione su tutto e tutti, ma essenzialmente sulle donne, non mi sembrava il posto adatto a me. «Cosa ci faccio qui, cosa c’entro con questa umanità?», mi chiedevo con inquietudine. La mia visione del futuro era così opprimente che, mentre crescevo, ho pensato spesso al suicidio perchè non vedevo alcuna collocazione felice né come essere umano né, men che meno, come donna.

D: E poi cos’è successo?
R:
 Dopo tanto riflettere, nel 1964 ho avuto l’intuizione di convocare una riunione di donne, le uniche con cui sentivo di avere un terreno comune da cui partire a riflettere. È nato così il primo gruppo femminista in Italia: Il suo nome era DACAPO (Donne a Capo). Quel gruppo è stata la mia salvezza.

D: Perché?
R: Col senno di poi, credo che non sarebbe potuto andare diversamente: per come mi sentivo e per come vedevo il mondo, l’unica cosa possibile per me era cambiarlo, o almeno provarci. E così ho fatto.

D: E vi ha dedicato praticamente tutta la vita.
R: Molte donne l’hanno fatto oltre a me, anche se io certamente sono una delle più vecchie. Ma come avrei potuto farne a meno? È il senso stesso della mia esistenza ad essere messo a tema. È l’unica passione che mi ha preso davvero nella vita, ed è anche rassicurante, perchè ho sempre pensato che sarà il soggetto donna a dare un altro significato all’esistenza della specie. Su questa convinzione ho basato tutte le mie passioni e, ahimè, da lì sono derivati anche tutti i miei dolori.

D: Per esempio?
R: 
L’inizio dell’inquinamento patriarcale. Oggi si dice che tutto è partito dal ‘68? Molte donne che avevano appena cominciato ad interrogarsi e riflettere, soprattutto attraverso l’autocoscienza – che si faceva in condizioni di intimità nelle nostre case, sono fuggite davanti all’invasione delle donne attiviste, ai loro toni, alle piazze. Dal ‘68 in poi fu chiara la differenza enorme che c’era tra la politica delle donne e quella tradizionale della delega. Le «compagne» contavano sulla complicità dei compagni di altro percorso, evidentemente supponendo che un movimento avrebbe appoggiato l’altro.

D: E invece non ha funzionato…
R: No, perché la commistione distraeva le donne e sottraeva forze ai nostri obiettivi più specifici e soprattutto dalle nostre pratiche, che si stavano ancora strutturando. E infatti alla lunga la presenza delle sessantottine ha sbilanciato completamente il movimento delle donne, a cui prima di quel momento partecipavano anche quelle non politicizzate, le casalinghe e quelle senza riferimenti precisi. Tutte sparite, dopo quella fase. Dopo quel passaggio il movimento ha perfino cambiato nome: ha preso a chiamarsi femminismo quando dalle case siamo scese nelle piazze.

D: Ve ne siete accorte solo a posteriori?
R:
 No anzi, lo vedevamo chiaramente, tant’è che all’inizio (io ma anche altre due pioniere come Carla Lonzi e Serena Castaldi) non accettavamo nemmeno che entrassero nei nostri gruppi donne che militavano contemporaneamente in ambiti misti. Se volevano stare con noi, allora dovevano abbandonare l’attività con gli uomini. Quella sì era radicalità di scelta politica e di movimento, oggi non credo esista più niente di simile, e mi piacerebbe ricostruirla.

D: Cosa facevate, su cosa vi interrogavate?
R: 
La nostra modalità principale di confronto era l’autocoscienza, pratica che tutt’oggi ritengo ancora necessaria per mettere in luce i meccanismi del patriarcato e ciò che hanno prodotto. Ci siamo tutti convinti che il mondo si divida in opposti che o si attraggono o si uccidono, una visione che contempla solo la possibilità di essere alleati o nemici e che prevede sempre e solo un vincitore e un vinto. È un’idea del mondo che purtroppo è diventata anche la base del movimento delle donne, ma per quanto mi riguarda è soltanto la base del grande bluff del patriarcato.

D: Che sarebbe?
R: Tutto ciò che è stato elaborato ed è substrato delle nostre vite si basa sul fatto che metà dell’umanità ha preso il potere, basando il suo predominio sulla denigrazione, l’espulsione e lo sfruttamento dell’altra metà e prendendo potere sulla materia e sui corpi, attuandone poi la separazione forzata dal pensiero. Anche termini banali come maschile e femminile per esempio, concorrono a questo meccanismo, perché si portano dentro tanti e tali stereotipi imposti che inevitabilmente si finisce in un braccio di ferro.

D: Come si cambia la narrazione di un’intera realtà?
R:
 Bisogna sfatare il mito del leader e l’idea che sia forte chi ce l’ha più duro. Oggi, per esempio, moltissime donne vogliono risultare vincenti, un concetto tipicamente legato al potere e alla viriltà dal quale spesso originano anche scelte disastrate e disastrose per loro stesse. Per inseguire quelle scale di valori è necessario infatti deformare di parecchio il concetto di autodeterminazione, fino ad arrivare alla svalorizzazione di sé e ad accettare che il proprio corpo venga sfruttato e la propria esistenza posseduta o governata da altri.

D: Si riferisce a questioni come la gestazione per altri? Che ne pensa?
R: 
Beh, anche quella. Cosa posso dirti? Capisco ma non intendo (ride), mi è difficile entrare in una critica vera e propria di questa questione, almeno per come viene posta normalmente, perché non è niente di nuovo, anzi. La retorica del dono d’amore (il figlio) al maschio, è sempre stato il violino suonato dal patriarcato alle donne, esiste da secoli. Adesso, semplicemente, il dono non è più al maschio prescelto ma a chiunque si prenda quel potere o trovi il modo di farselo dare. Ora è sempre più accettata la loro monetizzazione: il denaro sostituisce e cancella la sacralità dei corpi, la relazione e il senso del rispetto.

D: Insomma una donazione un po’ coatta.
R:
 È sempre stato così, perché diciamo la verità: non tutte le donne desiderano partorire e non credo che tutti gli uomini vogliano inseminare qualcuno, anche se si dà per scontato il contrario. La procreazione tradizionale prevede due parzialità che si devono mettere insieme per poter fare un figlio, tentare altre vie implica la scelta di un rapporto di potere anziché la scelta di una relazione autentica. Ed è qui che secondo me c’è il nodo di tutto, la dipendenza che ogni relazione mette in atto e che nella famosa scala di valori patriarcale non è contemplata. Va rivalutata e accolta invece, e bisogna farla diventare un valore anziché una sudditanza.

D: E come si fa?
R:
 Beh, basta accettare che nessuno può vivere senza dipendere da tutto il resto, la materia vivente è legata indissolubilmente a tutte le altre materie, dalle piante alle api, dalle quali dipende la nostra sopravvivenza. Ecco perciò l’importanza anche del linguaggio, altro punto caro al femminismo: quanto ci piace pensare di non dipendere da nessuno? Smettiamola di raccontarci storie: non è possibile.

D: Men che meno nell’autonomia fra uomini e donne?
R: 
Ho letto da qualche parte che nei ventri tutti i feti all’inizio partono come XX, e questo mi fa ben sperare che questo femminile alberghi e rimanga anche nei DNA che poi si trasformano in XY. Siamo tutte e tutti pieni di cromosomi misti, nessuno è puro, né nel sesso né nel pensiero. Data quest’evidenza, vorrei allora che emergesse ciò che c’è di buono in questa base comune e che ci aiutasse ad accettare tutte le nostre parzialità. Le differenze ci sono e ci saranno sempre, non serve definirle, combatterle o imporle, che senso ha basarvi un intero sistema esistenziale?

D: Come facciamo ad analizzarle, essendovi immerse?
R: Il separatismo è un altro strumento molto utile in questo senso, perché permette di individuare e assumersi la responsabilità del doppio che ognuno di noi ha dentro di sé. Così come mi piace pensare che in ogni uomo ci sia un po’ di quella doppia X femminile originaria, altrettanto so che in ogni donna alberga la cultura patriarcale in cui siamo cresciute.

D: E quando i contesti separati si dividono, come nel caso dei diversi femminismi?
R:
 Il concetto di femminismi è la negazione stessa del femminismo, che ha sempre avuto una base unica e comune da scardinare, il patriarcato e la cultura che ne deriva, basata su contrapposizioni e abusi. Nel movimento delle donne peraltro era già prevista ogni differenza individuale, libertà di pensiero, opinione e diversità, perché ognuna aveva come mandato, ancora prima della battaglia sociale, l’attenzione alla propria autenticità. Perciò il termine femminismi per me non ha senso, riporta tutto alle contrapposizioni e alle differenze.

D: I famosi conflitti fra donne… che si fa?
R:
 La cosa più semplice è ricominciare a fare autocoscienza, che si differenzia da tutti gli altri modi di parlare e confrontarsi grazie alle sue basi di ascolto e non giudizio. Ti insegna a riportare tutto a te e alle tue contraddizioni, abbatte le distanze con le altre donne e ti mette dentro di te anche quando discuti di qualcosa di apparentemente esterno. Senza queste modalità si arriva a poco, ma può essere molto difficile riuscirci, perché significa mettersi in discussione davvero nel profondo, soprattutto sui propri traguardi. Per me non si è mai arrivate a un punto di arrivo.

D: Parliamo di #MeToo e delle denunce che si levano da molti settori: qualcosa sta cambiando?
R:
 Sta mutando la consapevolezza dei danni che fa questa cultura, ma mi sembra che ancora non si mettano in risalto le basi su cui poggia questo potere di fare malversazioni sulle donne. Sono avvisaglie di un inizio, dall’Ottocento a ora ci sono stati miglioramenti, almeno qui da noi, ma per ora mi sembrano rimanere all’interno di un paradigma che non viene nominato. Se non cambia il sistema, se non cambiano le donne, non cambieranno nemmeno gli uomini, al massimo ci staranno un po’ più attenti.

D: Insomma dobbiamo cambiare ancora noi…
R: Beh sì. Qualche tempo fa ho assistito all’entusiasmo di un gruppo di donne per una rappresentazione dell’Otello, erano davvero ammirate, bei costumi, bella regia. Però io dico: è una rappresentazione storica e «artistica» del femminicidio, nella quale si dice che è giusto che Otello sia geloso e che lui abbia il potere di uccidere Desdemona. Da secoli le donne assistono a questa rappresentazione, applaudendola e finanziandola perché opera di un genio, senza riflettere sui suoi contenuti e messaggi. Questa è la fascinazione del maschile che dobbiamo combattere o certe cose non cambieranno mai.

D: La strada è ancora lunga, insomma.
R:
 Sono ottimista. A parte certe donne acute che sono sempre esistite, il femminismo è assai giovane e non si può pensare che in pochi anni possa cancellare e superare tutti i secoli di patriarcato che abbiamo sulle spalle e tutti questi crimini che vengono perpetrati contro di noi (e contro altri uomini) da secoli.

D: La politica può aiutare?
R:
 Una volte le femministe non dialogavano volentieri con la politica, nell’idea che un sistema a misura d’uomo non potesse essere utile per scardinare quel sistema stesso. Oggi invece c’è la corsa, tutte vogliono esserci, e allora penso che chi ci crede dovrebbe unirsi alle altre e fare un partito di donne, o come pensano di fare un cambiamento insieme a chi non vuole cambiare? Non credo sia la strada adatta agli obiettivi del femminismo, ma posso capire chi vi punta per cambiare leggi che vietano libertà alle donne o al contrario costringono loro a cose che non desiderano.

D: Quindi non condivide la politica come mezzo ma ne comprende il desiderio?
R: 
Credo sia inevitabile, a un certo punto, desiderare di entrare all’interno di quel potere di cui cerchiamo di smontare dalle basi. Una volta provata l’ebbrezza di aver partecipato o vinto una battaglia, è difficile rinunciarvi. Tale gioia ti incastra nella contraddizione tra il volerci essere ancora e il desiderio di provare altre vie per cambiare la situazione. Questa è la cosa che mi fa soffrire di più: non poter fare a meno di queste gioie che da, un lato ti nutrono e dall’altro ti mantengono dentro quella situazione, impedendoti di uscirne. Ma provo rabbia, perché mi rendo conto che poggia su basi infide, di cooptazione.

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Per concludere ecco la risposta dell’autrice: «GRAZIE Michela, sei riuscita a rendere lievi anche le mie durezze e fierezze così come la mia radicale anima di donna con le donne… L’hai fatto anche per riuscire a farmi ascoltare da chi non mi conosce ma può intendere… SONO FELICE che questo faccia parte della relazione che con te ho potuto e voluto avere. Riconoscersi perfino nelle diversità tra noi (e con le altre donne) che tu riesci a mettere “a” contatto e  “in” contatto é il vero piacere che sanno esprimere i corpi di donna… e su cui un nuovo paradigma dei rispetti può iniziare».

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Intervista – La buona moneta

Pierangelo Dacrema è stato ospite lunedì 14 maggio a TGR Piazza Affari: ha parlato di economia e del suo libro La Buona Moneta. Come azzerare il debito pubblico ed essere felici (o solo un po’ meglio) pubblicato da VandA ePublishing in collaborazione con Edizioni All Around.

Qui l’intervista.


La buona moneta
Le dimensioni del debito pubblico italiano sono un fattore di rischio che ostacola qualunque politica di sviluppo della nostra economia. Un problema annoso, tema di dibattito e di scontro a ogni vigilia del voto.
Le politiche di austerità volte ad arginare il debito si sono rivelate inefficaci, oltre che dolorose. In un’Italia afflitta da disoccupazione e vaste sacche di indigenza occorrono provvedimenti adatti a promuovere consumi, investimenti, occupazione e reddito. E il loro ineludibile presupposto è la disponibilità di moneta.
Ma come procurarsela in presenza di un debito pubblico abnorme e di regole europee che ne impongono il drastico ridimensionamento?
L’unica risposta a esigenze così contrastanti è che il nostro debito pubblico venga rimborsato con una nuova moneta nazionale a corso forzoso. In più occasioni, Lega e M5S hanno preso le distanze dall’euro e caldeggiato la creazione di una moneta italiana. La posizione di Pierangelo Dacrema è radicalmente diversa. In modo chiaro, asciutto e convincente, questo libro mostra che il benessere della nostra nazione non sta nell’uscita dall’euro. E che un’Italia alleggerita dal debito e dotata di una propria moneta diventerebbe più forte, a tutto vantaggio dell’euro e dell’Europa.


Autore: Pierangelo Dacrema
Titolo: La buona monetaCome azzerare il debito pubblico e vivere felici (o solo un po’ meglio)
Collana: VandA.Original
Luogo e data di pubblicazione: Milano, febbraio 2018
ISBN e-book: 9788868993382
ISBN cartaceo9788899332198 – in coedizione con Edizioni All Around

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‘Rebecca Town a Parigi’, il primo dei romanzi ‘gialli’ della scrittrice sanremese Manuela Siciliani


di Andrea Di Blasio  (Riviera24.it, 15 luglio 2014)


– Becky, la protagonista dei suoi libri, è una scrittrice di guide turistiche, newyorkese, bellissima, intraprendente e patita della moda. Un’autrice esordiente locale si affaccia al mondo della narrativa pubblicando la prima trilogia della serie: Rebecca Town.

Becky, la protagonista dei suoi libri, è una scrittrice di guide turistiche, newyorkese, bellissima, intraprendente e patita della moda.

Un’autrice esordiente locale si affaccia al mondo della narrativa pubblicando la prima trilogia della serie: Rebecca Town. Manuela Siciliani di 36 anni che vive a Sanremo raggiunge il suo sogno: scrivere un romanzo. Becky, la protagonista dei suoi libri, è una scrittrice di guide turistiche, newyorkese, bellissima, intraprendente e patita della moda; ma deve improvvisarsi detective, perché ogni luogo che ci porterà a visitare, attraverso i suoi occhi, descrivendone i monumenti, le strade e il cibo, diverrà scenario di un terribile omicidio. Il genere è stato de nito “ibrido” perché i romanzi nascono come gialli, ma all’interno troviamo anche storie d’amore e descrizioni così particolareggiate delle città da sembrare davvero delle guide turistiche. La prima uscita è Rebecca Town a Parigi. Il primo intricato caso di Becky, a seguire la VandA. epublishing ha pubblicato Rebecca Town a Londra. Doppia indagine. Ora non ci resta che aspettare il terzo: Rebecca Town a Roma. Passione e mistero. In accordo con la casa editrice si sta già lavorando al quarto, ambientato a Praga.

Tuffiamoci alla scoperta di Becky visitando la sua fan-page (https://www.facebook.com/pages/Becky-Town/) che Manuela aggiornerà costantemente, e visto che i romanzi sono in corso d’opera l’autrice vorrebbe lanciare una sPda: interagire con i lettori e capire le preferenze del pubblico attraverso i commenti e le recensioni (Ben è l’uomo giusto per Becky? Meglio Peter? Quali città vorreste visitare insieme all’esuberante protagonista?) Un po’ come avviene per le serie televisive, i produttori sondano il terreno… e quasi sempre la maggioranza vince! I libri sono acquistabili su Amazon a prezzi abbordabili: 3,99 per l’ebook e 7,20 per il cartaceo.

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La buona moneta, ovvero come azzerare il debito pachiderma


di Fausta Chiesa (Il corriere, 9 maggio 2018)


– Il debito pubblico italiano viaggia sui 2.256 miliardi e le regole europee ci impongono di ridurlo drasticamente. Ma come? La proposta «forte» dell’economista Dacrema: «Una valuta parallela». Se ne discute il 14 maggio a Milano.

Come convivere felicemente con un elefante che pesa 2.256 chilogrammi, anzi pardon 2.256 miliardi di debito, cioè il debito pubblico italiano? È il tema sul quale Bankitalia è intervenuta il 9 maggio nell’audizione sul Documento di economia e finanza, mettendo così in evidenza il grande rimosso dell’intera discussione post elettorale fra i partiti. Il vicedirettore generale, Luigi Signorini, ha infatti ricordato che il debito pubblico italiano nell’eurozona è inferiore solo a quello greco e che supera rispettivamente di 68, 35 e 34 punti percentuali quello dei suoi vicini di casa, ovvero Germania, Francia e Spagna. Per Bankitalia, non c’è alcun rischio imminente ma tenere conto della capacità di assorbimento dei mercati è obbligatorio. E riportare il debito pubblico su un percorso di «stabile e duratura riduzione» è indispensabile.

Già, ma come? Una proposta fuori dal coro l’ha fatta un economista – Pierangelo Dacrema, docente di Intermediari finanziari all’Università della Calabria – che non è nuovo a lanciare idee contro corrente: basti ricordare il libro «La dittatura del Pil». Ora Dacrema esce con il libro (in versione cartacea e ebook) «La buona moneta». La buona moneta sarebbe emessa a rimborso dei titoli del debito pubblico dello Stato italiano – essenzialmente BOT, CCT, BTP – in una nuova valuta a corso forzoso in Italia a partire dalla più vicina possibile data futura, con un rapporto 1 a 1 sull’euro. La gestione della circolazione della nuova valuta, della quale non sarebbe quindi prevista una versione “contante”, né cartacea, né metallica, sarebbe riservata al sistema bancario. Inoltre, non potrebbe essere investita in attività finanziarie. Avrebbe corso forzoso: nessuno potrebbe rifiutare pagamenti.

Se la conversione cominciasse subito – calcola Dacrema – permetterebbe di abbattere 480 miliardi di debito nel biennio 2018-2019 e di scendere al 60% del Pil in sei anni. Altrimenti, come rispettare il «Fiscal Compact», con cui l’Italia si è impegnata, per il prossimo ventennio, a ridurre il debito di una cinquantina di miliardi l’anno? Il dado è tratto, chi vorrà raccoglierlo? Intanto, se ne parla. Un’occasione è la presentazione del libro lunedì 14 maggio a Milano (ore 18, Biblioteca Sicilia), con l’autore e Renato Mannheimer.


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Intervista – Manuela Siciliani

Manuela Siciliani è stata ospite venerdì 11 maggio al Salone Internazionale del Libro di Torino all’evento organizzato da SEU Scrittori Emergenti Uniti, Sogni d’inchiostro – Staffetta di talenti letterari.
Qui l’intervista di Gabriele Farina.

 


 

La serie di Rebecca Town è composta da 5 imperdibili volumi:
Rebecca Town a Parigi
Rebecca Town a Londra
Rebecca Town a Roma
Rebecca Town a Praga
Rebecca Town a New York

 

 

Becky è una splendida newyorkese, modaiola, acuta, passionale, dal passato tormentato e scrittrice di guide turistiche. Ogni romanzo è ambientato ogni volta in una città diversa, una città descritta come si confà a una guida: le tappe da non perdere, i locali più trendy ma anche quelli più defilati e che però meritano “una menzione”, i luoghi dello shopping, le strade, i cibi… Ogni luogo diventa così l’incantevole cornice ai misteri che Becky, detective per caso, si trova a risolvere. Una città, un delitto. Ma c’è anche la personale vicenda della nostra esuberante guida, che nel corso di ogni romanzo troverà l’amore, scoprirà la verità sulla misteriosa morte dei genitori e… Chissà?


 

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Una via di fuga dal nostro debito


Il Giornale (30 aprile 2018)


– L’Italia ha nel debito pubblico, ormai pari al 132 % del Pil, la sua maggior vulnerabilità. 

L’Italia ha nel debito pubblico, ormai pari al 132 % del Pil, la sua maggior vulnerabilità. Tagli alle spese e al welfare, politiche di austerità e gli aiuti della Bce non sono riusciti, negli ultimi anni, a impedirne la lievitazione. Un vicolo cieco, se non si ridà sovranità al Paese collocandolo al di fuori dei confini dell’eurozona? Pierangelo Dacrema, professore di Economia degli intermediari finanziari all’Università della Calabria, non è di questo avviso. E nel suo «La buona moneta. Come azzerare il debito pubblico e vivere felici», dà una ricetta per rendere sostenibile questo peso da oltre 2.200 miliari di euro.

La trama
Dal greenback di Lincoln durante la guerra di secessione ai Mefo di Scahft agli albori del nazismo, fino ai Certificati di credito fiscale di stampo keynesiano, nella storia contemporanea non sono certo mancate soluzioni eterodosse e fantasiose per provare a finanziare la crescita e disinnescare la mina del debito. Gli esempi citati si basano sulla circolazione di una valuta parallela rispetto a quella ufficiale, ed è questa la base della proposta di Dacrema. Con una premessa: l’Italia deve restare in Europa. Può farlo, secondo l’autore, anche se dovesse decidere di rimborsare Btp, Cct e Bot con una moneta a corso forzoso, cioè valida solo in Italia, con un rapporto 1 a 1 sull’euro, da impiegare fino a quando l’indebitamento non sia stato riportato entro il parametro del 60% (o anche fino al suo azzeramento). Uniche avventure: divieto per le banche di usare questa moneta per erogare prestiti o per operazioni finanziarie. L’operazione, ammette l’autore, non è esente da rischi. Il primo è che l’Europa dica no. L’altro è la massiccia vendita di debito italiano da parte degli stranieri.

Chi non può perderselo
Chi non crede che sia ancora una via d’uscita dal debito.

A chi non piacerà
A chi non ci crede più.


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“La materia sapiente del relativo plurale”, il libro di Daniela Pellegrini alla Casa Donne


Il Paese delle Donne online, 15 aprile 2018


– Giovedì 19 aprile 2018 alle 18.30 nello Spazio da vivere della Casa delle Donne di Milano la Bibliomediateca presenterà il libro di Daniela Pellegrini “La materia sapiente del relativo plurale: ovvero il luogo terzo della parzialità”. Dialogherà con l’autrice Ilaria Baldini.

Giovedì 19 aprile 2018 alle 18,30 nello Spazio da vivere della Casa delle Donne di Milano la Bibliomediateca presenterà il libro di Daniela PellegriniLa materia sapiente del relativo plurale: ovvero il luogo terzo della parzialità”. Dialogherà con l’autrice Ilaria Baldini.

Questo incontro è il secondo nell’ambito della rassegna voluta e progettata dalla Bibliomediateca dal titolo Le pratiche politiche del movimento delle donne: corpi, voci, scritture. Le voci delle protagoniste che sul filo dei loro libri di recente pubblicazione ricostruiscono pratiche, pensieri e vissuti della storia del femminismo italiano.

Daniela Pellegrini,madre del femminismo radicale italiano e ideatrice del primo gruppo politico italiano di donne (Dacapo, 1964, divenuto poi Demau), perora da sempre il “separatismo” come azione fondante e creativa della politica delle donne nonché come vera autonomia dal patriarcato. Nel 1981 fonda a Milano, insieme a Nadia Riva, “Cicip & Ciciap“, primo circolo culturale e politico femminista, l’unico a mantenersi strettamente separatista nel tempo. Sempre con Nadia Riva crea la rivista “Fluttuaria, segni di autonomia nell’esperienza delle donne” (1987-1994). Da alcuni anni ha (ri)dato vita, presso la Casa delle Donne di Milano, alla pratica separatista dell’Autocoscienza.

“Riconsegnando alla materia, che per Pellegrini è la donnità che accomuna tutti, il suo ruolo di guida razionale della vita tutta ci conduce senza tentennamenti al luogo terzo, indiscutibilmente altro dal due patriarcale, come indiscutibilmente Altro sono le donne, soprattutto quando insieme riprendono quel percorso di autenticità iniziato negli anni ’70 con l’autocoscienza. Perché – dice Pellegrini -,è ancora oggi lo strumento più potente che abbiamo, insieme al separatismo. Allora la materia si incastra, si separa e si dispiega come un frattale, che è sia essenza che funzionamento: è la matrice che si rivela in tutta la sua potenza liberandosi dalle pietre sedimentate in secoli di dominio maschile. Il potere e il denaro che tanto la fanno da padrone perdono la loro forza e permettono la nascita di una specie sapiens di pratiche e pensiero.”

Guardati dall’impegolarti in circonvoluzioni mentali e frasi sopraffine e vuote: sono il segno di un simbolico assassino, negatorio di esistenze vere, con cui il potere ti tira dentro e insieme per renderti idiota, stupidamente succube. Non cercare di capire quello che non è da capire ma è da eliminare. (La materia sapiente)

Arduo il compito che Daniela Pellegrini si è data in questo suo ultimo libro: unire una critica lucida e impietosa ai maschi della specie umana e al loro scellerato operare cercando nello stesso tempo di uscire dal dualismo che hanno voluto imporre in tutti i contesti per creare un potere di sopraffazione che li compensasse della ferita primordiale di non poter metter al mondo, ma solo essere messi al mondo. Nonostante sia il suo corpo di donna a permetterle di vedere il maschile qual è nelle sue messe in atto, è la consapevolezza profonda dell’appartenenza forte alla materia tutta che ne guida il pensiero in questo tentativo di teorizzare un luogo terzo, quello dove sono le parzialità di ciascuno e di ogni cosa che insieme permettono la vita. Perché se la realtà stessa testimonia di questa evidenza, ben altro è il discorso che gli uomini ci hanno costruito intorno. Discorso da cui le donne non sono ancora riuscite a uscire. Daniela Pellegrini apre le contraddizioni che hanno abitato e ancora abitano il pensiero delle donne nella ricerca di una sintesi che mostri strade future da percorrere, senza piegarsi a semplificazioni o fraintendimenti che ne mettano in pericolo la forza e l’efficacia. Ma il libro non contiene solo la proposta di un discorso femminile sul mondo: analizza le attuali minacce al femminismo, smaschera un pensiero moderno che non ha in sé niente di nuovo e per l’ennesima volta ci interroga sul da farsi dopo avere visto il patriarcato in tutta la sua in-sapienza.


 

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La vera storia di Valerie Solanas


di Barbara Bonomi Romagnoli (La 27esima Ora, 5 aprile 2018)


– Per il grande pubblico Valerie Solanas – scrittrice e femminista statunitense morta in condizioni di indigenza– è anzitutto la psicopatica che ha sparato a Andy Warhol nel 1968, e, solo incidentalmente, l’autrice di Manifesto SCUM e degli altri testi, finora inediti in Italia.

Per il grande pubblico Valerie Solanas – scrittrice e femminista statunitense morta in condizioni di indigenza – è anzitutto la psicopatica che ha sparato a Andy Warhol nel 1968, e, solo incidentalmente, l’autrice di Manifesto SCUM e degli altri testi, finora inediti in Italia. Finalmente son stati pubblicati grazie al lavoro congiunto di due editori, VandA/Morellini, e alla cura di Stefania Arcara, docente di Letteratura Inglese e Gender Studies all’Università di Catania, e Deborah Ardilli, traduttrice e collaboratrice con il “Laboratorio Anni Settanta” dell’Istituto Storico di Modena, entrambe studiose femministe. «In una situazione di normalizzazione diffusa della violenza etero-patriarcale, di cui è parte integrante la cancellazione dell’attività intellettuale delle donne, la memoria del ‘grande pubblico’ opera in maniera selettiva e per questo mette in primo piano il gesto aggressivo di Solanas nei riguardi di un uomo, per di più ammantato di prestigio sociale e culturale. In tali condizioni, è fin troppo facile inquadrare Solanas come la quintessenza del nonpensiero, del collasso della ragione, e cercare nei suoi scritti nient’altro che una conferma», spiega Stefania Arcara. Non è semplice, quindi, leggere la sua opera senza pregiudizi, perché «la violenza esercitata da una donna risulta sempre intollerabile e il giudizio negativo ricade sulla sua scrittura, mentre lo stesso criterio non viene applicato, per esempio, alle opere di Norman Mailer, che accoltellò la moglie, o di William Burroughs e del filosofo Louis Althusser, entrambi uxoricidi, perfettamente integrati nel canone» racconta Arcara. «Sebbene sia stata una protagonista della controcultura statunitense degli anni Sessanta, Solanas scrittrice è stata a lungo oggetto di una damnatio memoriae, compresa la rimozione dalla storia del femminismo: negli Stati Uniti ci sono voluti trentacinque anni, da quando fu composta, perché la sua commedia Up Your Ass fosse messa in scena per la prima volta, molti anni dopo la sua morte. C’è voluto mezzo secolo perché questo testo fosse tradotto in Italia (da Nicoleugenia Prezzavento) e pubblicato nel nostro volume insieme alla nuova traduzione del Manifesto SCUM e al racconto autobiografico del 1966, Prontuario per fanciulle, che narra la giornata di una giovane lesbica proletaria che vive di accattonaggio e prostituzione per le
strade del Greenwich Village».

Solanas vendeva per strada il suo Manifesto, 25 cent per le donne e un dollaro per gli uomini, e la parola Scum è stata a lungo considerata come un acronimo di Society for Cutting Up Men (Società per l’eliminazione dell’uomo), ma la sigla in realtà non compare nel manifesto e l’autrice non era concorde con questa interpretazione perché, prosegue Arcara, «nei suoi testi la ‘teoria’, che ha un andamento contraddittorio, consiste in un’analisi – condotta con gli strumenti retorici dell’umorismo, del sarcasmo, del gergo di strada, dell’insulto – del rapporto sociale tra i sessi e della subordinazione delle donne nel sistema eteropatriarcale, arrivando ad una provocatoria soluzione politica: auspica l’abolizione del sistema binario e gerarchico dei generi, attraverso l’eliminazione di uno dei due, quello dominante che secondo lei è da considerarsi realmente “inferiore” proprio in quanto sente il bisogno di dominare».

Tradurre è anche un po’ un tradire, quale è stata la vostra esperienza rispetto a una scrittura come quella di Solanas? Si è perso qualcosa nella versione italiana?
«Pensiamo alla nostra traduzione come a un modo per rendere finalmente giustizia alla scrittrice Solanas. La nostra è la prima traduzione italiana basata sul rarissimo testo integrale approvato dall’autrice, la quale per tutta la vita fu ossessionata dall’integrità artistica e dal controllo, che non ebbe mai, della propria opera. Fino a oggi le traduzioni italiane di SCUM Manifesto si erano basate sul testo pubblicato dall’Olympia Press senza il consenso dell’autrice subito dopo l’attentato a Warhol – un testo mutilato di alcune parti e alterato dall’editore Maurice Girodias. Edizione che, tra le altre cose, riporta il titolo come acronimo, “S.C.U.M.”, che rimanderebbe a “Society for Cutting Up Men” (un’operazione di marketing editoriale giudicata ‘tasteless’, ‘di cattivo gusto’, da Solanas e finora sempre riproposta nelle traduzioni italiane, con il sottotitolo “società per l’eliminazione del maschio”): invece, nell’Edizione corretta da Valerie Solanas che l’autrice riesce finalmente a pubblicare in proprio nel 1977, il titolo è SCUM, cioè “feccia”, in riferimento alla posizione subordinata delle donne in un mondo egemonizzato dagli uomini ma anche un’operazione di sovvertimento dell’insulto, poiché sarà proprio la scum a guidare la rivoluzione contro quel sistema di potere che l’ha prodotta. Nella sua scrittura Solanas mescola registri stilistici diversi e lessici eterogenei, dal linguaggio scurrile allo stile visionario, dall’umorismo situazionista all’invettiva e all’aforismo, e a volte ricorre al gergo della controcultura del suo tempo. Per noi è stata un’esperienza molto bella restituire a Valerie Solanas la sua voce di scrittrice, così come ha fatto l’altra traduttrice, Nicoleugenia Prezzavento, che è anche regista teatrale, con la commedia Up Your Ass (In culo a te) che presto verrà da lei messa in scena. In accordo con la casa editrice VandA, abbiamo perciò scelto una copertina che ritrae l’autrice con la penna in mano, per restituire finalmente legittimità a Solanas scrittrice».

Ardilli, nella vostra introduzione al volume scrivete “il nome di Valerie Solanas, ancora oggi, segna il limite di rispettabilità e ragionevolezza che il femminismo deve osservare per essere tollerato, e pertanto la lettura delle sue opere è tuttora un atto eversivo”. Qual è oggi il limite di rispettabilità e ragionevolezza che i femminismi devono rispettare per essere tollerati?
«Per qualsiasi gruppo subalterno i limiti da osservare per non incorrere in sanzioni sono quelli dettati, di volta in volta, dalla pressione ideologica e materiale esercitata dalla controparte dominante. Non possiamo stabilire in anticipo, una volta per tutte, quale sarà l’efficacia di quella pressione, in quale misura sarà interiorizzata, aggirata o sfidata. Tuttavia, considerando che i sessi sono gruppi sociali non naturali e avendo chiara la posizione delle donne nella scala gerarchica del genere, mi pare ci sia ancora una straordinaria riluttanza a riconoscere l’esistenza stessa di una controparte e, di conseguenza, a legittimare un’attitudine conflittuale nei confronti degli uomini. Alla “folle” Solanas non si perdona facilmente il fatto di avere individuato, nominato e aggredito frontalmente quella riluttanza. E le si perdona ancora meno il ricorso a repertori d’azione violenti».

Arcara, l’umorismo di Solanas secondo voi è ancora vincente? I femminismi di oggi sono capaci di far ridere?
«Quante volte, di fronte a una battuta “scherzosa” pesantemente sessista che – in quanto donne – non ci fa ridere, siamo state accusate di mancanza di senso dell’umorismo, magari con un paternalistico: “E fattela una risata…”? Per rispondere, parto da una mia osservazione basata sull’esperienza delle
presentazioni di Trilogia SCUM che abbiamo tenuto in giro per l’Italia, in contesti molto diversi. Al momento della lettura, da parte nostra o di attrici, di qualche brano di Solanas, puntualmente nel pubblico di fronte a me ho notato uomini che restavano serissimi, uomini sorridenti, imbarazzati più che divertiti, pochi (quasi certamente non eterosessuali) che ridevano di gusto, e donne che immancabilmente scoppiavano a ridere. Anche l’umorismo è un “terreno di potere” e la sua efficacia dipende da quale posizione occupa chi fa una battuta scherzosa, a spese di quale gruppo sociale, e di fronte a quale pubblico. Solanas fa un’operazione inedita, e molto potente perché esclude qualsiasi atteggiamento vittimistico, nel momento in cui usa l’umorismo per denunciare i rapporti sociali di potere basati sul sesso. Questa operazione la compie da scrittrice isolata, senza avere alle spalle una tradizione di satira femminista che oggi invece esiste e, soprattutto fuori dall’Italia, ha acquistato una certa visibilità. Oggi esiste un pubblico di donne che finalmente può ridere di battute femministe, perché
cinquant’anni di lotta ci hanno finalmente legittimate a farlo».

Ardilli, qual é il ruolo della marginalità nella vita di Solanas rispetto alla sua scrittura?
«Marginalità e scrittura sono dimensioni inscindibili in Solanas. La sua biografia, firmata da Breanne Fahs, è apparsa soltanto nel 2014 e chiarisce aspetti importanti di questo nesso. Quella di Solanas è stata una vita segnata da abusi precoci in famiglia, due gravidanze in età adolescenziale, da violenza economica, da reiterati rifiuti ogniqualvolta ha tentato di proporsi come scrittrice; ma è anche una vita caratterizzata da una coscienza lucida dell’oppressione vissuta e da uno slancio molto forte, da un desiderio lancinante di vita buona che brucia ogni mediazione».


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VandAePublishing presenta: “12 case, tanti pianeti” di Agnese Bizarri


di Laura Brusa (Lo Sbuffo, 4 aprile 2018)


– Il libro racconta sotto forma di favole e poesie il tema dell’affidamento, spiegato in maniera semplice, ma molto ricca: sono esplorati tutti gli aspetti di questa esperienza, da quelli positivi a quelli più difficoltosi e impegnativi da affrontare. 

Il libro racconta sotto forma di favole e poesie il tema dell’affidamento, spiegato in maniera semplice, ma molto ricca: sono esplorati tutti gli aspetti di questa esperienza, da quelli positivi a quelli più difficoltosi e impegnativi da affrontare. Lo scopo è quello di mettere in luce ogni sfaccettatura e invitare alla riflessione, al chiarimento e al dialogo. La forma della favola è particolarmente indicata per un pubblico di bambinima il libro può essere molto stimolante anche all’occhio di un adulto, capace di cogliere sotto il rivestimento giocoso del testo tematiche profonde. L’affidamento produce un miglioramento in una situazione di vita difficoltosa, per cui si crea una sorta di alleanza tra la famiglia di origine e quella ospitante, che, unendo le loro forze, creano un contesto positivo e di arricchimento reciproco. Tramite lo scambio di idee, pensiero, culture, l’individuo crea un bagaglio di nuove conoscenze ed esperienze che lo completano, come viene spiegato nella favola “Formi e Ca: Formi-ca, due famiglie molto unite”, dove si gioca sull’unione dei due cognomi delle famiglie, che compongono la parola “formica”.

In “Elvira, finalmente!” è narrata la gioia di poter stringere nuove amicizie tra bambini e di poter condividere tempo, giochi, spazi, e persino le premure un po’ seccanti della “nuova famiglia”. Si insiste molto sul concetto di fiduciaun “fidarsi” che diventa “affidarsi”, evidenziato nelle storie della tartaruga e del camaleonte, dell’apprendista gnomo, e messo in rima nella poesia “Di te mi fido”. Il tema del rispetto delle proprie emozioni, punto nevralgico per la buona riuscita di un’esperienza di affidamento, è sviluppato con precisione e compiutezza in diverse favole: si propone un elenco delle emozioni possibili che si possono sperimentare in una simile situazione, tra cui l’incertezza, la preoccupazione, il dubbio, con lo scopo di insegnare ai bambini l’importanza di rispettare il modo in cui si sentono e di esprimerlo con le figure di riferimento. “Capitani paurosi” mette in evidenza come la paura sia un’emozione del tutto comprensibile e quasi inevitabile in questa situazione, ma che può essere affrontata e dissipata con l’aiuto fornito dai servizi di assistenza. Proprio alla struttura dei servizi sociali è dedicata la favola dei delfini, dove si introducono le figure dell’assistente sociale e dello psicologo, suggerendole al bambino come figure positive su cui possono contare in ogni momento. La favola “12 case, tanti pianeti” presenta in maniera giocosa la vita alternata tra diverse case, permettendo di focalizzarsi sugli aspetti positivi della situazione.

L’autrice dei testiAgnese Bizzarri, vincitrice del premio TOYP (The Outstanding Young Persons) per giovani talentuosi, si occupa di numerosi progetti per l’educazione e la cultura, e trasferisce tutte le proprie conoscenze pedagogiche con sapienza sulla carta, a partire dalla scelta della forma della favola: l’affidamento viene in questo modo presentato in maniera giocosa e leggera, con lo scopo di diminuire l’impatto di un così grande cambiamento. Tramite la conoscenza dei suoi aspetti, può essere vissuto in maniera emotivamente consapevole e serena. La scrittura vivace e accattivante stimola l’attenzione dei bambini e, nella sua semplicità, riesce a richiamare l’attenzione degli adulti che riescono a scorgere, al di sotto del velo della favola, la ricchezza dei contenuti soggiacenti. Il libro aiuta a porsi interrogativi ed esorta a esprimerli, a creare un dialogo tra le figure coinvolte nel progetto con l’assistenza sociale, per viverlo al meglio.

Le favole sono correlate dai disegni di Margherita Braga, illustratrice, pittrice e creatrice di oggetti, che con la scelta di ricalcare lo stile dei bambini nelle illustrazioni, permette a questi stessi di identificarsi e constatare che la stessa esperienza che si accingono a vivere non sia unica nella sua eccezionalità, ma condivisa da numerosi coetanei. Non sentirsi soli è essenziale, in modo che un bambino possa porsi la domanda: “se ce la fanno tanti altri bambini, perché non io?”.


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A lezione di dialogo


di Benedetta Verrini (Io donna, 24 marzo 2018)


– C’è la signora Attesa che viaggia da sempre, con adulti e bambini. C’è l’Airone Cinerino che, non certo per vantarsi, ma di migrazioni se ne intende.

C’è la signora Attesa che viaggia da sempre, con adulti e bambini. C’è l’Airone Cinerino che, non certo per vantarsi, ma di migrazioni se ne intende. C’è la Pace, che è andata dallo psicoanalista perché nessuno le dava più fiducia, e allora si è sentita sola e triste. Sono i personaggi dei racconti di Io abito, sono abitato di Agnese Bizzarri (ed. VandA.ePublishing […]), un piccolo libro per raccontare ai bambini che il “diverso” è solo “diversamente familiare”, come scrive nella prefazione l’ambasciatore Roberto Toscano, autore di saggi sulla pace e presidente della fondazione Intercultura.

Secondo gli Open Data del Miur (ministero dell’Istruzione e ricerca) oggi il 10,8% dei bambini della scuola primaria non ha la cittadinanza italiana, con percentuali più elevate nelle regioni settentrionali (nel Nord Ovest la media è del 39,4%). La probabilità di avere un compagno di banco che arriva da lontano è alta. Ma come evitare che le differenze si trasformino in tensioni? Lettura e gioco favoriscono il dialogo.

«I bambini iniziano dai sei anni a elaborare le metafore e a sviluppare la capacità di “mettersi nei panni” degli altri» spiega Cecilia Pirrone, psicologa e psicoterapeuta della famiglia. Un’attitudine da “sfruttare”, per educare alla convivenza con “l’altro”.


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Valerie Solanas. Triologia SCUM., Stefania Arcara, Deborah Ardilli (a cura di), Tutti gli scritti, Morellini, Milano 2018


di Sara Pierallini, (IAPhItalia, 13 marzo 2018)


– Non c’è ragione umana che deponga a favore del denaro o del fatto che qualcuno lavori, al massimo, più di due o tre ore a settimana. Tutti i lavori non creativi (praticamente tutti quelli che vengono svolti oggi) avrebbero potuto essere automatizzati molto tempo fa, e in una società senza denaro ognuna potrebbe avere il meglio di tutto ciò che desidera. (p. 67).

 

Non c’è ragione umana che deponga a favore del denaro o del fatto che qualcuno lavori, al massimo, più di due o tre ore a settimana. Tutti i lavori non creativi (praticamente tutti quelli che vengono svolti oggi) avrebbero potuto essere automatizzati molto tempo fa, e in una società senza denaro ognuna potrebbe avere il meglio di tutto ciò che desidera. (p. 67).

Inizio con questa citazione perché Valerie Solanas, odiata, malfamata, psichiatrizzata, isterizzata, animalizzata, derubata, mendicante, prostituta, Femminista, Lesbica, era una sognatrice, una visionaria che lottava nella vita e per la vita senza mai voler essere vittima. Nessuna/o l’ha resa mai tale, perché temibile nemica della normalizzazione dei corpi e dell’etero-patriarcato e perché instancabile attivista senza collettivo.

Il libro è una raccolta dei testi di questa autrice con l’essenziale contributo delle due traduttrici le quali, in modo appassionato e appassionante, ti sommergono nel mondo Sporco (SCUM) di Solanas. Sapere chi è questa donna è importante perché aiuta a comprendere meglio le fatiche delle sue ribellioni e a mettere in luce ciò che di lei è sempre stato celato. Vissuta sempre ai margini per tutta una vita e morta in modo che solo la feccia, come direbbe lei, potrebbe morire, divenne famosa per aver sparato a Andy Warhol. Derubata dei suoi scritti, censurata, venne riscoperta più tardi dal mondo, grazie anche all’aiuto di collettivi femministi e libertari, che hanno custodito e divulgato su canali alternativi le sue opere.

Partendo da Manifesto SCUM (ovvero manifesto feccia) l’autrice invoca un’unione delle donne e di tutti quegli uomini che non corrispondono al maschio, inteso come costruzione socio-economico-culturale del genere dominante e vede in loro una possibile alleanza, purché diretta verso quegli “esemplari” che, quindi, performano generi altri (p. 97) auspicando all’eliminazione dei propri privilegi. Questi biomaschi potranno far parte dell’Ausiliare maschile SCUM. L’unione dei generi non maschili sarà determinante per creare una società equa, in cui verrà rovesciato il governo, eliminato il sistema monetario, istituita l’automazione completa e distrutto il sesso maschile (p. 63). Quest’ultimo punto Solanas lo vede come inevitabile, anticipando teorie come quella dell’ectogenesi, grazie alla quale la riproduzione biologica diventerà inutile, in quanto faticosa. A questo punto il sesso maschile sarà superato, poiché la mascolinità crea individui che si impegnano in “attività tradizionalmente venerate come le guerre classiche e i tumulti razziali” ed essendo attività distruttive e orribili, sostenute insieme dal denaro e dalla morale, porteranno all’autodistruzione della specie. L’autrice vede la salvezza solo nel genere femminile e nell’eliminazione inevitabile del sistema binario eteronormato raggiunto grazie alla sovversione dei e dai margini della società, dalla feccia (SCUM).

Il secondo testo che troviamo In culo a te, è un testo teatrale che non fu mai portato in scena fino agli anni 2000 a San Francisco, dove fu diretto da George Coates, il quale ebbe molte difficoltà nel trovare un produttore, nonostante ricevesse abitualmente finanziamenti per i suoi spettacoli.  Anche da morta, Valerie Solanas porta con sé il pericolo della parola di quell’arte che sovverte la norma e fa paura perché spezza con il pensiero dominante. Solanas mette in scena molte situazioni scomode, all’epoca ripugnanti per la morale borghese. Individua e critica quelle donne che si asservono al maschio naturalizzandosi come brave mogli e madri, felici di riprodurre la forza lavoro, quindi l’uomo. Nel testo teatrale, Ginger è il personaggio che corrisponde a questa figura, donna colta, apparentemente libera che dice di non essere come le altre donne, di essere speciale e in questo traspare un po’ di misoginia. Solanas rende questa donna comica e passiva, incapace di osservare il mondo intorno a lei e la affianca a una femminista di nome Bongi, volgare, prostituta e lesbica che vive per strada e che, al contrario, sembra riuscire non solo a ottenere ciò che vuole, ma anche ad avere una reale visione di ciò che la circonda e in questo trovare una sorta di libertà.

Russel: Maledetta mostruosità asessuata! Tu non hai nemmeno idea di cosa sia una femmina!

Bongi: Al contrario. Sono talmente femmina da essere sovversiva (p. 147).

Infine, l’ultimo testo con cui si conclude la trilogia è Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle. Ancora una volta la protagonista è una donna che viene dai margini, una che sceglie di fare questa vita, una che vuole lottare per cambiare le sorti del mondo e che nel farlo, lo fa anche con ironia.  Solanas descrive la strada, dove ha sempre vissuto, descrive coloro che la frequentano, che la abitano e coloro, che invece, sono solo di passaggio. Descrive, in qualche modo, la sua vita.

Le sue opere la riguardano al punto che scoprendo di lei, leggendo la sua biografia, si ha l’impressione di vederla nelle vesti di Ginger o della mendicante che sovverte i luoghi di lavoro:

[…] il mio contributo alla causa socialista mantenendomi fuori dal mercato occupazionale. Ma prima, un po’ di esproprio proletario al 5 & 10, giacché è di strada. Entro domandandomi come posso contribuire, in quanto donna, alla crescita del mio paese: col taccheggio (p. 174).

Valerie Solanas ha passato la sua vita osando e sfidando. Psichiatrizzata e rinchiusa molte volte, sia in ospedali che in prigione, non si è mai arresa. Ha sparato a Warhol? Non è importante perché lei non è quello sparo che rivendica insieme ad altri movimenti. Lei è la femminista lesbica che ha deciso di vivere liberamente in un mondo dove non le è stato permesso mai di esprimersi sessualmente, artisticamente e politicamente. Lei si è espressa comunque.

Nel 1977 riuscì a riconquistare il suo scritto Manifesto SCUM da coloro che lo avevano manipolato e cambiato, pubblicandone una versione corretta grazie alla rivista femminista Majority Report.

Solanas muore il 25 aprile del 1988 nella stanza 420 del Bristol Hotel, dove venne ritrovato il suo corpo ricoperto di vermi. Con sé la sua macchina da scrivere che sempre si è trascinata dietro anche in situazioni di miseria.

Qui sotto troverete alcuni link che rimandano a tributi, scritture e opere ispirate a Valerie Solanas. Per una bibliografia esaustiva dell’autrice consiglio di consultare il libro.

1970 – To Valerie Solanas and Marilyn Monroe, In Recognition of Their Desperation

Traccia musicale di Pauline Oliveros

1971 – Hymn to Valerie Solanas, traccia dell’album Pieces of Me. Traccia musicale di Linda Hoyle

1976 – Scum. Traccia musicale di Area (con Demetrio Stratos)

S.C.U.M., cortometraggio della regista Carole Roussopoulos

1994 – Of Walking Abortion, Traccia musicale di Manic Street Preachers,

2003 – Il collettivo spagnolo La Eskalera Karakola apre il saggio Prologue. Positions, Situations, Short-circuits, con un adattamento dell’incipit di SCUM Manifesto che sostituisce la parola «queer» a «donne». (pdf)

2006 – Tract for Valerie Solanas. Traccia musicale di Matmos.

2012-2014 – Chiara Fumai reads Valerie Solanas, video.

The show which is also falsely called Breaks, performance, Chiara Fumai.


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Dacrema: la buona moneta locale che può aiutare il rilancio dell’economia


di Anna Anselmi (La Libertà, 5 marzo 2018)


– L’economista piacentino ha presentato il suo ultimo libro con Renato Mannheimer.

Come risollevare le sorti economiche di un’altra Italia chiamata a far fronte a un debito pubblico di proporzioni ormai abnormi e a rispettare i vincoli sottoscritti con l’adesione al patto del Fiscal compact, «sorta di manifesto della plastica dell’austerità»? Per aiutare il Paese a uscire dall’impasse, l’economista piacentino Pierangelo Dacrema, docente all’Università della Calabria, suggerisce alcune riflessioni e una conseguente proposta nelle pagine del libro “La buona moneta“, pubblicato da All Around, anche in ebook in coedizione da VandA.ePublishing. Il volume è stato presentato alla libreria internazionale Romagnosi, in via Romagnosi, dallo stesso autore e dal sociologo e sondaggista RenatoMannheimer, in un incontro introdotto dal giornalista Robert Gionelli. Scritto con un taglio rivolto anche ai non addetti ai lavori, “La buona moneta” sintetizza temi chiave con lo sguardo rivolto sia all’attualità, accennando all’orgomento dello criptovalute, come il bitcoin, nonchè passando al vaglio recenti misure avanzate dai vari schieramenti politici, per esempio a proposito dell’emissione di titoli di Stato di piccolissimo taglio o del reddito di inclusione per aiutare i meno abbienti, ma soprattutto non dimentica la lezione della storia, guardando alle risposte fornite a situazioni di gravi crisi negli Stati Uniti del New Deal rooseveltiano e nella Germania degli anni ’30 del secolo scorso, quando in un triennio, dal 1933 al 1936, «un Paese sull’orlo del baratro riuscì a conquistare un ragguardevole livello di benessere in virtù di una politica monetaria espansiva nel quadro di una politica economica orientata allo sviluppo», nonostante gli eccezionali risultati raggiunti siano poi stati utilizzati per una corsa al riarmo sfociata nella tragedia della seconda guerra mondiale (e il geniale ministro dell’economia Hjalmar Schacht, ebreo, in dissenso con Hitler dal 1938, sia stato tra gli imputati al processo di Norimberga). La soluzione esposta da Dacrema, che si pone in un’ottica comunque europeista («l’euro e l’Europa sono un valore. Credo nelle unificazioni, non nelle frammentazioni. Le esclusioni, le separazioni e le barriere hanno sempre creato problemi»), va nella direzione della «conversione dei titoli di debito pubblico in moneta corrente a corso forzoso in Italia», in circolazione parallela con quella sovranazionale, per ottenere – spiega Dacrema – da un parte il rilancio dell’economia a partire da un incremento della domanda globale, dall’altro un drastico abbattimento del debito. L’economista ipotizza i possibili scenari determinati dalla’rrivo della nuova moneta locale e immagina una serie di obiezioni, difendendo comunque la sua «proposta forte», scaturita da una «doverosa presa d’atto» di circostanze che non si possono sottovalutare.


 

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Venezia, città dell’amore


di Valentina Cesarino (Lo sbuffo, 28 febbraio 2018)


– Venezia, con i suoi scorci suggestivi, i canali che si annodano gli uni agli altri, tra gli importanti palazzi – che sembrano ergersi spontaneamente dal mare – e le sue gondole, sembrerebbe il luogo più adatto per una romantica storia d’amore.

 

Venezia, con i suoi scorci suggestivi, i canali che si annodano gli uni agli altri, tra gli importanti palazzi – che sembrano ergersi spontaneamente dal mare – e le sue gondole, sembrerebbe il luogo più adatto per una romantica storia d’amore.

È effettivamente qui che Alessandro Marzo Magno decide di ambientare la vicende che popolano il suo libro, “Venezia degli amanti”; storie che non ha inventato, bensì trascritto, ricamandole sulle pagine con uno stile proprio.

Tutte le avventure amorose – di questo si tratta – che l’autore ha voluto farci conoscere, sono state in parte romanzate, ma, più che altro, riportate e rielaborate in modo documentaristico, sotto forma di cronaca. Abbondano date precise, citazioni da autori che dell’argomento hanno trattato, lettere.

In più di trecento pagine Alessandro Marzo Magno riporta, senza tralasciare il dettaglio, le storie d’amore di cui sono cadute vittime notissime coppie di tutti i tempi: da Bianca Cappello, sposa di Francesco I De Medici, allo spregiudicato Giacomo Casanova (forse non è nota a tutti la timidezza che lo caratterizzava negli anni giovanili); da Lord Byron, noto poeta inglese, che sembra aver conquistato il cuore di più di duecento – chi l’avrebbe mai detto? – veneziane, di svariata età, nonché estrazione sociale, a Ugo Foscolo, Gabriele d’Annunzio e la sua bella Eleonora Duse. Sono protagonisti perfino Hemingway, che sembra essere riuscito a conquistare il cuore di una ragazza di soli diciannove anni, dunque, molto più giovane di lui, già maturo, e Julia Roberts.

Alessandro Marzo Magno, dunque, non risparmia pettegolezzi proprio su nessuno.

L’esattezza e l’attenzione che l’autore rincorre e cattura nello scrivere queste righe è, forse, ciò che colpisce maggiormente il lettore. Chi tiene in mano il libro ha l’impressione di leggere più un saggio che un romanzo, saggio in cui Marzo Magno si sofferma anche sul particolare più scabroso, in un modo, però, mai apertamente volgare.

Alcune storie sono ormai entrate nel sostrato mitico e leggendario che noi tutti possediamo, altre, invece, vengono riportate alla luce, riscoperte, da questo autore-indagatore.

Per coloro che amano il romanticismo, la storia, il fascino dell’antica e sempre mozzafiato Venezia, e, si può ammettere, il pettegolezzo, “Venezia degli amanti” (edito per VandA ePublishing, Milano 2015) è, probabilmente, il libro perfetto, che può portare a conoscere un autore poco noto, che riguardo a Venezia non si è limitato a scrivere un’opera sola.

Alessandro Marzo Magno conduce il lettore a braccetto tra sontuosi e vecchi palazzi, incontri notturni, attese e sospiri diurni, scorci di un luogo incantato che ha rappresentato il bocciolo di un grande amore non solo nel passato, ma anche in tempi più recenti, fino ai giorni nostri.
Il fascino di Venezia non risparmia proprio nessuno: nemmeno un poeta inglese o uno scrittore e un’attrice arrivati da oltreoceano.

Alessandro Marzo Magno, scrittore, giornalista e storico italiano, riversa in quest’opera due delle sue più grandi passioni, la letteratura e la storia, ed è ciò che con più forza trasmette al lettore.


 

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Il debito pubblico? Buttiamo il cuore oltre l’ostacolo


di Davidia Zucchelli (Munera, febbraio 2018)


– Ieri sera ho partecipato alla presentazione del nuovo libro di Pierangelo DacremaLa buona moneta. Come azzerare il debito pubblico e vivere felici (o solo un po’ meglio)”, Ed. Allaround, 2018, al Fopponino, a cui hanno preso parte Renato Mannheimer (sociologo), Giuliano Castagneto (Giornalista di MF Milano Finanza) ed Alfredo Costa (Sindacalista).

È stato un incontro molto interessante e vivace, come deve essere quando si affrontano problemi rilevanti, e gli spunti di riflessione non solo e non tanto dal punto di vista economico, ma soprattutto sociale sono stati davvero molti. Non è stato un incontro per gli “addetti ai lavori”, ma per i cittadini.

Conosco Pierangelo da molti anni e non mi ha stupito la sua vivacità intellettuale; so che il suo libro è frutto di una profonda riflessione e della consapevolezza della necessità di trovare tempestivamente una soluzione ad un problema che pesa come un macigno sul nostro paese, sebbene pochi ne parlino. Soprattutto in campagna elettorale, quando dovrebbe essere invece uno dei temi principali di discussione. Evidentemente la gravità del problema non è percepita. Non ancora.

L’autore propone una soluzione drastica, ovvero la creazione di una moneta parallela all’euro, assegnata ai sottoscrittori dei titoli di Stato italiani alla loro scadenza e spendibile, forzosamente, solo nel nostro paese. Da un punto di vista prettamente tecnico, le obiezioni sono – come l’autore ha ben presente – molteplici. Occorre pensare all’effetto “fuga degli investitori esteri “ dall’Italia, che si vedrebbero consegnare una moneta per così dire parziale, alle possibili conseguenze di una eventuale ma probabile imitazione da parte di altri paesi (più o meno sgangherati dell’Italia), all’inflazione che potrebbe derivarne, agli effetti negativi sull’euro per il “quasi” abbandono da parte di uno dei principali paesi europei, solo per citarne alcuni. Non saprei ovviamente quantificare tali effetti e dare una risposta immediata a questi interrogativi. Occorre riflettere, alcuni aspetti non mi sono chiari. E mi riprometto di farlo. Peraltro, come per ogni innovazione, gli effetti non sono mai perfettamente prevedibili.

Ma quello che vorrei ora richiamare sono gli elementi che costituiscono il punto di partenza della riflessione di Pierangelo e che meritano di essere ripresi. Innanzitutto il debito pubblico italiano, della cui gravità come dicevo ormai pochi sembrano avere consapevolezza, soprattutto se – come ha sottolineato Pierangelo – a Mario Draghi succederà Jens Weidmann alla guida della Banca Centrale Europea nel 2019. Perché è nota la diffidenza di Weidmann, attualmente presidente della Bundesbank, nei confronti del nostro paese, tale da fargli dire in sostanza che “l’Italia deve salvarsi da sola”, e che quindi non avrà nessuna intenzione di acquistare titoli italiani in quantità massiccia come ha fatto Draghi negli ultimi tempi con effetti positivi sia per l’Italia sia per l’Europa intera.

La diminuzione del debito, propone Pierangelo, potrebbe essere raggiunta usando una moneta parallela all’euro, che egli non chiama lira ovviamente per evitare l’equivoco di pensare alla completa sostituzione dell’euro, ma VALEX al cambio di 1 a 1 contro l’euro, al quale si affiancherebbe, poiché – ed è questo il fulcro della riflessione di Dacrema – la nostra attenzione deve essere rivolta non alla moneta, ma ai cittadini. La moneta/denaro è diventato negli ultimi decenni il centro di ogni obiettivo economico/politico, il fine da raggiungere, a scapito di tutto il resto. Il valore della moneta è divenuto più prezioso del bene dei cittadini. Si legge a pagina 40, “La stabilità del valore della moneta – l’oggetto sociale prezioso al punto da essere quasi divinizzato – non è stato presupposto di alcunché di socialmente interessante, almeno per quella cospicua parte dell’Europa che è stata penalizzata in termini di reddito, occupazione, benessere … quanto è accaduto nel sistema dell’Eurozona racconta che la salute della moneta è stata considerata più importante di quella della cittadinanza. Racconta e spiega in modo inequivocabile che il denaro è diventato più importante degli uomini”.

I politici dicono che “non si possono sostenere gli investimenti con la spesa pubblica”, perché mancano le risorse finanziarie, mentre invece bisognerebbe invertire il ragionamento: “si deve sostenere la spesa, sfruttare le immense risorse di cui disponiamo, poiché essa poi genererà le risorse finanziarie”. Un po’ come è successo con il New Deal, che è al centro del pensiero di Keynes, più volte ricordato da Pierangelo.

Occorre cioè cercare di valorizzare tutte le risorse, soprattutto umane, di cui disponiamo, di cui il nostro paese dispone. Una disoccupazione inaccettabile, pari al 12% complessivamente, ma con punte assurde prossime al 50% fra i giovani nel sud, è la prova dell’esistenza di tante risorse sprecate.

La moneta deve cioè tornare ad essere uno strumento, non il fine. Così come Keynes suggeriva alle massaie inglesi di spendere i risparmi e di investirli in consumi (gli investimenti sono consumi protratti nel tempo!) così ora è necessario che le risorse – che ci sono, la liquidità non è ora un problema – vengano utilizzate, vengano messe in circolazione, non accumulate. Ma cosa è divenuta la moneta? Lo stesso bitcoin sembra stare a dimostrare il suo non essere moneta (cioè con corso legale che consente un qualunque scambio di beni/servizi) per essere piuttosto strumento di speculazione. Perché tanto interesse per il bitcoin? Per ottenere un vantaggio di prezzo/valore, non uno strumento di scambio (che è, di fatto, limitato solo a certi beni che rientrano nel circuito). Ed è proprio questa una caratteristica che potrebbe anche sostenere la fattibilità della imposizione di limitazioni alla nuova moneta VALEX (di carattere geografico, limitandola all’Italia, o anche merceologico, prevedendo il suo utilizzo in determinati mercati/beni). Se si ammette per il bitcoin, può essere – almeno – immaginata per una moneta parallela?!

La storia della finanza ci insegna che le grandi innovazioni in materia finanziaria e monetaria sono avvenute, ovunque, in Europa e in America sulla spinta della necessità di trovare soluzione a problemi gravi/urgenti (guerre, pestilenze, gravissime crisi….). La ripresa economica, pur significativa, attualmente in corso nel nostro paese, ci distrae ed oscura quello che deve rimanere un obiettivo centrale: appunto la riduzione del debito pubblico. Alcuni potrebbero obiettare che il Belgio è riuscito a ridurre il debito drasticamente nel giro di qualche anno, ma è anche vero che il Belgio ha una dimensione ben più piccola dell’Italia.

Gli esempi di successo nella storia non mancano. Dacrema ricorda Schacht, il presidente della Bundesbank e Ministro dell’Economia di Hitler, che è riuscito in soli 4 anni ad annullare la disoccupazione dal 25%, e a fare della Germania un paese forte (fin troppo, perché poi arrivò alla guerra, ma – ad ulteriore dimostrazione della sua statura professionale ed umana – egli si dimise quando la storia prese la via che tutti conosciamo).

Oppure il caso di Helmut Kohl, il Cancelliere della riunificazione tedesca, che contro il parere di tutti gli economisti decise la conversione del marco uno a uno con i tedeschi dell’est, che si videro in poche ore moltiplicare lo stipendio. Fu un atto di grande coraggio, contro ogni regola economica, ma che risollevò lo spirito di un paese, o meglio di una nazione, che riunificò la sua gente, prima ancora dei confini. E il suo successo è sotto gli occhi di tutti, ancora oggi. Lo stesso Kohl che ha poi attribuito alla Cancelliera Merkel l’errore di porre la Germania davanti all’Europa, quando invece l’Europa avrebbe dovuto guidare/indirizzare la Germania.

Certo la moneta parallela potrebbe finire per scacciare la moneta buona, secondo la nota legge di Gresham, ma se il fine è il benessere dei cittadini, la graduale riduzione delle disparità/disuguaglianze e la riduzione della concentrazione del reddito, essa merita una riflessione. È questo un altro importante obiettivo a cui tendere che Pierangelo sottolinea, ricordando una battuta di Checco Zalone: “Uno su 1000 ce la fa, e gli altri 999?”.

E’ stato proposto da più parti e in varie occasioni di sostenere il consumo di prodotti italiani, a chilometro zero, certamente per sostenere l’ambiente limitando l’inquinamento – anche questo uno degli obiettivi principali a cui tendere – ma evidentemente anche per sostenere la produzione interna. Analogamente, si può credere in una moneta nazionale, specificamente dedicata alle negoziazioni nazionali, senza escludere gli scambi internazionali (le nostre esportazioni superano le importazioni, non lo dimentichiamo), attuati con la moneta accettata all’estero, ma limitandoli al necessario.

Come vedete gli spunti sono molti. Non so, come dicevo, dare una valutazione esauriente alla provocazione di Dacrema, che merita di essere oggetto di un più approfondito esame, ma ho apprezzato molto il coraggio, la voglia di cercare una soluzione per il bene di tutti. Questo è uno di quei momenti in cui occorre buttare il cuore oltre l’ostacolo, superare il pensiero ragionieristico del “sì, si può fare se ho il denaro oppure no, non si può fare se non ce l’ho”, senza considerare piuttosto le altre enormi risorse e in particolare quelle umane di cui disponiamo.

Ma non vi viene in mente il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci (che secondo le più moderne interpretazioni è stato un brillante esempio di condivisione e redistribuzione)?


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Abbattere il debito pubblico? «Missione impossibile con le attuali politiche monetarie e le ipocrisie pre-elettorali»


di Renato Passerini (Il Piacenza, 18 febbraio 2018)


– La creazione di una inedita moneta parallela proposta dal professor Pierangelo Dacrema. Presente anche Renato Mannheimer: alle Elezioni Politiche il 30% dell’elettorato sceglie negli ultimi 15 giorni.

Al tavolo della saletta della Libreria Internazionale Romagnosi, dalle pareti foderate di libri di ogni genere, vi sono due figure talentuose quali il prof. Pierangelo Dacrema, economista piacentino (è nato a Castelsangiovanni) – saggista e intellettuale, professore ordinario all’Università della Calabria, è autore di numerosi articoli, saggi e libri alcuni dei quali presentati nei mesi scorsi a Palazzo Galli, Banca di Piacenza – e il sociologo prof. Renato Mannheimer, tra i più noti sondaggisti italiani, certamente quello che più “buca il video”. La loro presenza è motivata dalla presentazione del saggio “La buona moneta”, sottotitolo: Come azzerare il debito pubblico e vivere felici (o solo un po’ meglio), pubblicato da VandA.ePublishing, in libreria da pochi giorni, di cui è autore Dacrema. Niente previsioni elettorali, ma a domanda Mannheimer conferma la supremazia del centro destra e tra i partiti quella dei cinque stelle; l’affluenza dovrebbe avvicinarsi al 70%, la situazione è molto fluida, anche perché, nel complesso, abbiamo poco meno del 40% di persone indecise, che non dichiarano il proprio voto. Inoltre, grosso modo il 30% dell’elettorato sceglie negli ultimi 15 giorni. E anche i mercati sono alla finestra in attesa di capire come si disporranno le forze in campo “fuori campo”.

Pierangelo Dacrema, Robert Gionelli e Renato Mannheimer alla Libreria Internazionale Romagnosi

Con loro è Robert Gionelli  in veste di moderatore tra le enunciazioni di Dacrema, i dubbi  e le domande ben calibrate  di Mannheimer e del pubblico. Trascorrono così quasi due ore con i presenti sempre più interessati al tema portante del libro: la creazione di una moneta parallela all’euro finalizzata all’abbattimento (fino all’azzeramento) dello stock del debito pubblico italiano e il contestuale rilancio dell’economia nazionale. Una proposta forte su un tema di grande interesse, che dovrebbe trovare un posto nel dibattito politico, se questo non fosse monopolizzato dall’ “io ti darò di più” dai protagonisti della campagna elettorale.

I PRESUPPOSTI – Le dimensioni, sempre crescenti, del debito pubblico italiano sono un problema annoso.  L’Italia si è impegnata, per il prossimo ventennio, a ridurre di una cinquantina di miliardi l’anno il proprio debito pubblico: per molti aspetti una missione impossibile. Sono sempre meno numerosi i sostenitori di una politica dell’austerità; però è anche difficile coniugare una politica di rilancio dell’economia (di non austerità), con il rispetto dei parametri europei (massimo 3% del rapporto deficit/PIL, massimo 60% del rapporto debito pubblico /PIL). Grillo e Salvini, notoriamente poco europeisti, non puntano più a un abbandono dell’Euro, obiettivo giudicato troppo complicato. Sia Lega che M5S hanno aderito all’idea della creazione di una moneta parallela, circolante solo in Italia, per favorire il rilancio economico del nostro Paese senza comprometterne la permanenza nell’Eurozona. Tale moneta, denominata CCF (Certificati di Credito Fiscale), verrebbe emessa dallo Stato e distribuita gratuitamente a imprese e lavoratori, in quantità e modalità predeterminate. L’idea, benché di per sé interessante – afferma Dacrema – presenta difetti vistosi e si prospetta d’altra parte, nella migliore delle ipotesi, come una soluzione destinata a produrre effetti piuttosto limitati che  Dacrema spiega nelle pagine del libro lanciando una sua  più incisiva proposta:

Il VALEX, (Valuta derivante dall’EX debito pubblico), nuova moneta “locale”, in circolazione a fianco dell’Euro, creata attraverso il graduale rimborso dei titoli del debito pubblico (BOT; CCT; BTP) effettuato non in Euro bensì nella nuova valuta.  La nuova moneta avrebbe le  caratteristiche di corso forzoso in Italia (ogni cittadino italiano sarebbe tenuto ad accettarla in pagamento di qualunque bene o prestazione);  parità con l’Euro (un VALEX uguale a un Euro); circolazione solo bancaria, anche attraverso carte di credito, senza emissione di banconote o moneta metallica. Altre caratteristiche  divieto di investire la nuova valuta in altri strumenti finanziari a eccezione dell’Euro;  divieto al sistema bancario di remunerare i depositi ed erogare prestiti denominati nella nuova valuta. Il caso della creazione di una moneta parallela accanto a quella ufficiale, non costituisce una soluzione inedita, mentre nuova è l’ipotesi dell’utilizzo della nuova valuta per il pagamento di un debito sovrano.

Con l’emissione dei VALEX – è la tesi sviluppata nelle pagine del libro  – si  darebbe impulso a consumi e investimenti, attestandosi così come strumento efficace per un’azione di risanamento dell’economia nazionale in tempi brevi. La proposta rappresenterebbe, anche in relazione al beneficio collettivo, una soluzione negoziabile, e alla fine accettabile, in sede europea anche perché non creerebbe i presupposti per pressioni inflazionistiche sull’Euro, né  verrebbe interpretata e vissuta come una manifestazione d’insolvenza dello Stato. Costituirebbe una soluzione “flessibile” (si tratterebbe di scegliere se “accontentarsi” di scendere al 60% del rapporto debito pubblico/PIL, o di continuare nel rimborso, senza escludere di spingersi fino all’azzeramento del debito). Il nostro Paese si libererebbe di una zavorra il cui peso gli tarpa le ali,e si uscirebbe dall’ipocrisia di fingere di credere che, senza il ricorso a strumenti eccezionali, l’Italia possa rispettare i suoi impegni con l’Europa: il rispetto del Fiscal Compact non sarebbe più una mera utopia.


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Il femminismo folle della ragazza che sparò ad Andy Warhol


di Melania Mazzucco (La Repubblica, 8 febbraio 2018)


– Trent’anni fa moriva Valerie Solanas, l’attivista che nel 1968 tentò di uccidere il re della Pop Art. I suoi scritti, ora tradotti in Italia, immaginano un mondo alternativo che può fare a meno del sesso debole: quello maschile.

Il 25 aprile 1988 nella stanza 420 del Bristol Hotel viene ritrovato il cadavere di una delle tante randagie del Tenderloin, il quartiere più sordido di San Francisco. Brulica di vermi ed è in decomposizione, ma si tratta di Valerie Solanas. Era stata una scrittrice, un’attivista politica, una propagandista sociale e una protagonista della controcultura americana degli anni ’60, ma da tempo nessuno aveva notizie di lei.

Era stata risucchiata nel gorgo di un’esistenza maledetta, marginale e “abietta” – l’unica del resto congeniale a una donna che, pur dotata di un’intelligenza superiore e di una laurea, aveva vissuto sempre senza tetto né legge, aveva rifiutato sesso (“rifugio dei mentecatti”), figli, amore e famiglia, e la possibilità di affermarsi come autrice (non scrisse mai il romanzo che le aveva chiesto Maurice Girodias di Olympia Press, l’editore di Nabokov e Borroughs), nonché teorizzato (e praticato) il sabotaggio del sistema e lo s-lavoro. Feccia – in inglese scum – era la sua parola feticcio e l’unica condizione umana cui riconoscesse dignità. E come feccia – “Stravagante, sporca, stracciona” – era morta.

Rigettata nella “fogna”, dannata all’oblio al punto che Lou Reed protesto contro la sopravvivenza del suo ricordo nella canzone I believe. Eppure Valerie Solanas era stata qualcuno. Doveva la celebrità ai tre colpi di rivoltella tirati, il3 giugno del 1968, contro un bersaglio clamoroso: il re della Pop Art, e di New York. Ho sparato ad Andy Warhol, si intitolava il film di Mary Harron (1995), nel quale l’ottima Lily Taylor offriva all’attentatrice il proprio volto impertinente e la voce alle sue teorie (i dialoghi sono quasi tutte frasi di Solanas). Warhol sopravvisse ai proiettili, e Solanas al carcere, alla condanna e all’internamento in manicomio. Ma nessuno dei due fu più lo stesso.

3 giugno 1968: Valerie Solanas spara ad Andy Warhol, ferendolo. Qui Valerie Solanas in arresto.

 

La prima pagina del Daily News del 4 giugno 1968 con la notizia del tentato omicidio.

Se la singolare figura di Solanas rimaneva un riferimento nel sommerso mondo antagonista, col tempo si è risvegliato anche l’interesse della cultura ufficiale – e le sono stati dedicati studi universitari, biografie, romanzi, spettacoli. Ma la radicalità del suo pensiero (e del suo comportamento), l’estremismo e l’estetica terrorista hanno favorito una minimizzazione patologizzante (anche se lei aveva sempre rivendicato: «sono una rivoluzionaria, non una pazza»).

Solanas, bianca proletaria che derideva i sovversivi borghesi igli di papà, accattona non eterosessuale, “superfemminista” che praticava la prostituzione, era fuori da ogni regola, logica, gruppo. Non si conformava al discorso rispettabile della conquista dei diritti e della parità dei generi: la liberazione delle donne non sarebbe venuta dalla mediazione, ma dalla rivolta e dalla violenza. Insomma: un’imperdonabile. Saluto perciò con piacerela pubblicazione di Trilogia SCUM. Tutti gli scritti (Morellini editore / VandA epublishing). Le curatrici, Stefania Arcarae Deborah Ardilli, non solo offrono la traduzione integrale delle (pochissime) opere di Solanas, il Manifesto SCUM, la commedia In culo a te, e ilracconto Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle (inediti in Italia), ma la corredano con due saggi (Chi ha paura di Valerie Solanas e Effetto SCUM Valerie Solanas e il femminismo radicale) fondamentali per inquadrare la vicenda della scrittrice e il suo (problematico) rapporto col pensiero femminista.

Il racconto, del 1966, è un bozzetto satirico, una brillante anticipazione delle opere successive. La commedia, Solanas la offrì a Andy Warhol nel 1967, sperando che la Factory la producesse. Ma il turpiloquio, le teorie eversive della protagonista (la sboccata mendicante Bongi, maschera dell’autrice), l’oscenità di alcune sequenze (una ragazza organizza una cena in cui servirà in tavola un escremento), e l’infanticidio finale la rendevano non rappresentabile nemmeno nel clima libertario del teatro off-Broadway. Warhol tuttavia utilizzò alcune battute di Solanas e la inserì come comparsa nel suo I, a man. Del 1967 è pure lo SCUM Manifesto, che Solanas diffuse smerciandone in strada copie auto-stampate.«Per bene che ci vada, la vita in questa società è di una noia sconfinata» – è il fulminante inizio. «E poiché non esiste aspetto di questa società che abbia la minima rilevanza per le donne, alle femmine dotate di spirito civico, responsabili e avventurose, non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione completa e distruggere il sesso maschile». È violento come tutti i manifestidelle avanguardie, paradossale come i saggi pseudoscientifici sull’inferiorità mentale della donna di cui è insieme una confutazione e una parodia. Ma è soprattutto un ritratto corrosivo ed esilarante degli uomini. «Il maschio è completamente egocentrico, intrappolato in se stesso, incapace di empatizzare con gli altri o di identificarsi con loro, incapace di amor, amicizia, affetto, tenerezza (…) Le sue reazioni sono interamente viscerali, non cerebrali; la sua intelligenza è un mero strumento al servizio dei suoi istinti e dei suoi bisogni (…) non è in grado di interessarsi a nulla, fuorché alle proprie sensazioni fisiche». L’io del maschio in effetti consiste nel suo uccello. La tesi di fondo è che il maschio sia una femmina incompleta, che rivendica come proprie le caratteristiche femminili (forza, indipendenza emotiva, energia, dinamismo, coraggio, vitalità, etc.) per mascherare la propria angoscia, debolezza, invidia: poicé con la tecnologia non è iù necessario nemmeno per la riproduzione, oltre che nocivo è diventato superfluo, e deve essere eliminato (oppure sottomesso).

Non è la rabbia femminista ma l’”umorismo apocalittico” la cifra di Solanas, e il pregio della sua scrittura. Il Manifesto fu pubblicato da Girodias mentre lei era in carcere. Ma gli spari contro Andy Warhol ne imponevano una lettura letterale, sinistra. Mentre la forza di queste pagine è, ancora oggi, la loro allegra, scatenata utopia. Le femmine che Solanas sognava, «dominatrici, determinate, sicre di sé, cattive, violente, egoiste, indipendenti, orgogliose, avventurose, sciolte, insolenti», adatte a governare il mondo, però, faticano ancora a liberare se stesse.


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Donne in Arabia Saudita: io sono ottimista


di Michela Fontana (La 27esima Ora, 7 febbraio 2018)


Cosa cambia davvero per le donne in Arabia Saudita finalmente libere di guidare? Le recenti decisioni del giovane erede al trono Mohammed bin Salman (MBS) che agisce con l’avallo del padre re Salman consentiranno l’emancipazione femminile che molti auspicano? Si può essere ottimisti? O si tratta soltanto di una delle innovazioni «cosmetiche» per compiacere le opinioni pubbliche dei paesi occidentali, primo fra tutti gli stati uniti di Trump che con l’Arabia Saudita ha rinsaldato gli storici legami?

Quando solo pochi anni fa le amiche che frequentavo a Riad organizzavano campagne per il diritto alla guida, nessuna di loro avrebbe potuto prevedere quando il divieto sarebbe caduto. O quando i cinema sarebbero stati riaperti, avrebbero potuto assistere ad una partita di calcio o entrare in un ufficio senza un accompagnatore maschile. Il cambiamento è stato sempre lento in Arabia Saudita, soprattutto agli occhi di un occidentale. La società che io ho conosciuto dal 2010 al 2013, ai tempi del precedente re Abdullah, appariva per la maggior parte conservatrice, anche se si percepivano segnali di fermento e si coglieva l’anelito della parte femminile, la più vivace e pronta al cambiamento. Ma le donne saudite hanno sempre avuto chiaro che quanto ottengono è una concessione dall’alto e mai la conquista di un diritto, in un paese dominato da una monarca assoluto. E — tranne pochi casi, come quello di Manal Al Sharif, l’animatrice della campagna per la guida del 2011, che ora vive fuori dal Paese — non hanno mai spinto le loro rivendicazioni fino a rischiare davvero l’incarcerazione prolungata. Nulla di paragonabile alle lotte delle suffragette inglesi di cento anni fa, pronte a morire. Anche se non si possono paragonare culture e paesi profondamente lontani come Inghilterra e Arabia Saudita.

Re Abdullah era visto dalla donne come un padre benevolo che aveva concesso loro il diritto di sedere nello Shura council, la possibilità di votare ed essere elette alle elezioni municipali, di accedere alle borse di studio per l’estero, purché accompagnate da un parente maschio e aveva consentito loro di lavorare come commesse nei negozi di profumeria e biancheria intima. Aveva anche aperto la più grande università femminile del mondo che ospita 60 mila studentesse. E dove gli uomini — anche docenti — non sono ammessi. Le concessioni di casa Saud alle donne di ieri e di oggi sono un dato positivo innegabile, e tutte le mie amiche saudite ne sono felici, ma il regno Saudita resta ancora un paese paternalista dove la sottomissione della donna è parte integrante del patto tra casa Saud e religiosi wahhabiti, basato sull’adesione ad un islam puro e privo di concessioni sociali. Un rigoroso «nazionalismo religioso» , come lo chiama Madawi al Rasheed la studiosa saudita che vive e insegna a Londra nel suo libro («A most masculine state gender politics and Religion in Saudi Arabia», Uno stato molto maschile: genere politica e religione in arabia saudita) . La stessa studiosa che ha chiamato «femminismo di stato» la vetrina di donne saudite che hanno successo nella professione spesso esibita sulla scena internazionale dalla casa reale.

La rivoluzione dinastica del giugno dello scorso anno ha certamente cambiato la fisionomia del Paese. Dare il potere ad un 32enne rappresenta un salto generazionale rivoluzionario dopo che sul trono del regno saudita si erano soltanto succeduti figli Ibn Saud, (fondatore del regno nel 1932), fratelli sempre più anziani, che hanno guidato un paese dove il 70 per cento degli abitanti ha meno di trent’anni. E dove erano in attesa di arrivare al potere tutti i cugini più anziani di MBS. Mohammed BS oltre che giovane, e’ deciso, spregiudicato, pronto alla guerra, al ridimensionamento della polizia religiosa, e alla resa dei conti all’interno della famiglia reale, come dimostra la sua recente campagna contro la corruzione.

Nel documento Vision 2030 ha tracciato insieme al padre il profilo di una paese più moderno, che non dipende interamente dai proventi del petrolio, che vuole ridurre l’impiego dei lavoratori stranieri. Un regno che avrà bisogno di donne che lavorano. Che guidano, fanno la spesa e portano i figli a scuola. E che saranno anche in grado — almeno teoricamente— di uscire di casa e fuggire da un padre o un marito violento, alla guida di un automobile. Sarà capace il futuro re di cambiare la cultura paternalista profonda , fino ad abolire totalmente la segregazione di genere e la figura del guardiano ( padre, marito, fratello, figlio maschio) che ha ancora sulle donne potere assoluto e le rende eterne minorenni.? E impedisce loro di viaggiare senza la sua autorizzazione , di ottenere la custodia dei figli dopo il divorzio, di sposarsi con uno straniero? Oppure tutto sembra cambiare per le donne perché non cambi davvero nulla? Avendo frequentato a lungo le donne saudite sono ottimista. Nonostante il velo, ce la faranno.

Michela Fontana è l’autrice di «Nonostante il velo» (VandA ePublishing-Morellini Editore) in libreria da maggio 2018.


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