Pubblicato il

Rebecca Town… alla scoperta di cinque città!

Becky è una splendida newyorkese, modaiola, acuta, passionale, dal passato tormentato e scrittrice di guide turistiche.  È protagonista di una serie di romanzi ambientato ogni volta in una città diversa, una città descritta come si confà a una guida: le tappe da non perdere, i locali più trendy ma anche quelli più defilati e che però meritano “una menzione”, i luoghi dello shopping, le strade, i cibi… Ogni luogo diventa così l’incantevole cornice ai misteri che Becky, detective per caso, si trova a risolvere. Una città, un delitto. Ma c’è anche la personale vicenda della nostra esuberante guida, che nel corso di ogni romanzo troverà l’amore, scoprirà la verità sulla misteriosa morte dei genitori e… Chissà?

La serie:
– Rebecca Town a Parigi: edizione cartacea/e-book
– Rebecca Town a Londra: edizione cartacea/e-book
– Rebecca Town a Roma: edizione cartacea/e-book
– Rebecca Town a Praga: edizione cartacea/e-book
– Rebecca Town a New York: edizione cartacea/e-book

 

Manuela Siciliani è nata a Torino nel 1978. Laureata a Milano in Relazioni Pubbliche, oggi vive a Sanremo. Mamma e moglie prima di tutto, fa l’agente di viaggi per passione e scrive per diletto. Rebecca Town, la protagonista dei suoi romanzi, vi porterà alla scoperta di meravigliose città dove, suo malgrado, si troverà a risolvere complicati casi di omicidio. Il tutto condito da leggerezza e love story.

Pubblicato il

Intervista a Michela Fontana


RSI (lunedì 10 dicembre 2018)


– Donne in Arabia Saudita.

Uno dei Paesi dove le donne sono in maggiore difficoltà è l’Arabia Saudita. La scrittrice Michela Fontana ha presentato uno spaccato della realtà quotidiana e della situazione attuale completo ed esauriente.
Grazie ai due anni passati a Riad, Michela Fontana ha potuto conoscere bene la realtà saudita, soprattutto quella femminile. Nel suo libro-inchiesta “Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita“, attraverso lo sguardo delle donne, l’autrice racconta i paradossi e le ambiguità del paese che ha ispirato alcuni dei più pericolosi movimenti fondamentalisti, fornendo una chiave di lettura per interpretare un mondo islamico che fatichiamo a comprendere, semplicemente perché non lo conosciamo.
Michela Fontana è stata la vincitrice, nel novembre 2018, della prima edizione del Premio Letterario Allumiere.
L’autrice è stata intervistata il 10 dicembre dalla Radio Svizzera Italiana nella trasmissione Alba Chiara.

Qui potete trovare l’intervista.


 

Pubblicato il

Natura


Viversani e belli (30 novembre 2018)


È lei a insegnarci l’ecologia.

La Natura si umanizza e dialoga con noi, “ci parla”, affrontando temi essenziali, come l’equilibrio ambientale. Con tono bonario, se la ride di questa sciocca umanità che ha squilibrato il rapporto società—natura senza rendersi conto dell’effetto boomerang che la minaccia. È questa la struttura narrativa che Daniela Danna ha scelto per il suo libro “Dalla parte della natura. L’ecologia spiegata agli esseri umani” ([VandAePublishing in co-edizione con] Morellini ed). “Non sono avido, ho solo paura del futuro” conclude, con le spalle al muro, l’uomo. La natura gli risponde: “Allora comincia a investire in azioni positive verso i tuoi simili, piuttosto che in azioni in Borsa.”

Pubblicato il

Premessa di Resistenza Femminista a “Il mito Pretty Woman” di Julie Bindel


Resistenza Femminista, 26 novembre 2018


Ieri 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne, tutte noi donne e sopravvissute abbiamo mostrato la nostra forza al mondo prendendo parola contro chi ci vuole vittime passive e mute di fronte ad un patriarcato sempre più pervasivo e violento.

Ieri 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne, tutte noi donne e sopravvissute abbiamo mostrato la nostra forza al mondo prendendo parola contro chi ci vuole vittime passive e mute di fronte ad un patriarcato sempre più pervasivo e violento. Resistenza Femminista e SPACE international hanno organizzato incontri in diverse città italiane: Milano, Bologna, Roma per dire ancora una volta che la prostituzione è violenza maschile e che non accettiamo che questa violenza sia normalizzata, sanitarizzata come “lavoro” o  raccontata come esperienza ‘glamour’ di “liberazione sessuale”. Mentre il 20 novembre a Roma Rachel Moran e Fiona Broadfoot raccontavano la loro esperienza nell’industria del sesso e il loro attivismo a sostegno del modello nordico, il 25 novembre a Parigi la stessa Rachel insieme ad un’altra sopravvissuta di SPACE del Sud Africa Mickey Meji e ad Ashley Judd del Movimento Metoo univano le loro voci per dire basta alla violenza maschile sulle donne e le bambine. Lo stesso giorno in Spagna ha preso parola la sopravvissuta e attivista Amelia Tiganus durante la manifestazione contro la violenza sulle donne che ha visto una grande partecipazione di abolizioniste. La voce delle sopravvissute sta facendo il giro del mondo e nessuno potrà fermarci. Essere una sopravvissuta significa aver vinto contro la violenza maschile, ma la lotta continua tutti i giorni, per questo abbiamo deciso di pubblicare oggi la premessa alla traduzione in italiano da noi curata del libro di Julie Bindel “The pimping of prostitution” adesso disponibile in anteprima per VandA.ePublishing con il titolo “Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione”. La versione definitiva del libro uscirà a gennaio, ma sono già disponibili copie ordinabili qua: https://www.vandaepublishing.com/prodotto/il-mito-pretty-woman/. Come per il libro di Rachel ” Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione”  anche questa traduzione è per noi un atto politico, quello di Julie è un libro denuncia che sfata i falsi miti che circondano la prostituzione:  quello del sex work e della ‘puttana felice”, un’inchiesta dettagliata condotta in 40 paesi per un totale di 250 interviste a sopravvissute, sfruttatori, compratori di sesso, attiviste, accademici/che e personalità politiche.

Il 21 novembre a Bologna Julie Bindel ha tenuto un discorso sulla violenza maschile contro le donne durante la seduta del Consiglio Solenne del comune di Bologna in occasione della celebrazione del 25 novembre. Nei prossimi giorni pubblicheremo il testo integrale del suo intervento che ha profondamente colpito tutti i presenti. Julie a partire dalla sua esperienza trentennale con la sua associazione femminista “Justice for Women” ha raccontato le storie di due donne vittime della violenza maschile, Emma Humphreys e Sally Challen.  Il caso di Emma in particolare mette in luce l’intreccio tra abusi sessuali subiti nell’infanzia/adolescenza, violenza domestica e prostituzione. Il suo fidanzato abusante l’aveva prima comprata quando era prostituita sulla strada a soli 15 anni e poi era diventato il suo sfruttatore. La storia di Emma è emblematica, rappresenta la storia di moltissime donne e ragazze nel mondo che continuano ad essere abusate nell’industria del sesso. Per questo il discorso di Julie è fondamentale: non è possibile considerare la prostituzione qualcosa d’altro, un lavoro, anzi una soluzione alla disoccupazione e alla povertà femminile come dicono certi sostenitori del sex work.  

Il movimento internazionale delle sopravvissute alla prostituzione sta diventando sempre più forte, si espande in tutto il mondo, Julie Bindel ci presenta la sua storia a partire dagli anni ’80 con la fondazione del gruppo WHISPER [Donne che hanno subito violenza nel sistema prostituente in rivolta] fino alla nascita nel 2012 di SPACE international: le donne di tutto il mondo stanno dicendo che la prostituzione è violenza. Sul fronte opposto i gruppi per “i diritti delle sex workers” la cui storia inizia con COYOTE [Basta con la vostra vecchia morale] un gruppo di ascendenza liberista le cui componenti non si trovavano nella prostituzione, ma dicevano di rappresentare la “voce delle prostitute” quando in realtà tra i soci c’erano rappresentanti dell’industria del sesso (tra i finanziatori c’era la rivista Playboy), compratori di sesso, conservatori. Il primo gruppo che grazie a finanziamenti consistenti (anche della chiesa metodista della California) ha avviato il marketing della prostituzione come “liberazione sessuale”, diffondendo il mito della “puttana felice”.  Nel 1985 la risposta delle sopravvissute all’industria del sesso non tarda ad arrivare: Evelina Giobbe fonda WHISPER in contrapposizione al messaggio mistificatorio di chi come COYOTE voleva occultare la violenza intrinseca del sistema prostituente. SPACE international e il movimento MeToo stanno continuando con grande coraggio l’opera di svelamento e informazione sulla violenza maschile nonostante le intimidazioni e la violenza messa in atto dalla lobby pro-sex work che cerca di zittire, censurare, ostacolare in ogni modo una forza ormai inarrestabile. 

Il movimento per l’abolizione della prostituzione è sempre più vitale e si espande nel mondo. Resistenza Femminista ne è parte e la traduzione di questo libro costituisce una scelta politica precisa, sulla linea che da anni perseguiamo di dare voce alle sopravvissute e alle indagini e testimonianze che portano alla luce la realtà di violenza e sopraffazione rappresentata dall’industria del commercio sessuale. Ancora una volta, come per il libro di Rachel Moran, Stupro a pagamento, abbiamo scelto di tradurre e accompagnare il libro e l’autrice negli incontri che via via avranno luogo con lettrici e lettori in Italia. Come Julie Bindel, consideriamo la prostituzione violenza contro le donne e le bambine e dedichiamo il nostro lavoro di attiviste e sopravvissute affinché la realtà di questa violenza emerga con la stessa chiarezza con la quale le donne hanno riconosciuto e chiamato con il suo nome la violenza domestica e la violenza sessuale.

Una delle domande che questo libro pone è: perché è così difficile riconoscere la violenza della prostituzione, o meglio, la prostituzione come violenza, come archetipo di ogni violenza contro le donne? Ci siamo trovate ad affrontarla in una discussione a proposito di come tradurre una frase del libro. La frase è di una sopravvissuta e si riferisce alla fatica che le donne in generale fanno ad ammettere che è la domanda di accesso sessuale ai corpi delle donne da parte degli uomini a sostenere un mercato che, nelle parole di Judith Herman, costituisce “un’impresa mondiale che condanna milioni di donne e bambine alla morte sociale, e spesso letteralmente alla morte, per il piacere sessuale e il profitto degli uomini”. A parere della sopravvissuta Evelina Giobbe, riconoscere la violenza della prostituzione ci impone il compito doloroso di “guardare dall’altra parte del tavolo a cui facciamo colazione”, in altre parole, di guardare chi ci sta davanti tutti i giorni, gli uomini che conosciamo e amiamo: i nostri amici, figli, compagni, mariti, fratelli, padri. In un primo momento ci siamo chieste se la frase fosse un’espressione idiomatica e avevamo pensato di tradurla con “guardare in faccia la realtà”. Poi però ci siamo dette che, paradossalmente, la nostra difficoltà a tradurre letteralmente in quel caso corrispondeva alla difficoltà che Giobbe riconosce ed esprime: la difficoltà di nominare e affrontare il problema che la prostituzione pone per le relazioni tra uomini e donne.

È più facile in effetti dare retta alle ragioni di chi parla di “scelte” delle donne e offre l’immagine rassicurante di un contratto sessuale paritario. Molto più faticoso è ascoltare la voce di chi ci ricorda che quel “contratto” è in realtà il pagamento di un abuso, un pagamento che coinvolge chi lo subisce cancellando la violenza agli occhi della società e rendendo dolorosissimo per chi lo subisce affrontare il proprio trauma e l’invisibilità sociale del proprio abuso.

Tuttavia, affrontare la violenza “nascosta in piena vista” della prostituzione è esattamente ciò che dobbiamo fare se davvero vogliamo avere una qualche speranza di costruire e percorrere la strada che ci porti alla fine della violenza maschile contro le donne. Non c’è da farsi illusioni: la sfida non è semplice. Il Modello nordico che noi sosteniamo intende rendere visibile la responsabilità degli uomini nel mantenimento di un sistema di controllo e oppressione della libertà delle donne. Quel sistema, il patriarcato, si regge su una disuguaglianza che sottrae alle donne la possibilità di lavorare ed essere indipendenti, rafforzando la disuguaglianza con un abuso travestito da lavoro che non fa altro che consolidare l’ingiustizia e la discriminazione. Il controllo sessuale e riproduttivo delle donne è l’obiettivo, perché è alla base di un sistema che non si potrebbe reggere se quel controllo venisse a mancare, ma costituisce anche il punto di partenza e il puntello dell’intero sistema. La risposta di alcuni, di definire la prostituzione un lavoro come un altro, non sarebbe altro che la legalizzazione dell’oppressione e dello sfruttamento delle donne. Non a caso Lina Merlin non ha mai definito la prostituzione un lavoro. Con la legge a lei intitolata, nel 1958 Lina Merlin ha liberato e donne che venivano schedate, rinchiuse nei bordelli e bollate con infamia per l’abuso compiuto su di loro dagli uomini. Definendo come crimine ogni attività volta a favorire e sfruttare la prostituzione altrui, la legge da lei voluta ha compiuto un passo fondamentale per la libertà delle donne. Quello che resta da fare è eliminare gli squilibri sociali ed economici e le condizioni culturali che portano a considerare l’atto di pagare per l’accesso sessuale al corpo di un essere umano – il più delle volte il corpo di una donna, una ragazza, una bambina – come una transazione economica accettabile.

Ha scritto Luisa Muraro:

Secoli di complicità tra uomini, di assoggettamento delle donne, di moralismo ingiusto, di cattiva letteratura e di assuefazione, hanno portato la società a non rendersi conto che la ferita inflitta all’umanità con la pratica della prostituzione, non è più accettabile. E non lo è mai stata. Non ci sono regole che tengano. Così com’è accaduto per i ricatti sessuali sul posto di lavoro da parte di quelli che hanno più potere, verrà il momento – ed è questo – in cui la non eliminabile vergogna della prostituzione, sempre rigettata sulle donne, tornerà alla sua vera causa, che è una concezione maschile degradata del desiderio e della corporeità.

Il filo che collega ogni violenza contro le donne è ormai visibile.

Le sopravvissute e le attiviste abolizioniste lo stanno mettendo sotto gli occhi di tutti e stanno sfidando il meccanismo di difesa di una dissociazione che Judith Herman non esita a dichiarare “praticata come norma sociale”. Di fronte alla prostituzione, a suo giudizio, “la scelta di evitare di sapere opera ai margini della nostra coscienza”.6 La dissociazione è un meccanismo che salva chi subisce la violenza, ma rischia di diventare anche la condanna a vivere in esilio da sé stesse. Per troppo tempo noi donne siamo state in esilio dal nostro posto nella società e abbiamo usato la nostra forza per resistere e sopravvivere. Ma adesso come sopravvissute da ogni parte del mondo prendiamo parola, per denunciare e smascherare il vero volto dell’industria del sesso che stupra e uccide e di chi la alimenta, gli stupratori a pagamento. Quell’industria che si nasconde dietro il mito di Pretty Woman, della prostituzione come lavoro sessuale o “sex work”. Bindel ricostruisce due storie parallele: quella del movimento internazionale delle sopravvissute che da WHISPER [Donne che hanno subito violenza nel sistema prostituente in rivolta], fondato nel 1985 da Evelina Giobbe, arriva fino a SPACE International [Sopravvissute all’abuso della prostituzione che chiedono di illuminare l’opinione pubblica] – movimento di sopravvissute provenienti da nove paesi – e quella della lobby pro-prostituzione, i gruppi per i “diritti delle sex worker”. WHISPER nasceva come risposta al gruppo liberista COYOTE [Basta con la vostra vecchia morale], al cui interno c’erano donne che si spacciavano come “la voce delle prostitute” senza essere o essere state nella prostituzione e uomini che ne sostenevano l’agenda politica, ovvero che la prostituzione fosse un lavoro come un altro: erano politici, studenti, rappresentanti di associazioni, compratori di sesso. Nasceva così il marketing dell’abuso sessuale venduto come potere delle donne (il cosiddetto “empowerment”) e il mito della “puttana felice”. L’espressione “sex work” (“lavoro sessuale”)/“sex worker” (“lavoratrice sessuale”) diventerà la parola d’ordine di una lobby fatta di accademici, assistenti sociali, politici, proprietari di bordelli e di agenzie di escort (come Douglas Fox, dell’International Union of Sex Workers, che si dichiara un “sex worker” pur essendo uno sfruttatore) e compratori di sesso, una lobby ben finanziata con lo scopo di decriminalizzare l’industria del sesso a livello globale, ovvero trasformare gli sfruttatori in manager e garantire il “diritto” degli uomini di abusare impuniti i corpi delle donne. Ma, come spiega Rachel Moran, la prostituzione non è “né sesso, né lavoro”, il fatto che ci sia di mezzo del denaro non cambia la natura di quello che succede, ovvero che si tratta di stupro, uno stupro anche più traumatico e devastante non solo perché reiterato, ma perché perennemente ignorato, negato, normalizzato dalla società patriarcale.

È arrivato il momento di compiere scelte che ci consentano davvero di immaginare e dunque rendere possibile una società non patriarcale fondata sul rispetto e la libertà per le donne e gli uomini. La prostituzione è misoginia che genera misoginia, odio verso le donne: dobbiamo eliminarla. Questo libro è un’opera fondamentale per procedere nella direzione aperta da Lina Merlin ed è per questo che ci piace ricordare qui l’hashtag con il quale invitiamo tutte le donne e gli uomini a lottare con noi e portare a termine la rivoluzione femminista: #iosonoLinaMerlin.

Ringraziamo Morellini Editore e VandA.ePublishing, in particolare Angela Di Luciano, per avere creduto in noi e per il sostegno alla lotta abolizionista. L’amicizia e la relazione tra donne sono davvero la chiave del cambiamento.

Resistenza Femminista

Pubblicato il

Il mobbing sulle sopravvissute alla prostituzione


Resistenza femminista (5 febbraio 2018)


Ogni volta che una donna denuncia la violenza che subisce deve mettere in conto di essere attaccata e denigrata.. […] Ecco il racconto di Julie Bindel di quel che succede quando le donne osano parlare della prostituzione e della sua violenza.

Ogni volta che una donna denuncia la violenza che subisce deve mettere in conto di essere attaccata e denigrata. Accade con il “#MeToo”, accade con la violenza domestica, accade per le sopravvissute alla prostituzione. Ecco il racconto di Julie Bindel di quel che succede quando le donne osano parlare della prostituzione e della sua violenza.

[estratto dal libro “The pimping of prostitution“]

Un numero impressionante di sopravvissute all’industria del sesso mi ha raccontato storie horror di come siano state etichettate come pazze, bugiarde, truffatrici, visionarie e masochiste. È orribile ma non sorprende. Negli anni ho assistito a come le sopravvissute siano state oggetto di bullismo, siano state minacciate, umiliate, calunniate, diffamate dagli attivisti pro- prostituzione e dai rappresentanti del mercato del sesso.

Un esempio si affaccia alla mente. Come giornalista collaboratrice di quotidiani a diffusione nazionale, decisi di fare un’intervista a Rachel Moran in seguito al successo del suo libro diventato bestseller “Paid For” e del suo lavoro di fondazione del movimento delle sopravvissute in Irlanda. Una giovane giornalista femminista che curava una sezione di un prestigioso quotidiano britannico rispose al pezzo con un “no”, dicendo: “circolano voci sulla sua autenticità in più di un ambiente… ”. Le chiesi da dove venissero queste voci ma non mi ha mai risposto.

Sabrinna Valisce conosce bene il modo in cui agisce la lobby pro-sex work. Dopo tutto Valisce ha fatto parte del New Zealand Prostitutes Collective come volontaria per 24 anni. Ha promosso campagne per introdurre la nuova legge che ha depenalizzato i bordelli e la prostituzione di strada perché credeva sinceramente che avrebbe migliorato la condizione delle donne e avrebbe garantito loro maggiore libertà. Dal momento che la lobby pro- prostituzione si basa sulla mistificazione dei fatti, sui miti e sui vecchi classici giochi di potere, è particolarmente insopportabile quando qualcuno di loro passa dall’altra parte.

Valisce mi ha detto che a un evento a Townsville nel quale stava parlando, durante la presentazione del libro “Prostitution Narratives”, un membro senior di Scarlet Alliance (il gruppo australiano della lobby pro-prostituzione) ha tentato in ogni modo di impedirle di parlare. “È salita su una sedia cercando di sovrastare la folla che voleva ascoltare me, fischiando, interrompendomi e urlando” ricorda Valisce. ”Non ho provato rabbia e neanche disturbo. Stranamente mi sono identificata con lei. Penso che avesse paura. Posso capire perché, un tempo sono stata anch’io sulla difensiva“, ‘Non togliermi quello con cui mi guadagno da vivere. Non ho nient’altro. Non so dove altro andare’. L’ho guardata, le ho sorriso, ho annuito e le ho detto ‘Ti capisco’. Non era una risposta preparata, era istinto”.

Valisce aveva poi invitato il membro di Scarlet Alliance e le altre donne pro-prostituzione che la accompagnavano a parlare con lei dopo l’evento. “Una venne da me e riuscimmo a parlare serenamente. Le altre tre mi accerchiarono. Fu una sensazione strana. Poi si avvicinarono e cominciarono a urlare tutte insieme con le voci che si sovrapponevano l’una sull’altra.”

“Vivono costantemente sulla difensiva, ma non riescono ad accettare che non si sia d’accordo sulle soluzioni ai problemi. Non è stato certamente il solo episodio di bullismo che mi sia capitato e neanche minimamente il peggiore. È stato in quel momento che mi sono resa conto di come avessi vissuto sul limite per tanto tempo e di come fare la vita non mi mancasse per nulla.”

Anche Mau è stata oggetto di bullismo da parte della lobby pro-prostituzione che l’ha accusata di aver inventato la storia di essere una sopravvissuta all’industria del sesso. “I lobbisti mi hanno contattata su Twitter e hanno cercato di farmi passare per pazza. Esiste un gruppo di sex workers qui in Germania”, dice Mau. “sono sempre presenti su internet e hanno scritto che ero un fake, che mi ero inventata tutto. Lo dicono di chiunque dica la verità sulla prostituzione”.

Presto Mau si rese conto che molti giornalisti credevano alla storia dei lobbisti pro- prostituzione secondo cui lei avrebbe inventato la sua storia nella prostituzione. “I giornalisti tedeschi non mi contattavano perché pensavano che io fossi una che fingeva. Se cerchi su internet trovi scritto che io non esisto”, dice Mau. “Mi ha hanno mandato mail fingendo di essere una stazione radio che voleva intervistarmi e speravano che gli dessi il mio numero di telefono, ma non l’ho fatto”.

“Der Spiegel mi ha contattata”, racconta Mau, “e dopo avermi intervistata per un articolo sul mercato del sesso ha voluto la prova della mia esistenza, che è piuttosto difficile per me perché non posso dare il mio nome o il mio numero di telefono. È veramente meschino quello che sta facendo la lobby. Non puoi provare che esisti e che sei stata una prostituta. Non c’è nessun pezzo di carta che dice che sei una prostituta”.

LA LOTTA PER IL “DIRITTO” DI VENDERE SESSO

Tre attiviste pro-prostituzione, Terri-Jean Bedford (che aveva precedentemento gestito agenzie di escort), l’accademica Amy Lebovitch e Valerie Scott, hanno trascinato il governo canadese in tribunale sostenendo che la sua legge sulla prostituzione fosse incostituzionale. Le tre donne portavano avanti una compagna per eliminare tutte le leggi riguardanti il mercato del sesso.

Bridget Perrier si trovava in tribunale e, dopo la decisione del giudice, Bedford iniziò a scuotere il suo frustino (Bedford praticava BDSM), divertendo i tanti giornalisti intervenuti per scrivere su quello che stava accadendo. Perrier aveva portato con sé una cinghia che aveva chiamato “il bastone della sua pappona”, raccontando ai giornalisti che era stata picchiata dalla sua pappona con quello strumento tutti i giorni.

In tribunale con Perrier c’era sua figlia adottiva Angel, la cui mamma è stata uccisa da Pickton. “Terri-Jean era troppo codarda per affrontarmi, così si mise a inseguire una diciottenne la cui madre è stata assassinata da un serial killer di donne prostituite”, dice Perrier. “Ma avevo istruito bene la mia bambina. La mia bambina le disse: ‘Sul corpo di mia madre morta non saremo mai d’accordo che regolamentare la prostituzione sia un bene per le donne’”.

“Angel le disse che avrebbe combattuto perché la prostituzione non fosse legittimata, e Terri- Jean si spinse fino al punto di mettere le mani addosso alla mia bambina. Dopo che ebbe finito di punire mia figlia si mise ad inseguire una delle nostre sopravvissute, una ragazza che ha subito torture sessuali da quando aveva 11 anni fino ai 25. Andò da lei dicendole: ‘Perché piangi, questo è un giorno vittorioso per noi’. Mi ricordo la nostra ragazza che la guardava, e c’era una foto di questa ragazza e Terri-Jean sui giornali, e questa sopravvissuta puntò il dito dritto contro Terri-Jean e le disse: “Questo è un giorno d’inferno”.

“La lobby pro-prostituzione ha scaricato le foto delle mie bambine da facebook ”, dice Perrier “e ci hanno scritto sotto ‘le future puttane di Bridget’ . La lobby mi ha mandato foto di bambine che avevano rapporti con uomini adulti. Non riuscivo a smettere di guardare quelle foto perché la mamma che è in me voleva entrare in quelle foto per salvare quelle bambine piccole. Quelle erano bambine di 4 anni”. […]

Alice è stata prostituita nel Queensland all’età di 22 anni. “ Non avevo mai sentito il termine ‘gaslighting’ fino a quando non ho raccontato pubblicamente la mia storia di quando sono stata nella prostituzione”, dice Alice. “Il gaslighting è qualcosa che ho vissuto in modo continuo nella mia vita, a cominciare da quelli che mi hanno sfruttata sessualmente quando ero minorenne, da quando avevo 5 anni, fino all’età adulta, quando l’ho subito da vari altri abusanti e persone violente. Ma per nessun motivo al mondo mi sarei aspettata di incontrare persone che mettevano in atto gli stessi comportamenti dopo che avevano saputo che ero sopravvissuta all’industria del sesso”.

“L’aperta opposizione e il comportamento messo in atto nei miei confronti dalla lobby pro- prostituzione da quando ho cominciato a parlare in pubblico della mia esperienza nell’industria del sesso ha preso di sorpresa perfino il mio io pessimista catastrofico” racconta Alice. “Posso dire adesso con certezza che la lobby pro-prostituzione è il mostro più grande, più spietato e di gran lunga più crudele che io abbia dovuto affrontare, peggio delle malattie mentali che ho sviluppato come risultato di tutti i traumi che ho subito”.

Poco tempo dopo che Alice aveva criticato apertamente l’industria del sesso e raccontato le sue esperienze personali all’interno di essa, la lobby pro-prostituzione ha cominciato immediatamente ad etichettarla come SWERF (femminista radicale che esclude le sex worker), affermando che lei odiasse le donne che si trovavano nella prostituzione. “La lobbypro-prostituzione mette continuamente in dubbio il mio passato e dichiara che mi sono inventata il fatto di aver lavorato nell’industria del sesso,” dice Alice. “Quelli che non mi danno della bugiarda mi dicono che sono ‘naif’ ,‘stupida’ e che sono stata ‘sfruttata e usata’ dalle abolizioniste per portare avanti la loro causa. Altre mi hanno accusata di aver voluto fare soldi pubblicando la mia storia e dicono che rubo soldi alle sopravvissute e alle donne che si trovano nell’industria”.

Alla conferenza “L’oppressione più antica del mondo”, che si è tenuta nell’aprile del 2016 a Melbourne, in Australia, alcuni contestatori sono saltati fuori nel luogo di incontro distribuendo volantini che contenevano propaganda a favore dell’industria del sesso e sui cosiddetti benefici per coloro che scelgono di fare l’esperienza del sex work. In uno dei cartelloni di protesta c’era scritto “Perché essere poveri?” La lobby pro-prostituzione aveva cercato di far cancellare la conferenza prima che avesse luogo sostenendo che la discussione sui danni del mercato del sesso, che secondo la lobby sono invenzioni, sarebbe stata pericolosa per le donne che scelgono di stare nella prostituzione.

Le sopravvissute mi hanno anche raccontato di numerosi casi nei quali la lobby pro- prostituzione irrompeva durante eventi abolizionisti cercando di convincere le donne che erano uscite dalla prostituzione a tornarci, sostenendo che le sopravvissute dovevano aver vissuto delle sfortunate e rare brutte esperienze con i clienti e i papponi, e avrebbero dovuto lavorare nei bordelli “giusti”.

“Durante un evento, appena 10 minuti dopo il mio racconto del trauma terribile che l’esperienza nell’industria del sesso mi ha lasciato,” dice Alice, “una donna è venuta da me e ha iniziato a parlarmi di come si stava rendendo conto delle terribili condizioni lavorative che esistevano nei bordelli nell’area in cui eravamo (un posto dove la prostituzione è legale e regolamentata). Per lei le terribili condizioni di lavoro non includevano gli abusi dei clienti e dei datori di lavoro, o l’abuso massiccio di droghe usate comunemente come mezzo per sopportare i continui traumi”

 “No, per lei, le terribili condizioni di lavoro erano costituite dal fatto che, dal momento che la prostituzione era regolamentata con bordelli legali, chiunque ci lavorasse doveva consegnare una porzione dei suoi guadagni ai propri datori di lavoro. Presupponendo in maniera errata che si trattasse del posto dove avevo lavorato all’interno dell’industria del sesso australiana, questa donna mi assicurò che ‘le condizioni sono davvero migliori nel New South Wales e ti consiglio davvero di venire giù e dare un’altra chance al sex work’. Ero completamente sotto shock – non aveva ascoltato la mia storia che avevo raccontato appena 10 minuti prima? Scoprii più tardi che la donna con la quale avevo parlato aveva di recente lasciato la sua posizione di presidente di un gruppo austrialiano di sex worker – una posizione che aveva mantenuto per almeno dieci anni”.

Sono stata testimone degli abusi e delle calunnie diffuse contro Moran in più di un’occasione. Moran descrive il trattamento che le ha riservato la lobby pro-prostituzione come profondamente lacerante e distruttivo

 Lo stesso schema si ripete nella vita di tutte le sopravvissute che prendono parola in pubblico. A Berlino, durante la conferenza per il lancio del suo libro, la prima domanda che è stata fatta a Moran è stata: “che cos’hai da dire a quelli che sostengono che hai inventato tutto?” “Non c’è da meravigliarsi se le donne più giovani, più vulnerabili sono perseguitate proprio perché prendono parola pubblicamente. Ovviamente si tratta di una strategia consapevole da parte della lobby pro-prostituzione, e queste donne giovani non riescono a reggere lo stress,” dice Moran. “Sono felice di essere arrivata a fare attivismo quando avevo passato i 35 anni ed ero uscita dalla prostituzione da più di dieci anni. Niente può perseguitarmi e sono ben capace di gestire lo stress.”

Il movimento delle sopravvissute all’industria del sesso continua a crescere nonostante gli sforzi di papponi e lobbisti pro-prostituzione. Una cosa che ho capito durante il tempo che ho passato con le sopravvissute abolizioniste è quanto siano piene di speranza e ottimiste, nonostante tutte le barriere e gli ostacoli che devono affrontare.

“Sono qui per fare la differenza ”, mi ha detto una sopravvissuta che ho incontrato nel Minnesota. “Per parlare per conto delle persone considerate inutili. Oggi piango perché sono guarita, perché ho vinto, perché sono sopravvissuta.”


Pubblicato il

“Femminile plurale”, scritta una meravigliosa pagina di Cultura


La Provincia, 6 novembre 2018


– Ad Allumiere sabato pomeriggio si è scritta una meravigliosa pagina di cultura con la “C” maiuscola che resterà indelebile nel cuore di tutti.

Ad Allumiere sabato pomeriggio si è scritta una meravigliosa pagina di cultura con la “C” maiuscola che resterà indelebile nel cuore di tutti. Tantissime persone nell’Auditorium (e altrettante nell’androne del museo con la diretta streaming e altre sono rimaste fuori per mancanza di spazio) hanno assistito alla finale della prima edizione del concorso letterario “Femminile plurale”, madrina d’eccezione la grande, Dacia Maraini, la più grande scrittrice vivente, una donna eccezionale che ha incantato tutti. Letteratura, musica, arte ma anche le tematiche attuali narrate nei libri finalisti: queste le sfaccettature meravigliose della cultura a tuttotondo toccate durante la manifestazione e tutte queste arti sono state presentate ai massimi livelli rendendo speciale e unica la serata tanto che all’unisono il pubblico, le scrittrici finaliste e il pubblico si sono complimentati per la perfetta organizzazione. A dirigere e gestire gli spazi e i momenti come un perfetto direttore d’orchestra è stato il presentatore d’eccezione Gino Saladini che, tra l’altro, ne ha approfittato anche per fare un elogio della cultura e ha invitato a «spegnere più spesso televisioni e mezzi informatici e dedicarsi alla lettura e alla Cultura in tutte le sue componenti. Leggete, leggete, leggete».

La manifestazione è stata eccezionalmente organizzata dall’assessore alla Cultura e alle Pari Opportunità Brunella Franceschini in collaborazione con il sindaco Pasquini, la Pro Loco, l’amministrazione comunale e un eccezionale gruppo di lavoro composto da Flavia Verbo, Valerio Chiacchierini,  Tiziana Franceshini, Francesca Tiselli, Cecilia Toffali e Karyn Minerva e con il prezioso contributo della Fondazione Cariciv e del Consiglio Regionale del Lazio.

  Lo scettro della vittoria di questa prima edizione è andato al libro reportage “Nonostante il velo scritto dalla giornalista Michela Fontana (edito da VandAePublishing e Morellini); secondo posto per “Gli anni forti” scritto da Paola Martini (ed. Manni); terzo posto, invece, per “La Ragazza nella foto” di Donatella Alfonso e Nerella Sommariva (ed All Around).

Intelligente, chiara e sensibile Dacia Maraini ha raccontato la sua vita, i suoi libri, la sua famiglia e i tanti amici con cui ha diviso porzioni di vita fra i quali Pasolini, Moravia (autore della prefazione del suo primo libro) e tante grandi scrittrici e alla fine è stata disponibile a incontrare i tanti ammiratori e a firmare loro le copie dei suoi libri che erano in vendita durante la manifestazione;  ha raccontato della sua passione per i viaggi ereditata dalla nonna «che sola zaino in spalla ha girato il mondo». La Maraini ha parlato del ruolo della scrittura al femminile nel tempo, sottolineando come questa sia discriminata, specie dalle istituzioni: «Oggi  le cose sono cambiate – ha spiegato – grazie soprattutto a quelle autrici che nel secondo dopoguerra, col sostegno dell’editore Luigi Einaudi, si definirono scrittori, elevando la prosa femminile fino ad allora confinata ai romanzi rosa. Penso a Lalla Romano, Anna Banti, Anna Maria Ortese, Elsa Morante, Natalia Ginzburg. Avendole conosciute posso dire che erano donne eccezionali e coraggiose, sia pure diverse tra loro».  Ha raccontato che  deve la sua passione per la lettura e la scrittura alla mamma e alla nonna che erano scrittrici, al padre etnologo che scriveva i  saggi « Tornati dal campo di concentramento in Giappone eravamo – ha spiegato ancora – poverissimi – l’unica cosa che a casa nostra non mancava mai erano i libri. Leggere è importante per la propria formazione, è un motore che mette in motosa fantasia. Il libro viene scritto da uno scrittore ma ogni lettore lo riscrive nella sua fantasia». Ha raccontato le sue esperienze da scrittrice di testi teatrali di nicchia (uno che qualche anno fa ha debuttato a Civitavecchia) e di suoi testi utilizzati per il cinema. Durante la serata le autrici finaliste hanno raccontato i loro libri con intervalli di musica al pianoforte (a quattro mani) eseguita magistralmente da Paola Ingletti e Assunta Cavallari e con alcune pagine dei libri lette e recitate dall’attrice Novella Modellini. Tutti e tre i libri hanno toccato tematiche forti: Donatella Alfono con “La Ragazza della foto” ha raccontato la storia vera di un partigiano ebreo di buona famiglia e una giovane contadina, Paola Martini con “Gli anni forti” ha tracciato uno spaccato del decennio tra il 1968 e il 1978, quando in Italia, le donne conquistarono diritti fondamentali come quello alla sessualità, alla maternità consapevole, all’uguaglianza fra uomo e donna; infine la vincitrice Michela Fontana con “Nonostante il velo” ha parlato della condizione delle donne in Arabia Saudita. Non a caso Allumiere con Femminile plurale ha scelto di premiare e mettere in gioco scrittrici donne «di oltre 5mila concorsi letterari per la prima volta Allumiere – ha spiegato la giurista Veronica Ricotta ha indetto un concorso di questo genere». «La comunità di Allumiere – ha spiegato l’assessore Brunella Franceschini – deve molto alle donne, fin da quando, mentre gli uomini lavoravano nelle cave di allume, loro mandavano avanti la vita familiare e sociale. Negli anni ’70, poi ad Allumiere nacque la prima cooperativa femminile che confezionava abiti, “La Lumiera” e che è ricordata nella mostra fotografica nel Palazzo Camerale a cura di Rita Moraldi, una delle sue fondatrici».

Impeccabili gli alunni dell’Istituto alberghiero Stendhal, sotto la supervisione della dirigente Stefania Tinti, che sono stati perfetti camerieri e hostess durante l’aperitivo finale. Da rilevare che il book office della libreria “Scrittori e Manoscritti”  di Ladispoli ha registrato il tutto esaurito per i tre libri finalisti e quelli della Maraini  (la scrittrice presenterà il suo ultimo libro proprio nella libreria di Ladispoli).

La presidente della Fondazione Cariciv Gabriella Sarracco, piacevolmente colpita dalla manifestazione ha già anticipato il sostegno dell’Ente per l’edizione del 2019 di questo concorso. Orgoglioso il sindaco Antonio Pasquini: «Complimenti all’assessore Brunella Franceschini e a tutto il suo gruppo che è stato fantastico. Un anno di grande lavoro svolto con passione, professionalità, spirito di gruppo ed amore verso il prossimo. Ritengo giusto, importante e doveroso voler premiare il valore della donna, ancor oggi, purtroppo, troppo spesso messi in ombra. Il successo di questa prima edizione è stata una partenza fantastica per un grande progetto che guiderà positivamente la nostra comunità. Questo vuole anche dire donare al prossimo. Grazie ragazze».


 

Pubblicato il

“Femminile plurale”, Dacia Maraini ospite alla chiusura del concorso


di Tiziana Cimaroli (Il Messaggero, 2 novembre 2018)


In nome e per conto delle donne, arriva ad Allumiere la prima edizione di “Femminile plurale”, atteso concorso letterario la cui finalissima si svolgerà domani alle 17.30 nella Sala nobile del Palazzo camerale di piazza della Repubblica. Continua a leggere “Femminile plurale”, Dacia Maraini ospite alla chiusura del concorso

Pubblicato il

Le motivazioni del Premio Letterario Femminile Plurale a Michela Fontana per Nonostante il velo


Nonostante il Velo: Donne dell’Arabia Saudita
di Michela Fontana, Vanda-epublishing, giugno 2018

Nonostante il velo di Michela Fontana è un lungo, affascinante viaggio in una società e in una cultura, quella dell’Arabia Saudita, di cui sappiamo ben poco, nonostante il paese rivesta un ruolo fondamentale e delicatissimo nello scenario geopolitico contemporaneo. Tra i tanti divieti imposti alle donne nei paesi islamici c’è anche quello di guidare. Un’azione che molte di noi compiono quotidianamente senza pensare che sia un diritto, un’azione negata ad altre donne come noi per cui la repressione di genere è talmente alta da impedirne addirittura la mobilità. Il 6 novembre 1990 a Riad viene organizzata una manifestazione per il diritto alla guida per le donne. Aisha, una delle promotrici della protesta, viene allontanata dalla capitale saudita. Nel 2011 la ribellione si riaccende grazie a una nuova generazione di attiviste che sfruttano anche i mezzi di comunicazione globale di cui disponiamo oggi grazie all’evoluzione di internet. Michela Fontana, attraverso la voce di undici donne dell’Arabia Saudita racconta la loro lotta e le loro paure, la loro storia, il loro quotidiano e la straordinarietà di una disubbidienza che è appannaggio soprattutto delle donne più abbienti di Riad che possono contare sulla copertura della famiglia, donne ritenute eversive dal governo e spesso allontanate.

Motivazione
Nominare, rinominare le cose per farle esistere: questo dovrebbe essere uno dei compiti della letteratura. Sottrarre all’oblio volti, storie, i nomi che nessuno pronuncia, per riconsegnarli infine al presente, con la forza della narrativa e dell’inventiva. Oppure con l’inchiesta, con la scrittura giornalistica. Michela Fontana, attraverso la testimonianza diretta di alcune donne saudite – l’Arabia Saudita resta un paese sconosciuto, anche perché impenetrabile, un vero e proprio inghiottitoio per le donne che devono confrontarsi con la proibizione, la vessazione, la sottoposizione a un guardiano che non si distrae mai – ci racconta da una prospettiva che ha a che fare con la quotidianità (una quotidianità che talvolta diviene intima) come proprio le donne si siano fatte portatrici di una clamorosa istanza di rinnovamento, sfidando con coraggio il proprio tempo e uscendone sì segnate, ma non sconfitte. Come richiede una scrittura di testimonianza, la lingua che sceglie l’autrice per raccontare di queste donne è schietta e sincera. A questa chiarezza di fondo contribuisce un utile glossario di servizio che spiega i tanti termini arabi che costellano il racconto-reportage. Michela Fontana ha anche uno spiccato interesse per l’onomastica araba, come spiega fin dalle prime pagine, e si preoccupa di tradurre sistematicamente il significato dei nomi delle donne che costituiscono il coro di voci di Nonostante il velo. Aisha, Nura, Hessa e le altre donne saudite, con le loro testimonianze, ci restituiscono un quadro sfaccettato e autentico della condizione della donna in uno dei Paesi islamici più repressivo, invitandoci a riflettere anche sulla condizione della donna in Italia, in una prospettiva femminile e plurale. Un grande paradosso aleggia intorno a questo libro: le donne che con i loro racconti hanno dato vita a Nonostante il velo non possono leggerlo, perché in Arabia Saudita è haram, cioè proibito. Il taglio di questa opera è veramente femminile e plurale : una donna che guarda, interroga, racconta da vicino altre donne, diverse da lei e fra loro per classe sociale, temperamento, esperienze di vita. Il calore del racconto in prima persona e la vividezza del reportage si alternano alla chiarezza del resoconto storico; seguiamo le vicende politiche di un intero paese, ma entriamo anche nelle case e negli ambienti di lavoro di chi lo abita, e soprattutto vediamo e ascoltiamo le protagoniste: donne più o meno giovani, più o meno ribelli, più o meno privilegiate. Mescolando con mano sicura memoir e giornalismo, Michela Fontana ha saputo creare un ritratto collettivo delle donne saudite pieno di dettagli e sfaccettature, lontano dai cliché e dalle generalizzazioni: in un’epoca in cui sembra sempre più difficile trovare chi guarda l’Altro da Sé con reale curiosità, il suo sguardo attento e rispettoso – ma anche lucidamente critico – e la sua scrittura precisa e mai banale sono strumenti preziosi di indagine e comprensione del mondo. Un lavoro meticoloso, empatico a tratti, condotto entrando nelle case, sedendo alle tavole, raccogliendo gli umori di professioniste, studentesse, attiviste, islamiste, scrittrici, mogli, madri – che ci aiuta a far luce su una delle tante prove a cui le donne sono costrette nella loro storia universale, e che faremmo bene a recuperare al nostro immaginario, perché il medioevo dei diritti non è mai scongiurato una volta per tutte.

Motivazione Primo Classificato 2018 – Premio Letterario Allumiere

Pubblicato il

Michela Fontana, premiata per il suo sguardo Femminile, Plurale

Michela Fontana ha vinto l’importante premio letterario Allumiere, Femminile, Plurale, con il suo libro-inchiesta Nonostante il Velo, un racconto corale delle donne dell’Arabia Saudita. Un riconoscimento importante, per il lavoro di Michela e per VandAePublishing.

“L’Arabia Saudita resta un Paese sconosciuto, anche perché impenetrabile, dove le donne devono confrontarsi con la proibizione, la vessazione, la sottomissione”, si legge nelle motivazioni al premio. Un riconoscimento, dunque, al lavoro di Michela Fontana, che “ci racconta da una prospettiva che ha a che fare con la quotidianità (una quotidianità che talvolta diviene intima) come proprio le donne si siano fatte portatrici di una clamorosa istanza di rinnovamento, sfidando con coraggio il proprio tempo e uscendone sì segnate, ma non sconfitte. Come richiede una scrittura di testimonianza, la lingua che sceglie l’autrice per raccontare di queste donne è schietta e sincera”. Così, lo sguardo dell’autrice si fa acuto, e penetra nei meandri delle vite sin qui nascoste delle donne intervistate. Leggiamo ancora nelle motivazioni del Premio.

“Aisha, Nura, Hessa e le altre donne saudite, con le loro testimonianze, ci restituiscono un quadro sfaccettato e autentico della condizione della donna in uno dei Paesi islamici più repressivi, invitandoci a riflettere anche sulla condizione della donna in Italia, in una prospettiva femminile e plurale.  Il taglio di questa opera è veramente femminile e plurale: una donna che guarda, interroga, racconta da vicino altre donne, diverse da lei e fra loro per classe sociale, temperamento, esperienze di vita. Il calore del racconto in prima persona e la vividezza del reportage si alternano alla chiarezza del resoconto storico; seguiamo le vicende politiche di un intero Paese, ma entriamo anche nelle case e negli ambienti di lavoro di chi lo abita, e soprattutto vediamo e ascoltiamo le protagoniste: donne più o meno giovani, più o meno ribelli, più o meno privilegiate”.

Insomma, uno sguardo tutto al femminile, che riesce a raccontare in presa diretta le vite, le emozioni, i desideri delle donne incontrate, mettendo in scena un coro che restituisce tutto il peso che la condizione femminile rappresenta.

“Mescolando con mano sicura memoir e giornalismo, Michela Fontana ha saputo creare un ritratto collettivo delle donne saudite pieno di dettagli e sfaccettature, lontano dai cliché e dalle generalizzazioni”, concludono i giurati di Allumiere. “In un’epoca in cui sembra sempre più difficile trovare chi guarda l’Altro da Sé con reale curiosità, il suo sguardo attento e rispettoso – ma anche lucidamente critico – e la sua scrittura precisa e mai banale sono strumenti preziosi di indagine e comprensione del mondo. Un lavoro meticoloso, empatico a tratti, condotto entrando nelle case, sedendo alle tavole, raccogliendo gli umori di professioniste, studentesse, attiviste, islamiste, scrittrici, mogli, madri – che ci aiuta a far luce su una delle tante prove a cui le donne sono costrette nella loro storia universale, e che faremmo bene a recuperare al nostro immaginario, perché il medioevo dei diritti non è mai scongiurato una volta per tutte”.

Leggi Le motivazioni della giuria

In foto, un momento della premiazione, che si è svolta sabato 3 novembre ad Allumiere (Roma). Accanto alla nostra autrice, Dacia Maraini.

 

 


 

Pubblicato il

Le parole delle donne

– LE SUPERNOVE, IL NUOVO COLLETTIVO DI POETE

Parole vitali, parole che significano agire e parole che consentono di dire il mondo inter(n)o.
Parole per costruire ponti e abbattere muri. Sono le parole delle donne che oggi, nel frastuono sgraziato che spesso la rete rappresenta, tornano a impregnarsi di senso.
Nasce da qui il progetto Le Supernove, un collettivo di poete che si raccoglie attorno a un’idea messa a punto con VANDA E- PUBLISHING, che rompe il reale per ricostruirlo con occhi di giovani donne.

Supernove: stelle che esplodono e arrivano con la loro energia.
Sono Roberta Durante, Francesca Genti, Francesca Gironi, Manuela Dago e Silvia Salvagnini, poete che da anni cercano nessi inediti per riscrivere la vita e le emozioni che la animano.
Silvia Salvagnini, conosciuta per Il seme dell’abbraccio e per le performance tra musica e poesia, Roberta Durante autrice dell’ originale audio-libro Nella notte cosmica, Manuela Dago, con la sua attitudine al collage e la passione per la rilegatura, Francesca Genti, poeta, che con il suo saggio del 2018 La poesia è un unicorno (quando arriva spacca) ha creato un caso e Francesca Gironi, attivissima nel terreno della performance poetica e teatrale, si sono cimentate insieme nel creare poesie come “cura”, linguaggio necessario per rintracciare il senso di ciò che siamo.
Noi siamo un innesto di poete a contagio. Siamo poete unite in tentativi di esperimenti e medicamenti” recita il loro Manifesto, che si conclude con una nota che è una dichiarazione d’intenti: “Chi crede nella rima crede nell’amore”.
La loro prima antologia collettiva, pubblicata in formato digitale da VANDA E- PUBLISHING e in formato cartaceo da Sartoria Utopia, è attesa per dicembre.


Immagine
© Manuela Dago, Poesage, 2016

Pubblicato il

Parole, immagini e social: noi donne abbiamo ancora molto da dire


di Chiara Monateri (D Repubblica, 22 ottobre 2018)


– Dal femminismo contemporaneo alla liberazione di parole, immagini e lyrics: le autrici sono la nuova meraviglia da seguire. Da Ariana Grande a Lena Dunham, passando per Tess Holliday, Chimamanda Ngozi Adichie e Adwoa Aboah ecco chi sono le donne della consapevolezza al femminile.

 

Questa volta i semi sono stati piantati a fondo e per bene e l’ondata di nuova consapevolezza al femminile non si è limitata ad essere un sussurro tra i vari trend mediatici, ma è diventata una vera corrente della quale le voci continuano a moltiplicarsi nelle più diverse forme artistiche: dai testi delle interpreti pop che mettono la figura femminile e le sue storie al centro, alle poetesse di Instagram, fino alle fotografe e videomaker e alle sceneggiature dei nuovi film e serie. Con la voglia di propagare un milione di scintille attraverso una società che ancora ha bisogno di destarsi del tutto. Le ragazze,le millennials, da Londra e New York all’Italia non sono disposte a fermarsi e stanno creando un movimento artistico tenuto insieme da fili invisibili, fatto di personalità e di valori che non possono più essere messi in discussione.

Dio è una donna
Le prime a non tirarsi indietro e a giocare nel ring delle lyrics e dell’esposizione mediatica sono le dive del pop. Ariana Grande, nonostante i suoi 25 anni, ha le idee chiarissime: in un’intervista a BBC Radio aveva dichiarato di sentire pressione, non per il fatto di essere una star globale, ma perché: «Io voglio lottare a nome di tutti, e non solo riguardo a tematiche femminili, altrimenti non avrebbe senso che venga ascoltata la mia voce: non sono solo un’entertainer e voglio aiutare non solo con la mia musica. Voglio cercare di dare a chi mi segue un vero senso di empowerment». Nel video del suo ultimo singolo God is A Woman, trend result su Spotify, Ariana canta dal centro delle galassie, e come ultima immagine ripropone l’opera di Michelangelo La creazione di Adamo prendendo il posto di Dio e circondandosi di figuranti solo donne. A seguirla a ruota è la nuova star Dua Lipa: in una intervista dell’edizione britannica di GQ ha parlato senza peli sulla lingua dell’industria musicale, dicendo che gli atteggiamenti inappropriati emersi dal dibattito #MeToo sono ben presenti e che spesso le donne vengono considerate, a priori, solo interpreti, ribadendo che lei scrive tutte le sue canzoni. Il suo singolo IDGAF (acronimo per I don’t give a f**ck) è diventato il nuovo inno pop della solidarietà al femminile per dimenticare le storie che vanno lasciate per sempre nel cestino.

Condividere l’empowerment
Lena Dunham dopo il successo di Girls ha vissuto un momento difficile riguardante la sua posizione nell’olimpo del nu feminism: attaccata da body shamers e haters che sminuivano il suo ruolo di innovatrice, se ne è liberata senza più finte ipocrisie. Non solo continua a scrivere e produrre serie con tematiche femminili decisamente interessanti come Camping, che ha come protagonista Jennifer Garner, ma non si nasconde più ed esce allo scoperto come esempio di body positivity per le nuove generazioni. Lei stessa ha condiviso sul suo Instagram un “prima e dopo” della sua figura pubblicato da un tabloid in cui racconta l’infelicità che caratterizzava la sua vita nel momento considerato “in forma”, e la gioia nell’essere più curvy, capendo l’importanza dei complimenti “solo dalle persone che contano per motivi che contano”. E sostenitrice della body positivity è anche la modella curvy Tess Holliday che è diventata la prima digital cover star del magazine americano Self: col suo libro The Not So Subtle Art of Being A Fat Girl: Loving The Skin You’re In ha messo l’accento sulla percezione che dobbiamo avere noi stesse di chi siamo, di come ci sentiamo e del nostro corpo, prima di ricevere qualsiasi impressione e pressione che possa arrivare dall’esterno.

Parole e immagini di una storia collettiva
Il mosaico di voci si moltiplica. Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice nigeriana, è diventata una voce predominante, confermando la possibilità concreta di poter credere in nuove prospettive dopo l’ascesa del movimento #MeToo. Chimamanda, in grado sempre di trovare la voce appropriata, ha dichiarato in una intervista su Vulture che vede tanta tristezza in Melania Trump, nonostante lo sdegno che possa sollevare, individuando l’unico spiraglio di umanità della Casa Bianca proprio nella figura della First Lady. La sua però non è l’unica voce all’attivo. Diablo Cody ha realizzato l’ultimo tassello della sua trilogia al femminile di sceneggiature cinematografiche: Juno, Young Adult e Tully, con Charlize Theron, raccontando storie reali di donne in bilico, ma che al tempo stesso potrebbero essere un sincero ritratto di chiunque. La blogger Karley Sciortino è diventata la nuova paladina delle relazioni e della sessualità, una versione aggiornata di Carrie Bradshaw che non disdegna una buona dose di Samantha Jones: colonnista di Vogue, il suo blog Slutever.com racconta la sua vita e le sue riflessioni, dal BDSM al pro-sex feminism, ovvero il movimento che interpreta la libertà sessuale come uno dei punti irrinunciabili della libertà femminile.

Voci più forti, più vere
Alcune autrici sono diventate di culto per il loro punto di vista penetrante che non teme di svelare anche i lati più intimi. Anne Helen Petersen ha sfondato una porta con il suo Too Fat, Too Slutty, Too Loud, scrivendo un’ode alle donne anticonformiste, le uniche a suo avviso che possono portare luce in questo periodo storico ancora troppo poco illuminante. Su Instagram non mancano le everyday inspirations: Petra Collins e Rupi Kaur seducono con i loro ritratti, in immagini e parole, della nuova bellezza e intimità delle donne contemporanee, e la supermodel Adwoa Aboah porta avanti la pagina Instagram Gurls Talk come luogo di ritrovo ed empowerment “per condividere senza giudizio o stigma”. La youtuber Lucy Fink, entrata a far parte della famiglia di Refinery29, invece di dare lezioni di makeup o stile si lancia alle prese con le sfide ironiche della vita delle ragazze, dal vivere con 50 Dollari per 5 giorni a trovare degli hobby che ci facciano stare davvero bene.

Il collettivo? È di ‘poete’
Anche in Italia le ragazze hanno molto da dire, e lo fanno insieme. Un gruppo di poetesse attive non solo con la pubblicazione ma anche con altre forme d’arte come la performance, il teatro, la musica e i laboratori hanno deciso di far parte di un esperimento tutto nuovo. Non si definiscono “poetesse”, ma un collettivo di poete, e hanno scelto il nome di Supernove. Roberta Durante, Francesca Genti, Francesca Gironi, Manuela Dago e Silvia Salvagnini si sono unite nel progetto di VandAePublishing, la casa editrice al femminile per un progetto sulle parole che curano e che sanno creare un abbraccio collettivo a catena, senza limiti: a Dicembre sarà pubblicata la loro antologia sotto forma di e-book che raccoglie i versi del collettivo. Roberta Durante racconta: «Ci chiamiamo Supernove perché in questo fenomeno la stella esplode e arriva lontano con tutta la sua energia, e questo è quello che vogliamo fare noi, questo è il senso della parola: vogliamo che possa arrivare a chiunque e che sia una cura e anche un’informazione utile che aiuti a trovare idee e soluzioni. Il lavorare insieme è una sfida in un mestiere così individualista, e lo sarà anche esporci insieme sui social. Il nostro obiettivo è la sostanza, ovvero dare qualcosa a chi ci leggerà: anche Instagram può essere un mezzo potentissimo, se porta il messaggio giusto».


 

Pubblicato il

A new wave from the Middle East


di Sofia Celeste (L’officiel, settembre 2018)


– La mostra “Contemporary Muslim Fashion” dal 22 settembre al De Young Museum di San Francisco esplora la vastità del repertorio moda del mondo islamico. A Riyahd, in Arabia Saudita, lo scorso aprile si è tenuta la prima fashion week locale e le spettatrici, per l’occasione, si sono tolte il velo. L’emancipazione sta passando per la via delle passerelle. Un’apertura reale verso l’autonomia femminile o solo una strategia economica in vista della fine dell’egemonia petrolifera nei Paesi arabi?

È la settimana della moda a Riyadh e tutta l’élite dell’Arabia Saudita è in prima fila. Durante un evento per sole donne, spettatrici e designer si sono tolte il velo per indossare abiti occidentali in occasione della prima fashion week organizzata al Ritz-Carlton. Di fronte a un pubblico internazionale, le designer saudite hanno presentato le loro collezioni di moda – accanto a marchi europei del calibro di Jean Paul Gaultier – come vere imprenditrici emancipate facendo a pezzi lo stereotipo occidentale che vede la donna musulmana oppressa. Le riforme sociali, come quella che ha concesso alle donne il diritto di guidare, continuano a galvanizzare una nazione da tempo paludata in un sistema sociale basato sulla sharia (la legge islamica). La moda si è rivelata un potente strumento per dimostrare che le donne possono avere tanto talento quanto gli uomini. In passerella, Arwa Al Banawi, del brand The Suitable Woman, e Mashael-Alrajhi, hanno optato per abiti alla moda “occidentali” – una decisione chiaramente incoraggiata dalle nuove riforme del principe ereditario Mohammad bin Salman, il 32enne reale conosciuto come MBS, il quale ha sancito che le donne possono scegliere di indossare abiti convenzionali invece del tradizionale abaya nero con il velo.
Allo show di aprile, le collezioni di Al Banawi erano caratterizzate da look androgini come blazer oversize, pantaloni larghi e felpe da surfista: «Stiamo assistendo a un vero e proprio movimento per l’emancipazione delle donne in tutto il mondo. Sono felice di sostenere le mie connazionali», ha affermato. La fashion week di Riyadh fa parte di un più ampio progetto di MBS il “Vision 2030” ideato per attirare nuove industrie al fine di prevenire un’inevitabile crisi petrolifera. La Riyadh fashion week fa anche parte dell’Arab fashion week, con sede a Dubai, il cui obiettivo è sviluppare una catena di vendita al dettaglio e manifatturiera nei centri produttivi della moda araba che prevede di non delocalizzare l’economia legata al settore mantenendo la produzione in paesi come l’Egitto, noto per il suo cotone pregiato, la Tunisia per la sua seta e il Marocco per le sue concerie. Questo accontenterebbe le crescenti esigenze dei consumatori di beni di lusso ad Abu Dhabi, Riyadh e Dubai. Secondo Thomson Reuters (multinazionale canadese del settore dei mass media e dell’informazione), si prevede che i consumatori musulmani spenderanno più di 368 miliardi di dollari in modest fashion entro il 2021. Più della metà della popolazione saudita ha meno di 25 anni e oltre la metà di tutti i suoi laureati è di sesso femminile. Creare posti di lavoro e pari opportunità è in cima alla lista delle priorità economiche ed è anche un modo per il governo di rafforzare le piccole e medie imprese che attualmente contribuiscono solo per il 20% all’economia nazionale.
«È chiaro che una cassiera non può permettersi di spendere tutto il suo stipendio per pagare un autista che la porti a lavoro, quindi è più logico lasciarla guidare», ha affermato Michela Fontana, autrice italiana del libro “Nonostante il velo” (Morellini editore in co-edizione con VandA. ePublishing), che per due anni e mezzo ha vissuto a Riyadh intervistando donne di ogni ceto sociale.
Nel centro della capitale saudita si erge il monumentale Kingdom Centre di 99 piani su una città che conta cinque milioni di abitanti. L’edificio ospita brand internazionali come Victoria’s Secret, Gucci e Roberto Cavalli. Al suo interno, offre una visione più intima della società saudita: le donne velate vengono scortate dai mariti, mentre le ragazze più disinibite indossano degli abaya semiaperti, con i capelli al vento. Molti negozi impediscono alle donne di entrare senza il proprio guardiano, sfoggiando cartelli che recitano “Solo famiglie”. «Le donne sono considerate eterne minorenni a cui non è permesso nemmeno viaggiare senza l’autorizzazione di un uomo», ha spiegato Fontana, dichiarando che l’emancipazione passa per l’abolizione della figura del guardiano maschile. Lubna Suliman Olayan, per esempio, amministratore delegato donna della Olayan Financing Company (inserita tra le 100 persone più influenti del 2005 dal “Time”) ha potuto puntare al successo senza la zavorra di un patriarca (il marito è americano). «Penso si debba fare attenzione prima di dare per scontato che si tratti di riforme autentiche», avverte Nadine Naber, professoressa di studi di genere e delle donne e di studi asiatici americani all’Università dell’Illinois a Chicago e autrice di “Arab America: Gender, Cultural Politics, and Activism”. «È importante ricordare che questa è una strategia comune in Medio Oriente, in cui leader non democratici offrono riforme selettive legate ai diritti delle donne così da apparire riformisti agli occhi dei media in Occidente», ha affermato Naber, sottolineando che il governo Usa ha ignorato le notizie di maggio sulla carcerazione degli attivisti Eman al-Nafjan, Loujain al-Hathloul, Aziz al-Yousef e Nouf Abdulaziz.
Dal 22 settembre al 6 gennaio al De Young Museum di San Francisco ospiterà la mostra “Contemporary Muslim Fashion”, esibendo lo stile della comunità musulmana. «La diversità della popolazione di fede islamica nella Bay Area e il contributo del nostro gruppo di sostegno hanno avuto un’influenza determinante sull’organizzazione della mostra e sul desiderio di produrre un’istantanea globale delle mode musulmane contemporanee», ha affermato la curatrice Jill D’Alessandro, aggiungendo che San Francisco ospita una delle più grandi comunità degli Stati Uniti. Gli stessi designer hanno abbracciato lo stile mediorientale per soddisfare i bisogni dei loro maggiori consumatori – da qui i burkini, i hijab e gli abaya nelle collezioni di Alberta Ferretti e Max Mara per esempio – a dimostrazione che le donne musulmane sono una forza da non sottovalutare.


Pubblicato il

Com’è cambiata la vita delle donne saudite ora che possono guidare? Parla Michela Fontana, scrittrice che ha vissuto in Arabia Saudita


di Anna Ditta (TPI, 10 settembre 2018)


Michela Fontana è autrice di Nonostante il velo”, un libro che raccoglie decine di interviste a donne saudite. TPI l’ha intervistata.

“Guideremo quando il re ci permetterà di farlo. Non ce la possiamo fare da sole”.

Quando Michela Fontana ha sentito pronunciare queste parola da una donna e scrittrice saudita di nome Munira, ha pensato che fosse “una risposta realista” da parte di una persona che sa di vivere in un paese in cui “il potere è nelle mani degli uomini”.
Alcuni anni dopo, le parole di Munira sono diventate realtà. Dal 24 giugno scorso le donne in Arabia Saudita possono guidare. Possono farlo perché è stato il re – o meglio, il principe ereditario Mohammad bin Salman – a concedere loro questo diritto.
Eppure le proteste per il diritto alla guida in Arabia Saudita ci sono state, le prime manifestazioni risalgono addirittura al 1990. Come mai allora la svolta è arrivata proprio adesso?
TPI.it ne ha parlato con Michela Fontana, giornalista e saggista milanese autrice di Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita.
Michela Fontana ha vissuto a Riad da luglio 2010 a dicembre 2012. In questo periodo ha incontrato e intervistato decine di donne saudite. Ha vissuto nelle loro città, è entrata nelle loro case, ha incontrato le loro madri o i loro fratelli, ha mangiato con loro, è stata ai loro matrimoni.
In questo modo ha potuto raccontare l’universo femminile dell’Arabia Saudita “dall’interno”: un’esperienza unica, se si considera che il paese è praticamente inaccessibile agli stranieri.
Unico è anche il racconto che l’autrice lascia fare alle donne stesse, senza giudizi o preconcetti, offrendo loro lo spazio per resentarsi con la loro stessa voce.
Attiviste e conservatrici, madri e lavoratrici, giovani e anziane, docenti universitarie e giornaliste: ci sono tutte queste voci nel resoconto che Michela Fontana ha pubblicato in edizione digitale a marzo 2015, e arrivato nelle librerie a maggio 2018 grazie a una collaborazione tra VandA.ePublishing e Morellini editore.

Dal 24 giugno le donne in Arabia Saudita possono guidare. Ma si tratta di una concessione del sovrano più che di una conquista frutto delle lotte delle donne. Possiamo definirla una vittoria a metà?
Sì, assolutamente. È senza dubbio un passo avanti, ma allo stesso tempo è una concessione del re, come se lui fosse il “grande guardiano” delle donne saudite.
Con la sua benevolenza concede questo diritto, ma lo fa nei suoi termini e se ne prende la paternità.
Non dimentichiamoci che alcune delle donne che hanno lottato pacificamente per avere il diritto di guidare sono state arrestate proprio un mese prima che le donne saudite si mettessero al volante.
Con la sua benevolenza concede questo diritto, ma lo fa nei suoi termini e se ne prende la paternità.
Ha voluto mandare un segnale alle donne: vi concedo quello che vi voglio concedere, che nessuna se ne prenda la paternità.
Queste donne ora si trovano in prigione senza avvocato, senza processo e senza la possibilità di comunicare con la famiglia.
Detto ciò, il diritto di guidare è comunque una vittoria, perché ci sono delle aperture.

In Arabia Saudita continuano comunque ad essere negati molti diritti alle donne. Uno dei punti cruciali è la figura del guardiano (generalmente il padre o il marito). Il diritto di guidare cambierà la quotidianità delle saudite? Se sì, come?
Potranno prendere la patente e, per esempio, andare a vedere una partita di calcio o al cinematografo col padre o col marito.
Non è stato ancora chiarito ufficialmente se la donna può mettersi al volante da sola o deve avere accanto a sé un parente maschio che l’accompagni.
Ma se il guardiano di una donna decide che lei non può guidare o non può uscire di casa – neanche a piedi – può farlo.
Quando negli anni Sessanta le bambine hanno avuto il permesso di frequentare la scuola, all’inizio molte famiglie erano contrarie.
Negli anni, a poco a poco, la società si è evoluta e sempre più famiglie hanno mandato le figlie a scuola.
Oggi mandare è una cosa del tutto normale in Arabia Saudita.
Può darsi che anche con la guida sarà così. All’inizio soltanto poche avranno il permesso di guidare, ma lentamente tutti lasceranno che le figlie si mettano alla guida.

Che ruolo ha il guardiano nella vita di una donna saudita?
Il guardiano mantiene ancora il potere assoluto sulla vita di una donna che, ad esempio, non può viaggiare senza la sua autorizzazione.
Ora però sembra che ci siano alcuni campi in cui le donne possono agire senza l’autorizzazione del guardiano.
Ho letto che possono, ad esempio, aprire una piccola impresa senza l’autorizzazione del guardiano, ma bisogna vedere se questa regola viene applicata.
Possono anche accedere a determinati lavori o entrare in ospedale senza l’autorizzazione del guardiano, ma solo in alcuni casi.
Il diritto di guidare è sicuramente un passo avanti, ma non vuol dire che ora le donne saudite siano libere o siano considerate al pari degli uomini.
L’Arabia Saudita è uno stato basato sulla disparità di genere. Ancora oggi, le saudite sono considerate cittadine di serie B.

Come emerge dalle tue interviste, molte donne vedono il guardiano come una figura di protezione e sono contrarie alla sua abolizione, nonostante questo possa limitare la loro libertà. Come si innesca questo meccanismo?
L’Arabia Saudita è molto intrisa di cultura tribale e in tutta la tradizione dei paesi arabi la donna è sottomessa all’uomo. Ma mentre è sottomessa la donna è anche protetta.
Nella tradizione locale la donna è il bene prezioso della famiglia e della tribù, è quella che dovrà partorire i figli – possibilmente figli maschi – e deve essere protetta.
Per esempio, per la legge islamica il marito deve mantenere completamente la moglie. Anche se lei lavora, può non spendere un centesimo per la famiglia, perché è il marito che deve provvedere a lei.
Mi è capitato che alcune donne saudite mi chiedessero: “Ma voi come fate? Voi siete abbandonate. Voi pagate le cene se andate al ristorante, se lavorate dovete dare i soldi alla famiglia. Voi non siete protette”.
Delle giovani ragazze mi hanno detto: “Ma il mio papà con me è buono, mi garantisce tutto quello che ho, sono contenta”.
Diciamocelo, la libertà è un valore in cui noi crediamo, ma una persona libera è anche meno protetta. Costa fatica rinunciare a questa protezione, ma non dimentichiamoci che colui che protegge può diventare anche un feroce carceriere.

È un’assenza di parità di diritti ma anche di doveri quindi. Pensi che si arriverà all’abolizione della figura del guardiano?
Può anche darsi. Ma sarà un processo molto lento e dovrà passare per movimenti sociali significativi.
È difficile prevedere come queste culture possano evolvere in tal senso, però altri paesi di culture diverse, incluso il nostro, hanno cambiato il modo di considerare le donne.
Può darsi che ci riescano anche i paesi arabi e l’Arabia Saudita, che tra tutti esprime queste leggi di segregazione delle donne in modo più estremo.

Dalle tue interviste emergono due linee di pensiero da parte delle donne che auspicano le riforme. Ci sono quelle pronte a lottare per dare una scossa alla società e quelle che vogliono un cambiamento graduale. Chi di loro ha ragione?
In ogni società c’è chi ha lo spirito dell’attivista e chi invece attende la riforma graduale.
Le suffragette si sono fatte anche mettere in prigione e sono anche morte per la lotta, delle cui conquiste hanno goduto le altre.
Nessuno può chiedere alle donne saudite di rischiare la prigione e rinunciare a tutto ciò che hanno per avere un diritto.
In Arabia Saudita le donne che hanno lottato sono finite in prigione o hanno dovuto lasciare il paese.
Se si vuole vivere tranquillamente nel paese, è chiaro che conviene di più aspettare riforme graduali. Chi vuole accelerare, deve essere disposto a pagare conseguenze terribili. Ma io non posso dire chi ha ragione.

Però se il primo diritto concesso è stato quello di guidare, forse è proprio per le proteste delle donne che si sono messe alla guida e hanno attirato l’attenzione a livello internazionale sulla questione.
Probabilmente questo è dovuto più al fatto che adesso l’Arabia Saudita vuole dare un’immagine di modernizzazione al mondo e, in particolare, agli Stati Uniti, con cui ha un ottimo rapporto da quando c’è Trump alla Casa Bianca.
Spesso le autorità saudite, anche mentre io vivevo nel paese, dicevano che più le donne avrebbero manifestato e meno diritti avrebbero ottenuto.
Per le autorità saudite non c’è nulla di più terribile che vedere sui media stranieri un’accusa sul modo in cui trattano i loro sudditi.
Infatti una delle accuse che hanno rivolto alle donne che hanno incarcerato adesso è di aver parlato con i media stranieri. Quindi non me la sento di dire che il diritto di guidare sia arrivato anche grazie alle lotte. Certamente queste hanno dato visibilità e hanno fatto sì che se ne parlasse all’estero.
La guida ha un valore simbolico molto forte e hanno cominciato da quella, anche perché l’Arabia Saudita era l’unico paese al mondo in cui le donne non potevano guidare.

Quindi Mohammed bin Salman ha voluto avviare questa stagione di riforme per una ragione di convenienza politica?
Direi di sì. Prima della rivoluzione del 1979 in Iran c’erano stati anche momenti in cui l’Arabia Saudita aveva cominciato ad aprirsi. Poi c’è stata una regressione.
Può anche darsi che il principe creda genuinamente in una società più aperta, però c’è anche la volontà di sedersi al tavolo con le potenze Occidentali, e non lo si può fare senza che le donne guidino.
Poi ci sono anche spinte economiche. Il governo saudita vuole che alla lunga l’Arabia Saudita non sia più dipendente dal petrolio. Vuole che uomini e donne lavorino. E se vuoi farle lavorare devi farle guidare.

Un’altra spina nel fianco delle donne saudite sono i mutaween, la polizia religiosa che a volte si accanisce con loro, come racconti nel tuo libro.
Una delle innovazioni che è stata fatta da Mohammad bin Salman limita il potere dei mutaween, che ora non possono più arrestare persone ma devono sempre passare attraverso la polizia.
Bisognerebbe verificare se questa riforma è stata attuata. Si tratta di un modo per togliere un po’ di potere alla classe religiosa. Anche questo è un passo avanti oggettivo.

Come ha recepito la classe religiosa l’annuncio della stagione di riforme?
La storia dell’Arabia Saudita è proprio un tiro alla fune tra la casa regnante dei Saud e i religiosi.
Quando il re impone delle riforme, i religiosi non saranno contenti ma devono accettarlo.
Questo è successo anche quando il re Faisal negli anni Sessanta concesse alle bambine di andare a scuola come i bambini, in scuole femminili ovviamente. Anche in quel caso i religiosi si opponevano, ma poi hanno accettato la questione.
A meno che non ci siano rivoluzioni islamiche, è casa Saud che ha il vero potere.

Le riforme sono state affiancate anche da una feroce repressione che in alcuni casi ha colpito anche membri della famiglia reale saudita.
Più che una feroce repressione, il fatto di aver incarcerato molti principi, accusandoli di corruzione, è stato un segno fortissimo che Mohammad bin Salman vuole avere saldo il potere nelle sue mani.
Non vuole che i principi possiedano troppe ricchezze e vuole far vedere chi ha il potere. Bisogna vedere se riuscirà a mantenere questo polso di ferro senza essere criticato da altri membri della casa reale.
Sotto esame c’è il suo piano Vision 2030, per ridurre la dipendenza del paese dal petrolio, ma anche la guerra che sta conducendo in Yemen, che è costata moltissimi soldi e finora non ha portato ai risultati sperati.

Con le tue interviste hai scavato nella società saudita e nelle dinamiche familiari delle donne saudite. Uno degli aspetti che colpisce di più è quello della violenza domestica, che spesso non viene neanche denunciata. Come si è evoluta la situazione negli ultimi anni?
La violenza domestica è diffusa come in tutto il mondo, ma in Arabia Saudita non è perseguita.
Se una donna va dalla polizia a denunciare la violenza del guardiano, gli agenti poi comunque la riportano da lui e, anzi, magari accusano la donna di disobbedienza.
Non penso che la situazione in questi anni sia cambiata molto. So che una riforma adesso consente alle donne di andare dalla polizia senza il guardiano, ma anche qui bisogna vedere se viene applicata.
Se le riforme riusciranno a mettere il dito in questa piaga allora davvero riusciranno a mordere sui fattori contro la libertà e l’emancipazione delle donne.
Ma ricordiamoci che l’Arabia Saudita è un paese chiuso, che non pubblica di certo inchieste giornalistiche o dati sul fenomeno, quindi tutto quello che sappiamo sulla violenza domestica si basa sul passaparola.

Nonostante le riforme annunciate molti attivisti e attiviste saudite restano in carcere. Penso a Raif Badawi ma anche ad attiviste donne. Pensi che la comunità internazionale possa fare di più per chiedere la loro liberazione?
Non penso. Quando il Canada ha preso posizione per chiedere di liberare questi attivisti, l’ambasciatore canadese in Arabia Saudita è stato espulso ed è iniziata un’operazione di boicottaggio del Canada.
Era l’unico paese che aveva preso una posizione ufficiale sui prigionieri sauditi. Sinceramente non credo che l’America di Trump avvierà una battaglia sui diritti civili in Arabia Saudita. Se non lo fanno gli Stati Uniti cosa possono fare gli altri paesi?

Ti sei sentita giudicata dalle donne saudite in quanto occidentale e non musulmana?
Non mi sono sentita giudicata. La stragrande maggioranza delle donne che ho intervistato hanno avuto con me un atteggiamento positivo.
Credo sia stato dovuto al fatto che neanche io le ho mai giudicate, ho sempre cercato di rispettarle come parte di una cultura che non conoscevo. Loro mi hanno ripagato con una bellissima apertura. Ho sentito una comunanza anche femminile, oltre che come persone.
Ma non posso generalizzare. Ci sono intere classi di saudite donne che hanno diffidenza verso gli occidentali, e alcune le ho anche conosciute.
Hanno dei pregiudizi molto forti nei nostri confronti. Pensano che veniamo violentate per strada, che qui da noi c’è la libertà sessuale più sfrenata.

Qual è il tuo ricordo più bello del paese?
Per me tutta l’esperienza di vita in Arabia Saudita è stata bella. Sapevo che sarebbe stato un periodo limitato e poi ero anche una privilegiata: ero un’occidentale e ovviamente mio marito mi lasciava uscire liberamente col mio autista.
Avevo anche circuiti occidentali in cui mi sentivo accettata e conoscenze di sauditi che avevano un atteggiamento di accettazione nei miei confronti.
Naturalmente non andrei mai a vivere in Arabia Saudita. Dopo un po’ che si vive lì, se si prende un aereo e si torna in Europa si sente finalmente di respirare di nuovo.
Svanisce qualsiasi opprimente sensazione di segregazione: vestito nero, velo nero, abiti lunghi fino ai piedi. E non bisogna stare attenti se si entra in un bar maschile o femminile.


Pubblicato il

Helena Janeczeck, Premio Strega, un brano

Dopo “soli” 15 anni finalmente il Premio Strega a una donna! L’ultima era stata Melania Mazzucco nel 2003. Ed è un premio due volte al femminile: al centro del racconto una donna, la giovanissima compagna del celebre fotoreporter Robert Capa, ribelle ed entusiasta, che è stata il simbolo dell’ultimo anelito anti-dittatoriale prima dell’avanzata nazista in Europa. «Lei lo ha aiutato a diventare una celebrità. Ho voluto rendergliene merito», ha detto la scrittrice.

“Adesso spero che dopo di me possano vincerlo tante altre donne e che le donne continuino ad avere la giusta attenzione. Quest’anno eravamo in sei su dodici concorrenti, tutte con libri diversi che dimostrano la ricchezza delle storie raccontate. In Italia tutto questo è possibile perché ci sono bravissime scrittrici”.
“… il lavoro di una scrittrice fatica a ottenere, quando lo merita, il giusto riconoscimento. In settant’anni il Premio Strega è stato vinto appena dieci volte da una donna. È un rilievo sociologico piuttosto che critico-letterario, visto che molti autori che consideriamo grandi non appaiono in quell’elenco. Però l’aggettivo “grande” è quasi sempre associato agli uomini, mentre le scrittrici sono “brave”, come le prime della classe. Producono libri “belli”, raramente “importanti”. Personalmente non posso lamentarmi, ma ho trattato “temi importanti” come la Grande Storia o addirittura prettamente maschili come la guerra. Gli stereotipi di genere esistono nella testa sia degli uomini che delle donne: fanno sì che se racconti storie private con molti personaggi femminili, forse soltanto il Nobel, come quello vinto da Alice Munro, riesce a consacrare l’universalità del tuo valore letterario. L’universale è concepito come maschile: ancora oggi gli uomini – inclusi parecchi scrittori – tendono a non leggere le donne, partendo dal presupposto che ci sia poco da scoprire o da imparare dai loro libri. Ma non si fanno un gran servizio, nella sostanza, visto che noi colleghe nel frattempo possiamo aver amato e assimilato sia le “trame da matrimonio” di Jane Austen, sia la caccia alla balena di Herman Melville.”

Helena Janeczeck, scrittrice, traduttrice e giornalista, è nata a Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca; vive in Italia da oltre trent’anni. Dopo aver esordito con il libro di poesie Ins Freie (Suhrkamp, 1989), ha scelto l’italiano come lingua letteraria. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori 1997; Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), Bloody Cow (Il Saggiatore, 2012). Ha co-fondato il blog collettivo Nazione Indiana, inoltre ha collaborato con le riviste Nuovi Argomenti, alfabeta2, Lo Straniero, pagina99 e scritto per la Repubblica, l’Unità, Il Sole 24 Ore.

Nel nostro catalogo Helena Janeczeck ha partecipato con un brano nel saggio Gestazione per altri, il titolo è Le madri surrogate, soggetti e non oggetto del desiderio altrui potete scaricarlo qui.

Pubblicato il

Via all’Invasione di libri

 

– Si parte martedì con Pierangelo Dacrema. Anche quest’anno il Festival delle Invasioni – Stagioni d’estate dedica una sezione di “Beni parlati”, luoghi di rilevanza storica che diventano location per la presentazione di novità editoriali.

Si comincia dal Chiostro di San Domenico martedì 10 luglio (ore 19), con l’economista Pierangelo Dacrema, che presenta il suo libro “La buona moneta” (ed. All Around). Docente di economia degli Intermediari finanziari all’Università della Calabria, Dacrema ha scritto diversi libri, e non solo di carattere accademico.

Conversando con il sindaco Mario Occhiuto e il prof. Franco Piperno, ci dirà qual è la sua ricetta per azzerare il debito pubblico e – come dice nel sottotitolo al libro – ‘vivere felici o solo un po’ meglio’.

A distanza di un anno, torna a Cosenza, di cui è cittadino onorario, Antonio Monda. Il suo ultimo romanzo, il sesto della sagra newyorkese, ancora per i timbri di Mondadori, è “Io sono il fuoco” e lo presenta, sempre nel Chiostro di San Domenico venerdì 13 luglio (ore 19).

Questa volta Monda – scrittore, giornalista, professore alla New York University, Direttore Artistico della Festa del Cinema di Roma e del festival letterario “Le Conversazioni” – ci porta nella New York degli Anni Quaranta, dove si rifugia il protagonista Baldur Cranach, “uomo pavido e mediocre” perché non ha salvato alcuni ebrei dal campo di concentramento.

Pubblicato il

#Per approfondire: Arabia Saudita, dietro il velo delle donne


di Roberto Roveda (L’unione Sarda, 4 luglio 2018)


– La notizia ha fatto il giro del mondo ed è stata ripresa con enfasi un po’ su tutti i media: dallo scorso 24 giugno le donne possono guidare anche in Arabia Saudita […].

La notizia ha fatto il giro del mondo ed è stata ripresa con enfasi un po’ su tutti i media: dallo scorso 24 giugno le donne possono guidare anche in Arabia Saudita, uno degli stati più chiusi di fronte a ogni tipo di emancipazione femminile. La revoca del divieto è stata voluta dal principe ereditario Mohammed Bin Salman ed è stata interpretata da molti come un segnale di rinnovamento importante nel Paese più integralista del mondo islamico, celebre per la segregazione femminile, per la poligamia e per il mancato rispetto dei diritti umani.

Non bisogna infatti dimenticare che nel mondo saudita le donne sono confinate nel ruolo di mogli e madri disegnato per loro dalla Sharia, la legge islamica, e che dipendono da un guardiano – il marito, il padre, un fratello oppure un parente maschio – per qualsiasi scelta e decisione che debbano prendere. Senza il consenso del guardiano una donna saudita non può lavorare ma neppure uscire di casa oppure viaggiare. Insomma, le donne saudite vivono ancora in un harem diffuso fatto di divieti, di soglie, di proibizioni, di ingressi separati.

Un harem in cui è entrata la giornalista Michela Fontana, che ha vissuto e lavorato a Riad per due anni e mezzo e ha avuto l’occasione di entrare in contatto con le donne saudite, dietro la rigida cortina che le separa dal resto della società. È nato così Nonostante il velo (Morellini editore, 2018, Euro 17,90, pp. 416. Anche EBook), libro-inchiesta che permette di cogliere attraverso le voci delle donne saudite i paradossi e le ambiguità del Paese, e di scoprire che sono proprio loro a esprimere le più forti istanze di rinnovamento. In una società dove solo il 17% delle donne cerca un impiego, infatti, sono sempre più numerose quelle che superano le barriere della tradizione e si cimentano nelle professioni notoriamente esclusive del sesso maschile – architetto, finanziere, ingegnere, artista o scrittore – anche sfidando i pregiudizi.

Tutto questo sta avvenendo in un momento chiave per la storia del Paese, con l’affermazione sulla scena politica del nuovo uomo forte, l’erede al trono, che ha intrapreso un percorso di riforme sociali, alcune delle quali riguardanti proprio il mondo femminile.

Ma veramente le cose stanno cambiando in Arabia come il permesso di guida sembrerebbe indicare? Oppure qualcosa sta mutando perché tutto resti uguale? Lo chiediamo a Michela Fontana:
“Sono vere entrambe le cose. Da un lato sono in atto cambiamenti epocali e il permesso di guida è un atto rivoluzionario in un Paese come l’Arabia dove alcune donne che hanno provato a infrangere il divieto sono finite addirittura in carcere. Sicuramente l’erede al trono punta a modernizzare il Paese e ha deciso di fare aprire i cinematografi e di concedere visti turistici, mentre prima si poteva entrare in Arabia solo se si era musulmani e si voleva andare alla Mecca. Allo stesso tempo l’Arabia rimane un Paese governato da una monarchia assoluta e anche il permesso di guidare alle donne è una concessione reale non un diritto acquisito”.

Perché allora queste concessioni?
“La ragione principale riguarda l’economia saudita. A lungo il Paese si è sostenuto solo con i proventi del petrolio. Ora si vuole realizzare un vero sviluppo economico e tutti, uomini e anche donne, devono contribuire con il loro lavoro. Chiaramente se una donna non può guidare difficilmente può lavorare. Se fa la cassiera di un supermercato non può certo pagarsi l’autista”.

L’erede al trono punta anche a limitare il ruolo dei religiosi, così influenti nel Paese?
“C’è anche questo obiettivo, anche se già le riforme sono un segnale che i religiosi più radicali sono indeboliti. Intendiamoci, il sovrano saudita è il custode della Medina e della Mecca, ha un ruolo fortissimo in campo religioso, però ora la monarchia vuole limitare le frange religiose più estreme e integraliste. Sono stati, per esempio, ridotti i poteri della polizia religiosa che interveniva in maniera spesso violenta anche di fronte a un velo fuori posto. Però l’Arabia è comunque la patria di una forma di Islam repressivo, dogmatico e restrittivo, pieno di regole estremamente rigide e in questo non è cambiata”.

Il suo è un libro di dialoghi e interviste con donne saudite. Le donne che ha conosciuto guardano all’Occidente e ai suoi valori come punti di riferimento?
“Direi di no. Sono certamente influenzate dallo stile di vita occidentale ma anche se una donna o un uomo saudita studiano e lavorano in Occidente questo non cambia la loro cultura di fondo. I valori in cui sono cresciute le donne rimangono molto sentiti: l’attaccamento alla famiglia, l’importanza dell’appartenenza tribale, l’adesione a una forma molto rigida di Islam”.

Cosa pensano allora di noi occidentali?
“Il più delle volte pensano che le nostre libertà sono eccessive. Se vengono in Occidente e vedono che noi donne qui godiamo di molti diritti e libertà non per questo ci apprezzano necessariamente. Anzi, a volte ci ritengono poco serie, quasi della prostitute”.

Cosa le attira allora del mondo occidentale?
“Sto generalizzando naturalmente perché non esiste un modello unico di donna o uomo saudita. Però in generale l’Occidente offre ottime scuole, grande preparazione e possibilità lavorative e questo attira anche se non si condividono i valori occidentali. Una donna mi ha detto: ʻQuando sono all’estero posso fare molte cose, e riconosco che le università che i miei figli e le mie figlie frequentano sono fantastiche. Ma non capisco la vostra cultura e soprattutto non approvo la libertà che viene concessa alle donne. Le ragazze escono con i ragazzi quando sono giovani, si vestono in modo sconveniente e magari rimangono incinte. Per noi è inconcepibile. Da noi la donna è considerata un bene prezioso, è protetta, trattata come un gioielloʼ. Oppure mi è capitato di parlare con una donna che aveva studiato in Occidente, aveva i suoi figli negli Stati Uniti però mi ha confessato di essere stata felice quando i terroristi – che ricordiamo erano per la maggior parte sauditi – hanno fatto crollare le Torri gemelle a New York. Insomma dobbiamo sempre ricordarci – e il discorso vale non solo per i sauditi ma per molta parte del mondo arabo – che il fatto che frequentino il nostro mondo non significa che ci sia apprezzamento o ammirazione”.

Nel suo libro colpiscono le tante regole, limitazioni, norme a cui devono sottostare le donne e in una certa misura anche gli uomini. Cosa, tuttavia, l’ha colpita positivamente dell’Arabia Saudita?
“La forza dei legami famigliari, l’ospitalità, ma soprattutto mi ha colpito positivamente la vivacità delle donne che ho incontrato, la loro energia positiva, il loro desiderio di emanciparsi pur rimanendo all’interno della loro cultura e della loro religione. Certo la strada è ancora lunga, oggi le donne possono guidare ma dipendono ancora per tutta la vita da un guardiano. Solo quando la figura del guardiano sarà abolita in Arabia Saudita allora le donne potranno considerarsi membri della società al pari degli uomini. Come, con quali tempi e se questo avverrà è tutto da vedersi”.


 

Pubblicato il

Le difficoltà vanno abbracciate. Come sulla bici


di Marco Voleri (L’Avvenire, 5 luglio 2018)


Pietro era pronto a salire sulla sua bicicletta nuova fiammante, che desiderava da mesi. «Dobbiamo imparare ad andarci!», gli disse il padre. Scesero le scale di casa e andarono in un piazzale poco distante. «Pietro, sei pronto ad abbracciare la tua bici?». «Abbracciare?», chiese il bambino al padre, perplesso. Salì in sella e grazie all’aiuto delle ruote piccole cominciò a guidarla. «Bene Pietro! Adesso togliamo una ruota piccola». Il padre andò avanti con pazienza, finché non arrivò il momento di togliere tutte le protezioni. Pietro senza ruote piccole cadde più volte, arrabbiandosi. «Questa bici fa schifo, non ci salgo più!».
Gli scienziati ci dicono che il cervello insegue la comodità ma impara dalle difficoltà. Di fatto non c’è un metodo preciso per imparare ad andare in bicicletta: bisogna cadere per imparare a stare in equilibrio. La capacità di rimanere in piedi si acquisisce abbracciando la difficoltà, provando tutti i modi possibili per riuscirci. La fiducia in noi stessi non è un dono ma il frutto delle esperienze affrontate, il risultato dei piccoli o grandi problemi risolti.
Dall’altro lato del piazzale siedono madre e figlia di dieci anni. «Gilda, pouvez-vous me passer ce sac, s’il vous plaît?». «Sì mamma, eccola». Un’anziana signora di passaggio non riesce a trattenersi: «Che brava, così piccola sa già il francese?». «Da quando è nata le parlo in francese – risponde la mamma – e lei risponde in italiano. Poco male, una lingua in più l’ha imparata».
In mezzo a qualsiasi difficoltà si trova un’opportunità, ogni sfida è un modo per crescere. Per un bimbo è magari un gioco da vincere. Di fatto rispondere in italiano a una domanda fatta in un’altra lingua significa superare un ostacolo quotidiano, come se fosse un vero e proprio allenamento. La fatica e la costanza accresce in Evìta, dieci anni, la consapevolezza del proprio valore, giorno dopo giorno. Attraverso le asperità si arriva alle stelle, diceva Seneca. E noi cosa decidiamo di fare oggi? Siamo pronti ad abbracciare le nostre difficoltà?

Pubblicato il

Donne e Arabia Saudita: non basta la patente


di Valeria Palumbo (La 27esima ora, 28 giugno 2018)


– «Ti ho amato al primo twit».

Ammetto che, di 400 pagine densissime e tutte da leggere di Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita (Morellini editore), la prima cosa che mi viene in mente è: «Ti ho amato al primo twit». Perché è forse l’espressione che, nell’indagine di Michela Fontana, matematica, saggista e giornalista, riassume meglio le contraddizioni e le difficoltà delle saudite (e, in parte, dei sauditi). Ovvero l’assurdità di una segregazione totale che non solo rende impossibili i rapporti tra i giovani (in un Paese giovanissimo) ma, di fatto, complica perfino la possibilità di sposarsi, obiettivo per il quale le ragazze vengono ancora educate. Al tempo stesso la diffusione di Twitter svela la scappatoia formidabile offerta, pur tra mille ostacoli, da Internet.

Orgoglio e pregiudizio
La situazione è paradossale perché ricorda incredibilmente quella dell’Inghilterra georgiana di Jane Austen, unita all’ossessione per “l’onore” di pirandelliana memoria e all’abbigliamento delle donne sarde ancora negli anni Sessanta. “Ricorda” non vuol dire che la situazione è uguale ma la somiglianza smonta un pregiudizio (loro e nostro). Ovvero che il mondo islamico non può vivere la progressiva conquista dei diritti umani e civili dell’Occidente, in particolare per quanto riguarda le donne, perché è “diverso”. Le donne Occidentali hanno subito gran parte dei soprusi che oggi opprimono le saudite. Fuori tempo massimo: secondo il World Economic Forum l’Arabia Saudita è al 138esimo posto su 144 nell’indice mondiale delle pari opportunità.

Il peso del guardiano
Così, se è vero che anche le italiane hanno avuto, fino al 1919, la tutela maritale, che non potevano testimoniare nelle cause di diritto civile fino alla riforma post-unitaria del 9 dicembre 1877, voluta da Salvatore Morelli, e che le antiche romane avevano un tutore per qualsiasi atto, proprio come le saudite oggi (teoricamente, le matrone dovevano pure uscire di casa velate), è anche vero che 2mila anni, come pure cento fanno la differenza. E un istituto surreale come quello del wali al-amr, del guardiano (padre, marito, fratello, figlio, zio…), che fino a qualche tempo fa autorizzava persino una donna ad andare in ospedale a partorire, appare fuori dal tempo in quasi tutto il mondo musulmano. E se è vero che una certa segregazione vale anche nel maggior e avversario dell’Arabia Saudita, l’Iran (dove le donne si battono ancora per andare allo stadio, al contrario delle saudite che possono farlo dal gennaio 2018), la totale divisione dei sessi è un ricordo a Teheran. E una realtà a Riad.

Un mondo di sole donne
Michela Fontana ha passato due anni e mezzo, dal luglio 2010 al dicembre 2012 a intervistare saudite di classi, età, istruzione, idee, inclinazioni diversissime. Ha potuto farlo proprio in quanto donna. Come già notava la scrittrice statunitense Edith Wharton in Harem, moschee e cerimonie (nella traduzione italiana di Editori Riuniti) gli uomini occidentali non sanno nulla degli harem e ci fantasticano su (con un buon grado di perversa fantasia) semplicemente perché non possono entrarci. In Arabia Saudita nemmeno le sale d’attesa degli ospedali sono miste. La segregazione è ossessiva ma, a spiega Fontana, così interiorizzata che spesso le saudite non ci fanno caso. Almeno le più anziane. Perché le giovani appaiono sempre più diverse: rappresentano, non a caso, il 58% della popolazione universitaria. Paradossalmente sono oggi spesso i padri a spingerle a studiare: una donna istruita può valere di più sul mercato matrimoniale.

Internet piace a progressisti e conservatori
Quello che appunto rende prezioso Nonostante il velo è il tempo che Michela Fontana ha dedicato agli incontri e anche la sua totale “laicità”, nel senso che ha accettato senza ribattere qualsiasi risposta (soprattutto i giudizi tranchant sulle donne occidentali), ha insistito davanti alle ritrosie, ha cercato di capire anche gli atteggiamenti più contraddittori. Che non mancano: la poligamia, molto diffusa, è sostenuta sul web da alcune ragazze istruite. La religione, onnipresente, non ha eliminato le credenze magiche. I social piacciono ai progressisti come ai conservatori. I divorzi sono diffusissimi e le single sono sempre di più. Ma spesso a rendere impossibile un matrimonio è il radicato razzismo tra tribù. La segregazione rende gli abiti sexy e i discorsi sul sesso ben più diffusi che tra noi. La maternità è un totem, ma il numero di figli è crollato. L’inglese è diffuso, come pure la tendenza di studiare all’estero. Ma alla fine i progressi che la società sta facendo, con la concessione della guida alle donne, la riapertura dei cinematografi e la nomina di alcune donne in posti di rilievo, sono dovuti a un principe ereditario, Mohammad bin Salman Al Saud, che ha studiato in patria.

Vision 2030
Condensare qui le 400 pagine di Michela Fontana senza banalizzare le risposte delle donne intervistate e senza dimenticare aspetti importanti (per esempio la violenza familiare, l’ipocrisia dei matrimoni “a termine”, la povertà diffusa, non soltanto tra vedove e divorziate) è impossibile. Una cosa è certa: rispetto al periodo della sua indagini anche l’Arabia Saudita è cambiata. Vision 2030, il programma reale di sviluppo, pur viziato da una caratteristica di fondo (il Paese è una monarchia assoluta ed è proprietà della famiglia regnante), sta imponendo mutamenti rapidi, anche in opposizione con una potentissima classe religiosa, quella degli ulema, che garantiscono da quasi cent’anni l’esistenza stessa del Regno. Per questo le saudite sanno che tutto può cambiare. O tutto può tornare indietro all’improvviso. È successo, in Iran, ma non solo. E, come diceva Primo Levi, se è successo può ancora accadere.


Pubblicato il

Le donne arabe tra harem e futuro


(Repubblica, 26 giugno 2018)


Les Mots
Via Carmagnola angolo via Pepe ore 18.30.

È appena caduto il divieto di mettersi al volante, ma c’è ancora molta strada da fare per le donne dell’Arabia Saudita. Michela Fontana ne parla nell’inchiesta Nonostante il velo, nuova versione di un ebook VandAePublishing pubblicato ora in cartaceo da Morellini Editore. La giornalista, avendo vissuto e lavorato due anni e mezzo a Riad, è riuscita a conoscere dall’interno un Paese in cui fino a due giorni fa le donne da sole non potevano neanche portare i figli a scuola. Il libro descrive una società in bilico tra harem, divieti, regole e riforme per renderla più moderna. Con Valeria Palumbo.


 

Pubblicato il

Intervista a Michela Fontana

Il 24 giugno è entrata in vigore la legge che permette alle donne dell’Arabia Saudita di sedersi al volante. Si tratta di un evento di portata epocale, per il quale le donne arabe si sono battute con forza, sfidando il potere degli uomini, dei propri padri, dei fratelli e dello stesso governo.

Michela Fontana, autrice di “Nonostante il velo“, ne ha parlato a Radio Capital: qui l’intervista (al minuto 1.46).