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Julie Bindel: «Legalizzare la prostituzione non serve»


di Elena Paparelli (Letteradonna, 2 aprile 2019)


– Nel libro Il mito Pretty Woman la giornalista e femminista inglese racconta cosa c’è dietro il mercato del sesso tra lobby e diritti delle donne ripetutamente violati. 

«La prostituzione è una violazione dei diritti umani contro donne e ragazze». Ad affermarlo senza mezzi termini a LetteraDonna è Julie Bindel, autrice del dossier-inchiesta Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione uscito nel 2019 per VandaEpublishing e Morellini editore nella collana VanderWomen (pp. 310, euro 17,90). Contro il mito della ‘puttana felice’, il libro traccia un quadro approfondito del commercio internazionale del sesso – una delle attività più redditizie al mondo – con un lavoro di ricerca sul campo in 40 Paesi, dall’Europa all’Asia, dal Nordamerica all’Australia fino alla Nuova Zelanda e all’Africa, frutto di 250 interviste con papponi, prostitute, sopravvissute, tenutari di bordelli, femministe, giornalisti, agenti di polizia, attivisti per i diritti delle sex workers, associazioni di bisessuali e transgender, vittime di tratta, clienti. Una corposa documentazione per fare il punto su una questione ancora controversa, che divide l’opinione pubblica. Anche in Italia dove spesso, anche nel 2019 su proposta della Lega, si è ventilata la possibilità della creazione di un albo professionale a cui le femministe si sono opposte.

Sul tema Bindel ha le idee chiare: «Sono stata un’attivista femminista contro la violenza maschile nei confronti delle donne dal 1979. Negli ultimi due decenni ho concentrato gran parte delle mie energie nella lotta per l’abolizione del commercio sessuale globale, a fianco di altre donne, molte delle quali sopravvissute allo sfruttamento», racconta la giornalista inglese che ha lavorato per The Guardian, NewStatesman, Bbc e Sky News. «Uno dei miti più perniciosi sul problema propagato dalla lobby del ‘settore’ è che questo non possa essere abolito». Perché esiste una vera e propria lobby dietro all’importante giro di soldi che «il mestiere più vecchio del mondo», come lo definiscono in tanti, frutta. «Molte persone, soprattutto uomini, ma anche alcune donne hanno un interesse particolare a proteggerlo». Con lo stesso identico mantra su cui insistono anche molti politici (anche progressisti e di sinistra): «Se avessi avuto un dollaro ogni volta che ho sentito dire che la prostituzione è sempre stata con noi e sempre lo sarà, le organizzazioni femministe non si troverebbero mai più a corto di fondi». Del resto «negli ultimi anni il commercio sessuale è stato rinominato per dare l’impressione che non sia nocivo». Espressioni come «vendere amore» o «sesso transazionale» cominciano infatti ad essere usate sempre più spesso. «Una terminologia che maschera la realtà di ciò che questo è: una persona, quasi sempre maschio, che ha rapporti sessuali con un’altra persona, quasi sempre femmina, senza desiderio reciproco», aggiunge Bindel.

L’EFFETTO NEGATIVO DELLA DECRIMINALIZZAZIONE
Oggi, il dibattito sull’argomento, svolto all’interno del mondo accademico, dei media, delle associazioni per i diritti umani e di genere, ha raggiunto un punto critico: si parla di decriminalizzare l’intero mercato, e rimuovere tutte le leggi relative al tema, da una parte. Oppure di criminalizzare l’acquisto di sesso secondo il Modello nordico (o neo-abolizionista) creato nel 1999 dalla Svezia e poi adottato da Norvegia, Islanda, Irlanda del Nord, Irlanda e Francia, dall’altra. Quest’ultimo – nato dalla presa d’atto dell’insuccesso del modello di “regolamentazione” della prostituzione legale- intende bloccare la domanda dell’acquisto del sesso, considerato una forma di violenza: a venire perseguito è il cliente che adesca sex worker. Viceversa, la vittima di sfruttamento non viene perseguita. Nel libro viene riportato l’effetto negativo che ha invece prodotto l’approccio opposto in Paesi come Australia, Germania, Olanda, Austria, Nord America e Nuova Zelanda: «Non c’è prova di alcuna diminuzione della violenza, della diffusione dell’HIV o del numero di donne uccise nel mercato legale del sesso mentre ci sono prove che i diritti e la libertà promessi sono andati ai proprietari dei bordelli e ai compratori». A sostenere, però, questo tipo di orientamento ci sono anche l’Organizzazione mondiale della sanità, Human Right Watch e Amnesty International. «Ritieniamo che la ricerca, l’acquisto, la vendita e l’adescamento per il sesso a pagamento debbano essere atti al riparo dall’interferenza dello Stato fintantoché non sussistano minacce, coercizione o violenza associate a tali atti. Gli uomini e le donne che comprano sesso da adulti consenzienti esercitano la propria autonomia personale», si legge nel documento di Amnesty. Intervento che Bindel chiaramente non condivide: «Se l’ong rimane fedele ai suoi principi dovrebbe concentrarsi su coloro i cui diritti umani sono violati, nel caso della prostituzione le donne, invece di quelli, come gli acquirenti del sesso e i protettori, che credono che sia loro diritto umano non rispettare quelli degli altri».


 

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Intervista a Deborah Ardilli


(Radio Vanloon, 9 marzo 2019)


Femminismo, i suoi manifesti

La donna non va definita in rapporto all’uomo. Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà (Manifesto di Rivolta femminile, 1970)

Nella settimana dell’8 marzo Radio Vanloon ha ripercorso i manifesti del femminismo radicale degli anni Settanta con Deborah Ardilli, traduttrice e studiosa dei movimenti. Con lei hanno visto alcune delle particolarità degli scritti del femminismo italiano e i suoi collegamenti con quello statunitense e francese.

Qui l’intervista.


 

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Julie Bindel: “La prostituzione cancro sociale”


di Francesco Rigatelli (La Stampa, 8 marzo)


– Amnesty International?

Il mondo del cinema? Amnesty International? I medici contro l’Aids? Favoriscono tutti lo sfruttamento della donna. Lo sostiene Julie Bindel, attivista inglese, collaboratrice del Guardian e fondatrice di Justice for woman, nel suo libro Il mito Pretty woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione edito da Vanda con Morellini. Camicione bianco e fare da mastino, l’autrice, 56 anni, non teme la definizione di femminista radicale. Per lei semplicemente la prostituzione andrebbe proibita come il fumo. E chiunque la depenalizzi o semplicemente la accetti ne è complice.

Dopo due anni di ricerca e 250 interviste nel settore, Bindel sfata il mito della prostituta felice: «Non si tratta mai di una scelta della donna. È sempre un abuso pagato dal cliente. Infatti, parlare di lavoratrici del sesso è sbagliato, perché non è un lavoro e non è sesso. E anche definire i compratori di sesso come dei clienti è l’inizio di un abuso».

L’autrice, forte di viaggi in luoghi problematici per i diritti delle donne come l’India, la Cambogia, Dubai e la Turchia, ma anche negli Stati Uniti, in Germania, in Svizzera e nei Paesi Bassi, entra nel sistema: «Spesso il contratto è tra l’uomo e il pappone e anche quando l’accordo è diretto chi paga lo fa per il corpo della donna. Lui paga, ma lei non vuole veramente». Più che un libro sulle donne, il suo è uno studio sulla responsabilità degli uomini: «Invece di fare tante domande sul perché e il percome una finisca per prostituirsi, la vera questione è perché ci sia chi paghi per avere un rapporto non consensuale. Molti uomini sostengono di avere più diritto al sesso delle donne». Per Bindel dunque la prostituzione è essenzialmente «una questione di potere, perché molti uomini non desiderano nessuna interazione umana».

E anche la cosiddetta «girlfriend experience» del film Pretty Woman del 1990 di Garry Marshall con Richard Gere e Julia Roberts finisce per far passare «una schiavitù normalizzata». Così come Amnesty International, che è per la depenalizzazione del settore e non distingue lo sfruttamento in base al sesso «eppure è risaputo che la maggior parte dei compratori sono maschi e delle sfruttate sono femmine». Stesso discorso per «la lobby gay dei medici contro l’Aids, che include nella libertà sessuale pure la prostituzione». Altro rischio è la rete delle webcam, dove avviene secondo l’autrice «la connessione tra pornografia e prostituzione per i compratori di sesso virtuale».


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Il mito della “puttana felice”: come la lobby del sesso ci vende i bordelli


(Il Fatto quotidiano, 7 marzo 2019)


– In tour in Italia. L’inchiesta della giornalista sul funzionamento del mercato del sesso

La prima occasione in cui ho incontrato i miti persuasivi del mercato del sesso è stata il film Pretty Woman del 1990, diretto da Garry Marshall. È una commedia romantica e la storia va così: Julia Roberts, che interpreta una donna prostituita sulla strada, incontra Richard Gere, che fa la parte di un ricco uomo d’affari e la porta nel suo albergo di gran lusso. Scopriamo che il compratore vuole una “prestazione fidanzatina” (girlfriend experience) da parte della donna, e assistiamo a diverse scene in cui si beve champagne e si mangiano fragole. Richard Gere ostenta Julia Roberts come un trofeo con i suoi contatti d’affari altrettanto upper-class e le rispettive mogli della buona società, cui risulta evidente che lei non è una di loro, tuttavia alla fine i due si innamorano e vivono felici e contenti. La relazione tra il compratore di sesso e la donna prostituita viene presentata come quella tra un cavaliere dalla splendente armatura che salva la fanciulla povera ma bella secondo i canoni tradizionali, la quale è finita sulla strada per circostanze difficili e senza colpa alcuna. Salvandola, Gere pulisce Roberts del suo status di “puttana”. Allo stesso tempo, salva sé stesso dall’identificazione con i ruoli del puttaniere predatore o del patetico incapace di una vera relazione. Nel 1991 ero a Mosca per parlare a un gruppo di studentesse tra i 16 e i 18 anni. Domandai alle ragazze che lavoro avrebbero voluto fare e più del 50 per cento rispose che avrebbe voluto essere una prostituta. Scioccata, chiesi come mai. La risposta più comune, a parte il fatto che in questo modo sarebbero potute emigrare dalla Russia in Occidente, fu che cosi avrebbero potuto incontrare un uomo come Richard Gere e avere una bella vita. (…)

Nasceva così il mito della “puttana felice”. L’espressione “sex work” (“lavoro sessuale”)/”sex worker” (“lavoratrice sessuale”) diventerà la parola d’ordine di una lobby composta da accademici, assistenti sociali, politici, proprietari di bordelli e di agenzie di escort, nonché compratori di sesso, una lobby ben finanziata con lo scopo di decriminalizzare l’industria del sesso a livello globale, ossia trasformare gli sfruttatori in manager e garantire il “diritto” degli uomini di abusare impuniti dei corpi delle donne. Ma, come spiega Rachel Moran, la prostituzione non è “né sesso, né lavoro”, il fatto che ci sia di mezzo del denaro non cambia la natura di quello che succede. (…) In anni recenti il mercato del sesso è stato sottoposto a un rinnovamento d’immagine perdere l’impressione che non sia pericoloso, che addirittura non si tratti di prostituzione. Chi è a favore del commercio sessuale utilizza una terminologia che maschera la realtà di ciò che in-vece è; una persona, quasi sempre un uomo, che fa sesso con un’altra persona, quasi sempre una donna, senza desiderio reciproco. (…) Ho sempre sentito le sopravvissute, o donne ancora in prostituzione ma che vorrebbero uscirne, parlare di cosa è davvero il sesso che si fa. A differenza della lobby pro-prostituzione, i cui membri parlano di “sesso sicuro”, le donne che ho intervistato raccontano i dettagli. Parlano dell’odore tremendo dei compratori, del dolore di una vagina disidratata e ulcerata che viene penetrata da una molteplicità di uomini. L’orrore di avere lo sperma o altri fluidi corporali vicino alla faccia. La barba che sfrega sulla guancia fino a farla sanguinare, il collo dolorante a forza di girare la testa di colpo per allontanarla dalla lingua che cerca di baciarle. O di non riuscire a mangiare, a bere o a baciare i figli per via di quello che hanno dovuto fare con la bocca. Di come il braccio e il gomito fanno male per avere disperatamente cercato di farlo venire per non essere penetrata un’altra volta. (…) La sopravvissuta alla prostituzione Fiona Broadfoot racconta che “i compratori ti fanno sentire una merda quando hanno una bella camera d’albergo e possono comprarti. Tu sei la puttana schifosa e loro quelli con i soldi e il potere. Almeno in strada veniamo guardati tutti e due come schifezze, in un modo o nell’altro, da parte dei resi-denti e della polizia”.

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Prostitute al bando, l’Europa è divisa


di Maddalena Oculi (Il resto del Carlino, 5 marzo 2019)


– Il modello nordico che punisce i clienti e le vetrine del quartiere a luci rosse di Amsterdam

PROIBIRE o regolamentare? Da Stoccolma a Roma, sono diversi e spesso opposti i sistemi dei Paesi europei in tema di trattamento legale della prostituzione. Il cosiddetto “modello nordico” depenalizza l’adescamento e punisce invece i clienti. Dopo la Svezia, dove è entrato in vigore nel 1999, è stato adottato da Islanda, Norvegia e da poco tempo an-che in Francia. Il modello, di cui negli ultimi anni si discute molto tra le femministe e gli attivisti per i diritti umani, si fonda sul ragionamento che alla base della compravendita del corpo ci sia sempre una relazione diseguale tra uomo e donna. È PROMOSSO da un movimento globale di ex prostitute e sopravvissute alla tratta, che fa capo all’associazione Space International. Donne secondo cui la prostituzione non può essere considerato un lavoro scelto liberamente, come spiega la giornalista del Guardian, Julie Bindel, nel libro-inchiesta che sta presentando in questi giorni in Italia Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione. Al modello abolizionista svedese si contrappone quello regolamentarista, adottato in Paesi come Olanda, Germania, Austria, Svizzera, Grecia, Ungheria c Lettonia. Qui la prostituzione è regolamentata con modalità differenti, ad esempio con la statalizzazione dei bordelli e i quartieri a luci rosse.

IN OLANDA le case chiuse sono legali e le lavoratrici del sesso pagano regolar-mente le tasse. Ad Amsterdam, De Wallen è uno dei quartieri a luci rosse più famosi d’Europa e una delle maggiori attrazioni turistiche della città. Anche in Germania la prostituzione è legale e regolamentata: le ragazze possono esercitare nei bordelli (quasi sempre sono libere professioniste), in strada o casa loro. In Italia, da quando 61 anni fa è entrata in vigore la legge Merlin, i bordelli sono stati aboliti. La prostituzione non è illegale, ma lo sono il favoreggiamento, lo sfruttamento e l’organizzazione in luoghi chiusi. II commercio del sesso è al centro in ogni Paese europeo di accesi dibattiti. In Francia, quando nel 2016 è stata approvata una legge con cui veniva adottato il modello nordico, i lavoratori del sesso sono scesi in piazza a Parigi. In Italia non tutte le femministe la pensa-no allo stesso modo. Stalla riapertura del-le case chiuse la posizione dell’Udi, tra le più storiche delle associazioni femministe è netta: «La prostituzione di Stato è una schifezza inenarrabile, da sessant’anni non c’è legislatura in Italia che non abbia tentato di affossare la legge Merlin», spiega Vittoria Tola, della segreteria nazionale. MA sul tema delle sex workers, il discorso è più complesso e include il concetto di gestione libera del proprio corpo: «C’è una parte di associazioni più giovani— continua Tola— che sostiene il concetto di autodeterminazione, per cui la prostituzione può essere un lavoro come un altro, e quindi sostenendone la regolamentazione si evitano gli abusi». Sul modello svedese, poi, all’interno della stessa Udi ci sono visioni diverse: «C’è una parte di movimento — spiega —che sarebbe molto d’accordo di modificare la Merlin con la punizione del cliente, ma c’è una parte molto più consistente che pensa che toccarla sia un errore clamoroso. Non perché non ci piacerebbe che i clienti uscissero fuori da questa dimensione tutelata, ma temiamo non ci voglia molto ad alimentare la prostituzione clandestina, nei modi e nelle forme in cui viene gestita la tratta».

DIBATTITO APERTO Non tutte le associazioni femminili sono contrarie alla prostituzione


 

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Manifesti femminsti


di Pinella Leocata (La Sicilia, 5 marzo 2019)


– La riscoperta. Deborah Ardilli nel suo volume ricostruisce le lotte delle donne degli anni Sessanta e Settanta del ‘900, spesso dimenticate e sconosciute alle nuove generazioni, attraverso gli scritti politici e programmatici elaborati da gruppi e singole tra il 1964 e il 1977, partendo dalla consapevolezza che «la nostra inferiorità era oppressione»

Le nuove generazioni di donne hanno smarrito la memoria del femminismo radicale degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, un periodo dimenticato anche dall’editoria che lo ha raccontato in modo monologico, riduttivo, sebbene al suo interno abbiano convissuto anime ed esperienze diverse.
Soprattutto a loro, alle nuove generazioni, è rivolto il libro “Manifesti femministi” (Morellini editore) di Deborah Ardilli, studiosa di teoria politica e storia dei movimenti femministi, che ricostruisce la ricchezza e la varietà del femminismo radicale attraverso gli innumerevoli scritti politici e programmatici elaborati da gruppi e singole femministe tra il 1964 e il 1977.
ll femminismo radicale – scrive – non è una cosa, congelata in assiomi fuori dal tempo, ma una modalità storicamente (e geograficamente) situata di pensarsi. di agire e di pensare il proprio agire». E l’atto stesso di elaborare e pubblicare un manifesto è una pratica politica. Lo ha spiegato bene – nel corso della presentazione del saggio tenutasi nei giorni scorsi al centro antiviolenza Thamaia di Catania – Maria Grazia Nicolosi, docente di Letteratura inglese comparata e studi di genere nell’università etnea.
Il manifesto politico è un documento pubblico per definizione, vecchio quanto la storia del soggetto liberale-borghese, un atto retorico che ha avuto sempre una declinazione al maschile. Dunque per le donne scrivere manifesti, rendere pubblica la propria voce in un territorio maschile, era un atto di rottura, un inter¬vento politico, a prescindere dal contenuto, una scelta dirompente perché interpella e chiede di prendere posizione. Un atto divisivo».
E se della diversità, e rivalità, delle posizioni delle femministe si è persa la memoria, è anche perché le donne hanno difficoltà a gestire il “polemos”. A differenza degli uomini che sono addestrati alla competizione dialettica e legittimati a farlo. Invece le donne vivono lo scontrarsi tra loro come una cancellazione del proprio essere, come se litigando si dissolvessero.
“Manifesti femministi” vuole riportare alla luce tutta la ricchezza e la complessità delle pratiche politiche e delle riflessioni teoriche di quel periodo, anche lanciando un ponte al di qua e al di là dell’Atlantico per mettere in risalto la reciprocità del debito delle elaborazioni prodotte in Italia, Francia e Stati Uniti.

Perché, come sottolinea Deborah Ardilli, il movimento femminista è transnazionale e, a differenza di quanto si legge nei resti universitari, non procede per ondate omogenee. Ne consegue che gli anni ’60 e ’70 sono quelli della radicalità, della valorizzazione di una specificità sessuata (essenzialismo): gli anni ’80 quelli della politica della differenza, basata sull’affidamento: e i ’90 quelli in cui in nome della micropolitica del quotidiano si smarriscono i riferimenti al potere politico.
I testi dei manifesti femministi ci riconsegnano una realtà storica più complessa e varia: dalle riflessioni delle attiviste americane dei movimenti per i diritti civili sulla doppia subordinazione di genere e di razza, alla centralità e diversità dei gruppi di autocoscienza, esperienza in seguito svilita come se fosse stato un modo di indulgere ad una dimensione privata, mentre quel privato aveva urta grande valenza politica.
E ancora. Gli scritti programmatici restituiscono gli argomenti diversi con cui è stata giustificata la scelta separatista, le analisi sulla complicità delle donne alla propria subordinazione, le spiegazioni diverse e contrastanti sui motivi del per¬durare del potere patriarcale, le differenti posizioni critiche rispetto al modello di emancipazione femminile, la politicizzazione del lesbismo all’interno del movimento, le diverse interpretazioni sulle origini del patriarcato, e le riflessioni sul modo in cui il conflitto tra classi di sesso s’interseca con quello servo-padrone.
Tutte questioni aperte ancora oggi e che continuano ad interpellarci.
Per questo nel saggio di Deborah Ardilli non si ritrova alcun trionfalismo, non si sostiene che il femminismo è l’unica rivoluzione riuscita del Novecento, ma viene messo in evidenza lo scarto tra gli obiettivi del movimento e ciò che si è riuscito a fare.
E questo a partire da una consapevolezza di fondo di cui noi donne sono debitrici a Carla Lonzi: la scoperta che ala nostra inferiorità era oppressione.. Una coscienza difficile da acquisire e da porre al centro del confronto perché, soprattutto nell’attuale contesto storico, «si teme che dirsi oppresse equivale a dirsi vittime, a condannarsi ad una passività senza riscatto».
Invece, ricorda Ardilli, per le generazioni del femminismo radicale «questo aut aut non esisteva e la coscienza dell’oppressione corrispondeva alla propria soggettivazione, punto di partenza del lavoro di autocostruzione».


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Prostituzione e legge Merlin, così la battaglia di Julie Bindel e delle donne smaschera il mito Pretty Woman


di Donatella Trotta (Il Mattino, 4 marzo 2019)


– Il mito Pretty Woman

Il mito e la realtà. L’immaginario (di parte) e le verità delle dinamiche economicistiche. L’edulcorazione fiabesca dello star system – incarnata al cinema dal sorriso di Julia Roberts, prostituta “salvata” da Richard Gere o, nella musica, dall’idealizzazione romantica delle ballate di De André sulle tante Bocca di Rosa – e l’amaro orrore quotidiano della mercificazione concreta, cinica e spietata di corpi bambini, adolescenti, adulti (in prevalenza, ma non solo, femminili) con la sua scia di abusi, dolore, sopraffazioni, sfruttamento e violenza. Sono infinite le trappole ideologiche e le ambiguità semantiche nascoste nell’uso di parole che rischiano – è il caso di dire – di far prendere “lucciole” per “lanterne”. Tipo: il “sesso a pagamento”, che un eufemismo inglese sintetizza come sex work, è davvero un “lavoro”, che necessita di “albo” – e magari di sindacati – per “regolamentarlo”, come sta ad esempio proponendo un progetto di legge di iniziativa statale in discussione al Consiglio regionale del Veneto, dopo la proposta leghista di riaprire le case chiuse? O non è piuttosto – sempre, comunque, dovunque – uno stupro, più o meno autorizzato e/o tollerato dallo Stato, che i fautori della liberalizzazione e legalizzazione della prostituzione annoverano con disinvoltura (come l’invisibilità sociale delle protagoniste, fino alla morte fisica) tra i “rischi del mestiere” più antico del mondo, magari criminalizzando solo le vittime e decriminalizzando i loro sfruttatori e clienti?

La questione è ben complessa. E mentre in Francia la lotta contro l’abuso sulle donne, rilanciata dal movimento mondiale #metoo, ha appena incassato da parte del Consiglio Costituzionale l’ammissione di costituzionalità della legge emanata nel 2016 che introduceva la criminalizzazione dell’acquisto di sesso, messa in discussione, forse converrebbe tener conto di questi distinguo anche da noi, in vista del 5 marzo: quando in Italia la Consulta dovrà pronunciarsi sulla costituzionalità della legge 20 febbraio 1958, n. 75 sull’abolizione della regolamentazione della prostituzione, più nota come legge Merlin – fortemente voluta dalla partigiana, insegnante e senatrice socialista alla quale si deve l’iniziativa di liberazione delle schiave del sesso nei casini – e non a caso difesa con altrettanta forza, oggi, da molti movimenti femministi e associazioni, con l’hashtag #iosonoLinaMerlin. Ma basterebbe solo leggere le struggenti, toccanti lettere che le donne rinchiuse nelle case di tolleranza inviavano alla Merlin, raccolte dalla Fondazione Kuliscioff e di recente ripubblicate da Giunti (Cara senatrice Merlin… Lettere dalle case chiuse. Ragioni e sfide di una legge attuale) per farsi un’idea concreta – non soltanto storica – del problema. Ben oltre la contrapposizione manichea tra orgoglio sgualdrinesco e “puttanofobia”, o tra sedicente “libertà di autodeterminazione” sessuale – esibiti ad esempio dal manifesto (e dall’Associazione) «Les Putes», lanciato in Francia nel 2007 da Maitresse Nikita e Thierry Schaffauser con il libro Fiere di essere puttane (DeriveApprodi), con tanto di “Putes Pride” promosso ogni 18 marzo – e femminismo antagonista radicale, dopo l’attivismo socio-sanitario, sindacale ed editoriale, capeggiato, nell’Italia degli anni ’80, dall’ex prostituta Carla Corso (coautrice con Sandra Landi di Ritratto a tinte forti, Giunti) con Pia Covre.

Che il dibattito sul tema sia diventato oggi tra i più incandescenti non solo in Italia, ma a livello mondiale, lo sa (e lo documenta) molto bene Julie Bindel, classe 1962, celebre giornalista d’inchiesta (per The Guardian, NewStatesman, Bbc e Sky News) e scrittrice britannica, attivista politica di fama internazionale, fondatrice dell’associazione “Justice for Women” e autrice di un corposo volume-indagine sul commercio globale del sesso da poco nelle librerie italiane: Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione(tradotto da Resistenza Femminista per VandaEpublishing e Morellini editore nella collana VanderWomen, pp. 310, euro 17,90). L’autrice ne parlerà oggi a Napoli (in un incontro dal titolo «Prostituzione. Quale libertà?» a Santa Maria La Nova, ore 17: con lei anche Rachel Moran, autrice di Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione, edito da RoundRobin), domani a Roma (ore 17, Casa delle Letteratura, piazza dell’Orologio 3), poi a Milano (il 6 marzo, presso la Fondazione Feltrinelli, ore 18.30, con una Lectio Magistralis su «Sex work: è un lavoro?», promossa in occasione della Giornata internazionale della Donna e nell’ambito delle attività legate al libro e alla lettura BookLab), a Torino (7 marzo, ore 10, Campus Luigi Einaudi, Lungo Dora Siena 100), a Rimini (8 marzo, ore 15, Teatro degli Atti, via Cairoli 32) e nuovamente a Milano (9 marzo, ore 18, nella Libreria delle Donne, via Calvi 29).
Impegnata da decenni su temi come il fondamentalismo religioso, le patologie del patriarcato, la violenza contro le donne, le disuguaglianze di genere, la maternità surrogata, il commercio di mogli ordinate su catalogo, la tratta di esseri umani e i delitti insoluti, Bindel sfodera in questo libro – che rappresenta la prima più completa e sinora unica inchiesta globale sulla prostituzione – le armi del migliore giornalismo investigativo anglosassone: fatto di tenace ricerca e meticolosa verifica delle fonti, paziente raccolta di dati, cifre e testimonianze e di ascolto, osservazione, analisi oggettive e riflessioni personali. Sono centinaia le interviste raccolte da Bindel in un approfondito, appassionato quanto sofferto lavoro sul campo, viaggiando in oltre due anni per le strade e dentro i bordelli legali di 40 paesi, città e stati fra Europa, Asia, Nordamerica, Australia, Nuova Zelanda e Africa, di cui viene delineata una mappa anche legislativa comparativa aggiornata.

L’autrice ha incontrato e dialogato con sopravvissute alla prostituzione e papponi, femministe abolizioniste (la cui storia, spiega, inizia con il coraggio di Josephine Butler nel 1860) e attivisti “pro-sex work” (spesso insospettabili, come Amnesty International), accademici “queer” inclini al politicamente corretto persino nella manipolazione dei “diritti sessuali” dei disabili, poliziotti e uomini di governo, oltre che clienti che vanno abitualmente a puttane, e pornografi. Nel libro, Bindel ricostruisce così sigle, movimenti e motivazioni di opposti schieramenti (come il gruppo Whisper, “Donne che hanno subito violenza nel sistema prostituente in rivolta”, nato negli anni ’80, o Space international, che con donne di tutto il mondo sta dicendo dal 2012 che la prostituzione è violenza) smascherandone bugie e ambiguità (come nel gruppo Coyote, “Basta con la vostra vecchia morale”, che si spaccia per “la voce delle prostitute” ma mistifica messaggi liberisti, come il mito della “puttana felice” per scelta, e interessi ben poco limpidi (tra i finanziatori aveva la rivista Playboy, ma non solo).

«Per decenni – sottolinea l’autrice – la sinistra liberale ha oscillato  fra il pro-sex work e l’abolizionismo. Ma oggi le donne che hanno vissuto la violenza della prostituzione hanno preso la parola contro la favola di Pretty Woman, dando vita a un movimento globale che sta portando avanti una battaglia a favore del Modello nordico, introdotto in Svezia con una legge del 1999 che criminalizza chi acquista sesso e decriminalizza chi vende il proprio corpo, rendendo così  visibile la responsabilità degli uomini nel mantenimento di un sistema di controllo e di oppressione della libertà delle donne: l’unico modello legislativo che protegge davvero i diritti umani delle persone prostituite». Il vento, insomma, sta cambiando, sottolinea la Bindel elencando gli Stati che hanno adottato il Modello nordico (Svezia, Norvegia, Islanda, Irlanda del Nord, Irlanda e Francia) e accumulando e mostrando le prove del fallimento degli esperimenti di regolamentazione del commercio del sesso, dall’Olanda alla Germania (dove come è noto si è arrivati alla deriva etica dei bordelli con prostitute di silicone, anche incinte, su cui esercitare ogni tipo di violenza e tortura: aberrazione inaugurata a Dortmund nel 2017 e replicata, tra le polemiche, da altri Paesi, dalla Francia a Torino, Italia) fino al falso modello Nuova Zelanda, dove il tentativo di “normalizzazione” si è rivelato, sottolinea Bindel, «una licenza per trafficanti, sfruttatori e compratori di sesso di fare ciò che desiderano», a danno delle donne. Una battaglia però – aggiunge la Bindel – «che ha come maggiore antagonista la potente e ben finanziata lobby pro-prostituzione, costituita principalmente da proprietari di bordello, agenzie di escort e compratori di sesso, il cui intento è ridurre la prostituzione a un lavoro come un altro, necessario, innocuo e persino inevitabile, occultando la violenza subita dalla donna e trasformando gli sfruttatori in imprenditori, allo scopo di decriminalizzare l’industria del sesso e proteggere il diritto dei soli compratori ad abusare dei corpi delle donne».

Una battaglia persa? Un’utopia doncisciottesca? Tutt’altro: per Bindel, «una buona analogia per non mollare è quella con la lotta contro l’industria del tabacco, costellata di campagne di sensibilizzazione, pressione sulle lobbies del tabacco, class action e sanzioni normative che nel tempo hanno ridotto di molto i danni del fumo». La prostituzione, è la tesi portata avanti dal suo libro-inchiesta, va insomma radicalmente debellata in quanto violenza contro le donne e le bambine, che un’industria mondiale condanna a milioni alla morte sociale (ma spesso, letteralmente, alla morte) solo per il piacere sessuale e il profitto maschile. E in barba alla dittatura del “politicamente corretto”, il movimento abolizionista sostenuto da attiviste come la Bindel, o la Moran, sta facendo sentire sempre più forte la sua voce in difesa delle sopravvissute (termine emblematico, ben oltre la tragedia della tratta) al sesso a pagamento: rifiutando le menzogne, i miti e le collusioni annidate dietro ogni tentativo di edulcorazione e legalizzazione dell’industria del sesso, con i suoi profitti criminali derivanti dalla compravendita dei corpi delle donne. Lo ribadisce, nella prefazione all’edizione italiana del libro di BIndel curata da Ilaria Baldini, Chiara Carpita e Ilaria Maccaroni, anche Resistenza Femminista, schierandosi apertamente in difesa della legge Merlin e dell’impegno coraggioso di attiviste che hanno guardato in faccia la realtà del commercio mondiale del sesso, oltre “il mito Pretty Woman”.

E con la consueta lucidità, lo ricorda infine la filosofa Luisa Muraro, collegando la spirale della violenza sulle donne e le dinamiche inique dei rapporti di potere a questo antico e irrisolto problema: «Secoli di complicità tra uomini, di assoggettamento delle donne, di moralismo ingiusto, di cattiva letteratura e di assuefazione hanno portato la società – scrive Muraro in libreriadelledonne.it) a non rendersi conto che la ferita inflitta all’umanità con la pratica della prostituzione non è più accettabile. E non lo è mai stata. Non ci sono regole che tengano. Così come è accaduto per i ricatti sessuali sul posto di lavoro da parte di quelli che hanno più potere, verrà il momento – ed è questo – in cui la non eliminabile vergogna della prostituzione, sempre rigettata sulle donne, tornerà alla sua vera causa, che è una concezione maschile degradata del desiderio e della corporeità». La tutela dei diritti umani e delle pari opportunità passa anche e soprattutto da questo: se non ora, quando?


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Julie Bindel “Vi racconto il mio viaggio nel terrore della prostituzione”


di Annarita Briganti (La Repubblica, 3 marzo 2019)


– Intervista

La letteratura che racconta la realtà, la rivincita della non-fiction, il ritorno dell’impegno, che si tratti di un graphic novel che raccoglie le storie dei migranti salvati in mare o, come in questo caso, di un saggio-reportage sulla prostituzione, mentre in Italia sta per riesplodere il dibattito. La giornalista inglese Julie Bindel (Guardian), attivista femminista, arriva a Milano mercoledì, dopo la decisione della Consulta, prevista per martedì, sull’eventuale incostituzionalità della legge Merlin, il che potrebbe portare alla riapertura delle case chiuse. Un tema delicato e controverso, che divide le femministe stesse, al centro del libro di Bindel, Il mito Pretty Woman, pubblicato dalle case editrici milanesi Morellini e VandA.ePublishing, che l’autrice presenterà sabato alla Libreria delle donne.

Qual è il senso di questa inchiesta contro la “lobby dell’industria del sesso”?
«Volevo sfatare il mito, che Hollywood ha contribuito a diffondere, della prostituta felice. Ho viaggiato per tre anni, raccogliendo 250 interviste in 40 Paesi. Ho parlato con protettori, proprietari di case di tolleranza, client, consumatori di porno, forze dell’ordine, donne che si vendono in strada, negli appartamenti, nei centri massaggi e sopravvissute a tutto questo. Attraverso le loro voci, e grazie a quello che ho imparato sul campo, ho cercato di svelare il vero volto del commercio mondiale del sesso».

Quali sono le storie che I’hanno colpita di più?

«Quelle delle ex prostitute, le uniche che dicono la verità. Una 65enne mi ha raccontato che a 14 anni e scappata di casa. Pensava di fare una ragazzata, di stare via un paio di giorni. Poi ha conosciuto un uomo che faceva quello gentile, quello che ascolta la tua triste storia. In realtà, questo pseudo amico ha portato la ragazza da un altro uomo e l’ha venduta a lui. Quest’ultimo l’ha picchiata fino quasi ad ammazzarla quando ha tentato di fuggire. La donna ci avrebbe messo molto tempo a liberarsi di quella schiavitù.

Lei ci parla anche di un pericolo attuale come la prostituzione sul web.

«Il sesso via webcam è un business da un miliardo di dollari all’anno, un quinto del porno, con lo stesso rischio di normalizzazione, ed è sempre più diffuso tra i giovani, magari per pagarsi gli studi, come mi ha raccontato un’altra intervistata. Questa giovane donna ha fatto “webcamming” per dodici mesi, mentre finiva di studiare. Un suo amico fotografo le aveva detto che con’ora online avrebbe guadagnato quanto una settimana in un bar. Pensava di farcela, credeva che sarebbe stato facile senza un contatto con il cliente, ma poi ha iniziato a soffrire di insonnia e a stare male».

Cosa dirà nei suoi due incontri milanesi, quando la Corte Costituzionale si sarà già espressa sull’argomento?

«Se avessi un dollaro per tutte le volte in cui ho sentito dire che la prostituzione e il mestiere più antico del mondo, che c’è sempre stata e sempre ci sarà, le organizzazioni femministe non sarebbero così a corto di fondi. E come affermare che la povertà non è una novità quindi costruiamo più case fatiscenti per i poveri. O che il problema post #metoo è il femminismo e non il privilegio maschile. A Milano parlerò dei disastri della legalizzazione».

La letteratura deve essere politica?

«I libri sono fondamentali per dare un senso ai movimenti politici e al contesto nel quale si sviluppano. Quando si scrive un reportage secondo me bisogna parlare con quante più persone possibili, andare ovunque e avere uno scopo. Scrivo per fare finire la violenza contro le donne».


 

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«In fin dei conti sei arrapato…». Voci (maschili) dai bordelli legalizzati


(La 27esima ora, 3 marzo 2019)


– Pretty Woman un mito da sfatare

Il 1 febbraio la Francia, dopo 6 anni di indagini e dibattiti, ha sancito la costituzionalità della legge del 13 aprile 2016, approvata da una maggioranza trasversale in Parlamento, che ha introdotto la criminalizzazione dell’acquisto di sesso, ha decriminalizzato le persone prostituite e ha creato programmi di uscita, politiche di protezione e sostegno per le vittime di prostituzione, sfruttamento sessuale, induzione alla prostituzione e tratta. In Italia torna ciclicamente la discussione intorno alla legge Merlin, sulla opportunità di riaprire le case chiuse e legalizzare la prostituzione. Il 5 marzo la Corte Costituzionale terrà una pubblica udienza sulla legittimità della legge nella parte che riguarda il favoreggiamento e il reclutamento della prostituzione, legata al processo Tarantini. E intanto, a inizio febbraio, è stato presentata un disegno di legge che mira a istituire in ogni comune un albo professionale delle prostitute, garantendo il rispetto del diritto alla riservatezza delle interessate.

Julie Bindel«Ilmito di Pretty woman . Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione»VandA | Morellini 17.90 euro
Julie Bindel«Ilmito di Pretty woman . Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione»VandA | Morellini 17.90 euro

In attesa che la Consulta si pronunci sulla costituzionalità della legge Merlin, fortemente difesa da molte associazioni femministe al grido di #IosonoLinaMerlin pubblichiamo alcuni estratti del libro-inchiesta della giornalista inglese Julie Bindel, scrittrice e militante politica. Titolo: Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione, pubblicato in Italia da VandA.ePublishing con Morellini editore, è la prima indagine globale sulla prostituzione, con dati e testimonianze raccolti in 40 paesi, città e stati fra Europa, Asia, Nordamerica, Australia, Nuova Zelanda e Africa. Julie Bindel è il 6 marzo a Milano dove tiene una lectio magistralis, alla 18.30 in Fondazione Giangiacomo.
A seguire un selezione di pagine dal volume

Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione

La lobby pro-prostituzione raramente parla della prostituzione tradizionale, quella in cui un uomo dà dei soldi a una donna per accedere all’interno del suo corpo allo scopo di ottenere un piacere unilaterale. E non parla neppure del sesso che concretamente viene messo in atto. Ho sempre sentito le sopravvissute, o donne ancora in prostituzione ma che vorrebbero uscirne, parlare di cosa è davvero il sesso che si fa. A differenza della lobby pro-prostituzione, i cui membri parlano di “sesso sicuro”, le donne che ho intervistato raccontano i dettagli. Parlano dell’odore tremendo dei compratori, del dolore di una vagina disidratata e ulcerata che viene penetrata da una molteplicità di uomini. L’orrore di avere lo sperma o altri fluidi corporali vicino alla faccia. La barba che sfrega sulla guancia fino a farla sanguinare, il collo dolorante a forza di girare la testa di colpo per allontanarla dalla lingua che cerca di baciarle. O di non riuscire a mangiare, a bere o a baciare i figli per via di quello che hanno dovuto fare con la bocca. Di come il braccio e il gomito fanno male per avere disperatamente cercato di farlo venire per non essere penetrata un’altra volta. In seguito alla conferenza di Brighton del 1996, quando ho sentito le sopravvissute parlare di cosa davvero succede nella prostituzione, e dato che conoscevo nei dettagli gli abusi subiti da Emma Humphreys durante gli anni passati nel mercato del sesso, ho cominciato a chiedere alle cosiddette attiviste per i “diritti delle sex worker” che si esprimevano con tanta convinzione di descrivermi esattamente cosa facevano per vivere. Tutte, senza eccezione, sollevavano obiezioni a questa domanda, nonostante insistessero che si trattasse semplicemente di un lavoro come un altro ( Cap 3 pp. 91)

Divieto di sorridere

Dennis Hof, un personaggio che abbiamo già incontrato, è un pappone popolare che si vede spesso in tv nella serie Cathouse, un programma di propaganda per il mercato legale del sesso. È proprietario del Love Ranch nella contea di Nye e del famoso Moonlite Bunny Ranch, poche miglia a sud di Carson City, nel Nevada, e di altre attività legate alla commercializzazione del sesso. Hof dichiara di essere un attivista impegnatissimo contro la tratta. A sentire lui, non c’è stupro né tratta né Hiv né alcuna forma di attività illecita nei bordelli che operano in regime di regolamentazione. Nei suoi bordelli le donne hanno il divieto di sorridere, giocherellare con i capelli o dare l’impressione di “spingere” la vendita delle loro prestazioni, perché si tratterebbe di competizione sleale.

I compratori di sesso sono uomini dall’aspetto ordinario, di tutte le età e in generale sufficientemente presentabili da poter rimorchiare una donna in un qualunque bar. Hof sostiene che legalizzare i bordelli serva a prevenire la diffusione dell’industria illegale. Sta di fatto che i bordelli illegali stanno aumentando in Nevada, come del resto in ogni parte del mondo in cui sono stati regolamentati. L’industria della prostituzione illegale, secondo indagini del governo statunitense, è, in questo stato, già nove volte maggiore di quella dei bordelli legali.

Il bordello Love Ranch di Hof è a un’ora d’auto da Las Vegas. La costruzione è circondata da un muro molto alto sormontato da filo spinato. Parlo con diverse donne, la maggior parte delle quali vive nel bordello per settimane e a volte per mesi senza interruzione, spesso senza vedere un cliente per giorni. Lance Gilman è un agente immobiliare miliardario proprietario di due bordelli, tra cui il Mustang Ranch, a proposito del quale dice con orgoglio che s’ispira al modello di una prigione. Mi dice anche di avere l’abitudine di riferirsi alle donne che vi lavorano chiamandole “le detenute”. I bordelli vengono gestiti dalla sua partner, Susan Austin. “Appena legalizzi, si scatenano i predatori”, afferma Gilman. “Bisogna stabilire delle regole. Abbiamo una scuderia di mille donne. Se Susan non gestisse questo posto con il pugno di ferro, finiremmo presto per perdere il controllo.”

Come succede nella maggior parte degli altri bordelli, le donne non possono uscire senza il permesso del gestore e, quando lo fanno, sono accompagnate da un assistente sfruttatore. Gli sfruttatori legali non sono contrari alla vendita di donne con disabilità mentali. Al Mustang Ranch ho potuto parlare brevemente con Sindy, anche se Austin non mi aveva dato il permesso di intervistarla. Austin me l’ha descritta come “una bambina di 9 anni intrappolata in un corpo di adulta”. A quanto mi ha raccontato, Sindy era cresciuta in una famiglia affidataria ed era stata venduta al bordello dal padre del suo ragazzo mentre questi era in prigione, con una condanna a dieci anni per detenzione di immagini di violenze su minorenni.

Sindy, che aveva 22 anni al momento del nostro incontro, era stata insieme a quel ragazzo da quando ne aveva 12. Austin aveva assunto il controllo della gestione dei suoi guadagni e affermava che lei “si rifiutava” di mandare gli assegni al padre del ragazzo. Molte donne nei bordelli legali hanno due sfruttatori: il gestore manda i guadagni della donna prostituita direttamente alla persona che l’ha consegnata al bordello. Racconta Austin: “Ho chiamato le ragazze in riunione e gli ho detto: stiamo tirando su una bambina che non crescerà mai. Quando Sindy si diverte [cioè rende servizi sessuali a un compratore], una delle ragazze si siede nel bagno della stanza accanto, per assicurarsi che l’uomo non se ne approfitti quando si rende conto di chi ha per le mani”.

Chiedo perché, data la disabilità e la vulnerabilità di Sindy, non si faccia alcun problema a prostituirla. Austin mi dice di avere stretto un patto con le altre donne, che hanno accettato di badare a lei, “atrimenti finirebbe sulle strade della Florida”. Pare che non ci sia alcuna legge in Nevada contro la prostituzione di donne con disabilità mentali, e perché mai dovrebbe esserci? Dopo tutto, con la regolamentazione è diventato un lavoro come un altro. ( Cap. 4 pp. 127/128 )

Voci dai bordelli

Cosa dicono gli uomini
“Pago per il sesso perché posso. Portare una donna fuori a cena mi costa soldi, e allora perché no? Perché è una mia necessità e così lei può dare da mangiare ai suoi figli. (Un uomo che paga per il sesso, Amsterdam) (Cap 5 p. 168)
In quanto femminista radicale, vengo spesso accusata di sostenere che “tutti gli uomini sono potenziali stupratori”. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità: le femministe radicali non pensano che i bambini nascano programmati per compiere atti di violenza contro le donne, come non credono che le bambine nascano per diventare vittime. Ciò che noi crediamo è che nel patriarcato agli uomini si attribuisca potere sulle donne e che un modo per esercitare quel potere sia essere violenti verso le donne. Per usare le parole di uno dei compratori di sesso incontrati a Londra: “Se non mi fosse possibile fare sesso con una prostituta e fossi frustrato, potrebbe capitarmi di uscire e assalire una donna vera”. La “donna vera” a cui l’uomo si riferiva è una donna non prostituita. (Cap. pp. 174)

Di seguito alcuni commenti espressi dagli uomini intervistati a Londra. Non ho scelto volutamente i peggiori, li ho semplicemente organizzati per categorie, in modo da mostrare la gamma di atteggiamenti problematici sviluppati dagli uomini che considerano il sesso con le donne un bene di consumo.
Donne prostituite come prodotti
• “Mi sono fatto una lista mentale. Mi sono detto che andrò con razze diverse, per esempio giapponesi, indiane, cinesi… Una volta che ci sarò stato, metterò un segno di spunta. È un po’ come la lista della spesa.”
• “Puoi scegliere, come su un catalogo.”
• “Selezionare e comprare ha qualcosa a che vedere con il dominio e il controllo.”
• “È come andare a bere qualcosa. Non fai niente di illegale.”
• “Le prostitute sono migliorate negli anni. Sono più giovani adesso, più belle e più pulite.”

La prostituzione ha a che vedere con una necessità incontrollabile degli uomini
• “Non vorrei vederla abolita. È un servizio che uso.”
• “È un intrattenimento garantito. Ti godi le cose specifiche che ti piacciono. Puoi svuotarti le palle e sentirti completamente soddisfatto.”
• Compratore di sesso di Londra: “Se non mi fosse possibile fare sesso con una prostituta e fossi frustrato, potrebbe capitarmi di uscire e assalire una donna vera”.

Cosa dicono delle donne
• “Una prostituta è come la valvola di una pentola a pressione.”
• “Paghi per la comodità, un po’ come per i gabinetti pubblici.”
• “È solo un lavoro, perché dovrebbero pensare diversamente? Non hanno sensi di colpa. All’inizio provano delle emozioni, ma poi diventa una routine, dopo un po’ certe emozioni spariscono.”
• “Sono ragazze che nessun altro vuole sposare, dunque fanno sesso come lavoro. Nessuno vuole che la propria moglie sia una prostituta.”
• “Uso quelle che ho addestrato io stesso.”

Normalizzazione/atteggiamento pro-legalizzazione
• “In fin dei conti, sei arrapato, stanco di masturbarti, dunque cos’altro puoi fare?”
• “È come farsi un bel pranzetto.”
• “Sono stato anni senza una compagna fissa: per me ha significato non dover entrare in un mondo che non mi voleva. Quando penso alla benzina e alle scarpe dei bambini che ho permesso di comprare… Non dico che sono esattamente un filantropo, ma certo ho fatto la differenza.”
• “Forse se gli uomini potessero averla [la prostituzione] come servizio sanitario pubblico se sono disabili, questo potrebbe prevenire gli stupri.”

Deterrente/ambivalenza
• A proposito della sua peggiore esperienza di sesso a pagamento: “Ragazza con un gran brutto carattere, barriera linguistica [era del Sud-est asiatico], era obbligata a farlo, era meccanica, fare sesso con lei è stato frustrante. Cose così ti lasciano il senso di aver sprecato denaro. È in questi casi che ti senti in colpa.”
• “Hanno scelto di fare quello che fanno per guadagnare e devono accettare quel che viene: il buono, il cattivo, il brutto.”
• “A proposito dell’assassino seriale di Ipswich: “Provo una sorta di compassione per i parenti delle prostitute uccise. Ma se giochi a un certo gioco devi accettarne le conseguenze. La penso davvero così.”

Misoginia
• “Ha solo a che fare con quel momento di piacere. Che lei mi piacesse non era rilevante per l’esperienza.”
• “Io raggiungo la soddisfazione sessuale in cambio dei miei soldi. Se lei non la raggiunge, a me non importa.”
• “Se lei non piange ma dice ‘no’, io continuo. Mi fermo solo se si mette a piangere sul serio.”
• “Chiamiamo due ragazze e facciamo a gara per vedere chi di noi è il migliore. Chiediamo alle ragazze di darci un voto per la nostra prestazione sessuale, ce le facciamo individualmente e poi ce le scambiamo, e alla fine vediamo chi ha preso il punteggio più alto.”
• “Sono un male necessario.”
• “Provo rabbia nei miei confronti per dover andare e spendere soldi, e verso mia moglie perché mi ci fa andare.” (Parole di un utilizzatore che si definisce “dipendente da sesso” e la cui moglie non vuole fare sesso quanto lui.)
• “Ho visto papponi con le prostitute che urlavano. Ho visto ragazze venire trascinate dentro gli appartamenti. Voglio che le persone con cui ho a che fare non siano coinvolte in affari sordidi.”
• “Se vai da quella sbagliata, è come andare all’obitorio, ti trovi davanti solo un pezzo di carne.”

La prostituzione fa diminuire gli stupri e la violenza sessuale
• “La prostituzione non dovrebbe essere abolita. Previene gli stupri e dovrebbe essere regolamentata.”
• “Se le donne sapessero soddisfare completamente mariti e fidanzati gli uomini non andrebbero con le prostitute.”

Tutte le relazioni sono forme di prostituzione
• “Non c’è bisogno di abolire la prostituzione. Ogni donna è una prostituta. Prima di andare a letto con una donna la porti fuori a cena e a bere, prima che venga a letto con te devi comprarle dei regali. Quindi per farci del sesso alla fine devi spendere soldi per lei.”
• “Effettivamente è più economico andare a prostitute che con una donna normale.”
• “È semplicemente sesso a pagamento. Vai da una donna che è molto provocante, mentre una donna normale non lo è mai quanto una prostituta. Sarebbe sbagliato.”
• “Le donne vogliono fare quel lavoro e gli uomini vogliono comprarle, ognuno ha il suo ruolo.” (Cap. 5, pp. 174-177 )

Mercato libero?

Ho incontrato Nicky ad Auckland, in Nuova Zelanda, nel 2016. Le ho chiesto se i compratori fossero diventati meno violenti dopo la decriminalizzazione: No. Di recente sono stata stuprata con una bottiglia. Non mi era mai capitato prima. Mi hanno infilato dentro una bottiglia e l’hanno rotta. Il giorno dopo mi sono trovata a raccontarlo all’Esercito della Salvezza. Poi ho telefonato a un’amica e le ho detto: “Sono stata stuprata”. Ho cominciato a piangere: adesso un poliziotto mi chiederà: “Quanto era grande la bottiglia? Di che colore era?”. Non importa di che colore era la bottiglia… era una bottiglia ed era dentro di me. Sono stata minacciata, mi hanno detto di andarmene dalla strada. Portavo sempre con me un’arma, infilata dentro un cappotto nero lungo. Poi ho comprato una pistola giocattolo che sembrava vera. Poi ho pensato, no, perché i maiali avranno la meglio, che sia una pistola di plastica oppure no. Poi mi sono messa un cacciavite nel reggiseno, e ora è diventato semplicemente: chi se ne fotte. Sabrinna Valisce, che è stata prostituita in Australia e in Nuova Zelanda sia prima sia dopo la regolamentazione e decriminalizzazione, mi dice che, contrariamente alle promesse della lobby pro-prostituzione, la violenza dei compratori di sesso è aumentata in Nuova Zelanda dopo il cambio legislativo nel 2003. Dice Sabrinna: “

Nel 2003 la violenza da parte della polizia è finita da un giorno all’altro con la decriminalizzazione, dunque da questo punto di vista è stato un bene, ma i clienti… nello spazio di un anno i compratori sono diventati più violenti e le loro aspettative sono aumentate. Pensavano di poter fare tutto quello che volevano, pensavano di avere comprato il tuo corpo. Non mi era mai capitato che uno mi dicesse: ‘Ho pagato per il tuo corpo e posso fare quello che mi pare’ prima della decriminalizzazione.” Nel mercato del sesso spesso le bambine subiscono violenze che cambiano la loro vita. Gli uomini che comprano sesso potrebbero faticare non poco a illudersi di pensare che una ragazzina o un ragazzino che se ne sta in piedi a un angolo di strada in cerca di “affari” stia compiendo una qualche forma di scelta, o che si tratta di qualcosa che lei o lui è felice di fare. Di tutte le donne con cui ho parlato che sono state prostituite da bambine, solo una sopravvissuta mi ha detto che una volta un compratore, rendendosi conto che era al di sotto dell’età del consenso (16 anni, nel suo paese), l’aveva risparmiata.

Ne’cole Daniels aveva 15 anni ed era stata messa sulla strada da un amico di famiglia. Mi racconta un episodio di violenza che su di lei ha avuto un effetto profondo: Si accosta un uomo in una bella macchina, ha l’aria di avere soldi. Dunque salgo e quando arriviamo a casa ce ne sono altri tre. Erano tutti neri [Daniels è afro-americana]. Si sono approfittati di me. Non importava che io fossi come una bambina di due anni. Hanno violato tutto il mio corpo. Sono stata sodomizzata. Mi sentivo male e lui cercava di infilarmi il pene in bocca. Io pensavo solo: “Dio, fa’ in fretta, prometto che non lo farò più, basta che facciano presto e finisca, che possa andarmene da qui.” Sono stata trattata peggio di un animale. Mentre ero ad Auckland ho incontrato Lisa, che se ne stava in strada in attesa di un compratore, seduta accanto al suo deambulatore. Aveva circa 50 anni ed era diventata disabile in seguito a una vita nella prostituzione. Le ho chiesto se la sua vita era migliorata dopo la decriminalizzazione, mi ha risposto di no perché, nella sua esperienza, gli uomini che la pagano si sentono in diritto di fare tutto quello che vogliono, come comprassero un hamburger. “L’unico vero aiuto per me sarebbe una via d’uscita” ha detto. (Cap. 5 pp. 184-185)

Julie in Italia

Napoli – lunedì 4 marzo, ore 17 Sala Consiliare della Città Metropolitana, via Santa Maria la Nova 44
Roma – martedì 5 marzo, ore 17 Casa delle Letterature, Piazza dell’Orologio 3
Milano – mercoledì 6 marzo, ore 18.30 LECTIO MAGISTRALIS: Sex work. È un lavoro? Fondazione Feltrinelli, viale Pasubio 5 nell’ambito delle iniziative di BookLab e in avvicinamento all’Otto marzo, con un percorso di riflessione su donne, diritti, disuguaglianze di genere, attivismo e inchieste che culmina il giorno successivo con l’incontro We, Women, Storie dal mondo al femminile.
Torino – giovedì 7 marzo, ore 10 Campus Luigi Einaudi, Lungo Dora Siena 100
Rimini – venerdì 8 marzo, ore 15 Teatro degli Atti, via Cairoli 32
Milano – sabato 9 marzo, ore 18 Libreria delle Donne, via Calvi 29

Julie Bindel e l’inchiesta contro la favola di Pretty Woman
Julie Bindel, militante, giornalista, fondatrice dell’associazione Justice for Women
Julie Bindel, militante, giornalista, fondatrice dell’associazione Justice for Women

Le interviste raccolte ne Il mito Pretty Woman rivelano le bugie di una mitologia tesa a truccare gli interessi di un’attività criminale fra le più redditizie a livello globale. Come evidenzia Julie Bindel, il commercio sessuale risulta ormai comunemente accettato, a partire dalla ricorrente affermazione che “la prostituzione è necessaria, inevitabile e innocua”. Oggi più che mai è necessario promuovere una campagna contro la normalizzazione dello sfruttamento, della proprietà di bordelli e dell’acquisto di sesso. Tradotto da Resistenza femminista, che da anni dà voce alle sopravvissute alla prostituzione lottando contro l’industria del commercio sessuale, il volume raccoglie 250 interviste che Julie Bindel ha realizzato visitando bordelli legali, conoscendo ‘papponi’, pornografi e sopravvissute alla prostituzione, incontrando femministe abolizioniste, attivisti pro-sex work, poliziotti, uomini di governo e uomini che “vanno a puttane”, con l’obiettivo di sfatare il falso mito del sex work: la prostituzione non è un lavoro ma un abuso a pagamento.
Il commercio internazionale del sesso è al centro di uno dei dibattiti più accesi a livello mondiale, non solo fra le femministe e gli attivisti per i diritti umani.

Oggi le donne che hanno vissuto la violenza della prostituzione hanno preso la parola contro la favola di Pretty Woman, la “puttana felice”, dando vita a un movimento globale che sta portando avanti una battaglia a favore del Modello nordico, l’unico modello legislativo che protegge i diritti umani delle persone prostituite. Una battaglia che ha come maggiore antagonista la potente e ben finanziata lobby pro-prostituzione, costituita principalmente da proprietari di bordello, agenzie di escort e compratori di sesso, il cui intento è ridurre la prostituzione a un “lavoro come un altro”, occultando la violenza subita dalla donna e trasformando gli sfruttatori in imprenditori, allo scopo di decriminalizzare l’industria del sesso e proteggere il “diritto” dei compratori ad abusare dei corpi delle donne.

Basti pensare – sottolinea Bindel nell’introduzione – a come per dare un “aspetto pulito e rispettabile” al commercio sessuale sia cambiato il linguaggio che lo descrive, per cui i papponi sono diventati “manager”, le donne prostitute “sex workers” e lo stupro “un rischio del mestiere”.


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NAPOLI – PROSTITUZIONE. QUALE LIBERTA’? Un incontro con Julie Bindel, autrice de “Il mito di pretty woman”


(Il Paese delle Donne, 23 febbraio 2019)


Lunedì 4 Marzo ore 17 Sala Santa Maria La Nova – Napoli – Ne parliamo con  Julie Bindel, autrice de “Il mito di pretty woman” avvocata e attivista della rete abolizionista eRachel Moran, autrice di “Stupro a pagamento”.

Il Italia, il dibattito sulla legalizzazione dello sfruttamento della prostituzione non si è mai definitivamente chiuso. La locuzione “legalizzazione dello sfruttamento” è tuttavia sempre defilata e sottintesa. In politica si preferisce  “legalizzazione della prostituzione”, il che contiene una falsificazione del contenuto del progetto della “riapertura dei bordelli”, da più parti avanzato. La legge vigente infatti non criminalizza le prostitute, bensì lo sfruttamento e il favoreggiamento. Sarebbero questi infatti ad essere depenalizzati e legalizzati.

I numeri spaventosi dello sfruttamento sessuale in tutte le sue forme, e principalmente le conseguenze sulle condizioni di vita di donne pagate per essere violentate e danneggiate nella salute, se non uccise, sono ormai di pubblico dominio e via via stanno rendendo sempre più improponibile la visione di patinata “del mestiere più antico del mondo”.

Gli interessi che ruotano introno a quei numeri sono cospicui e mascherati da innumerevoli attività di facciata, tutte riconducibili a reti di stampo mafioso: la legalizzazione, oltre che contrastare i trattati internazionali, sarebbe in aperta contraddizione con la lotta al crimine organizzato.

La propaganda è perciò alla ricerca di sempre nuovi espedienti culturali per veicolare la regolamentazione come soluzione definitiva al problema-prostituzione. L’ultimo in ordine di tempo è quello di associare alla prostituzione la parola libertà. Probabilmente chi propone questo binomio intende invadere e mercificare la libertà sessuale che le donne conquistano ogni giorno, da secoli, respingendo la violenza degli uomini.

Le sopravvissute all’inferno dei bordelli legali, le attiviste impegnate nella protezione delle vittime della prostituzione sono le principali testimoni della rete abolizionista che si propone di difendere le donne dalle aggressioni legalizzate dallo scambio in danaro e che chiede di punire i clienti, fautori della domanda di prostituzione, quali maggiori responsabili di una strage silenziosa e quotidiana.

L’evento è il quarto in Italia, nelle tappe della rete abolizionista per la presentazione del nuovo libro di Julie Bindel, e precederà di poche ore la pronuncia attesa della Corte Costituzionale in merito al quesito/istanza presentato dai legali di Tarantini (processo per sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione) sulla costituzionalità della legge Merlin. Sulla pronuncia della Consulta la rete abolizionista terrà una conferenza stampa a Roma il giorno 5 marzo dopo la lettura della decisione dei Giudici.

Promosso da Resistenza Femminista, Associazione Salute donna, UDI di Napoli, Iroko onlus, Differenza Donna, Space e dalla dott.ssa Maria Esposito Siotto.

Col contributo attivo della Consigliera della Città Metropolitana dott.ssa Elena Coccia, della Consigliera di Parità della Città Metropolitana Isabella Bonfiglio.

Il dibattitto sarà moderato da Gabriella Ferrari Bravo. Sono previsti l’intervento di Valeria Valente, presidente della Commissione femminicidio del Senato e i saluti del Sindaco di Napoli On. Luigi De Magistris (Napoli 21 febbraio ’19)


 

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“Nonostante il velo”, donne in Arabia Saudita: il reportage


(Corriere del Trentino, 23 febbraio 2019)


– La giornalista Michela Fontana e l’inchiesta sulle differenze e le trasformazioni in atto nei paesi islamici, tra rivendicazioni e integralismi

«Sarà capace il futuro re di cambiare la profonda cultura paternalista fino ad abolire totalmente la segregazione di genere e la figura del guardiano (padre, marito, fratello, figlio maschio), che ha ancora sulle donne potere assoluto, rendendole eterne minorenni, e impedisce loro di viaggiare senza la sua autorizzazione, di ottenere la custodia dei figli dopo il divorzio, di sposarsi con uno straniero?». Interrogativi come questo sono al centro di Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita (Morellini editore con Vansa.ePublishing, 2018) il libro-inchiesta attraverso cui la giornalista Michela Fontana dà voce a diverse donne da lei incontrate nel corso di un soggiorno di due anni a Riad, in Arabia Saudita. Con la sua testimonianza, Fontana permette di conoscere dall’interno il cuore del più integralista paese islamico. Un paese in via di trasformazione con l’affermazione sulla scena politica del nuovo uomo forte del regno, l’erede al trono Mohammed Bin Salman, che ha intrapreso un significativo percorso di riforme sociali, alcune delle quali riguardanti proprio il mondo femminile. L’autrice dialoga su questi temi con la giornalista Luciana Grillo martedì (26) alle 18 alla Mondadori store di Trento, in via San Pietro 19. L’introduzione del volume conduce nello sfaccettato universo femminile dell’Arabia Saudita, che con l’imposizione del «colore nero» si cerca di spegnere, di uniformare: il nero è quello dell’abaya, un leggero soprabito che copre il corpo fino ai piedi, con il velo abbinato, l’hijab. Una «divisa» che due ragazze saudite, salite sull’aereo in jeans e magliette colorate, i lunghi capelli sciolti sulle spalle, si preparano a indossare al momento del ritorno nel loro paese. «Erano divenute sagome informi e irriconoscibili, come tutte le altre donne che avrei incrociato per le strade del paese. Nero e ancora nero, un colore a cui avrei dovuto abituarmi e che avrei finito per detestare, fino a decidere di non indossarlo più quando sarei stata libera di scegliere», osserva Fontana. Attraverso le interviste ma anche le esperienze vissute in prima persona, l’autrice analizza più aspetti della società, femminile e maschile, dell’Arabia Saudita. «Parlare con le saudite che ho conosciuto mi ha stimolato a ripensare al ruolo femminile, a indagare come e quanto l’educazione possa plasmare le persone», afferma. ha fatto grande sensazione nel mondo, ad esempio, la notizia che, da giugno 2018 le donne saudite possano finalmente guidare un’auto: «La rimozione del bando è solo una delle timide ma importanti aperture. Dietro la rigida cortina che separa le donne dal resto della società, sono proprio loro a cercare di esprimere le più forti istanze di rinnovamento».


 

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Una strada senza ritorno: perché la legge Merlin va difesa


Ilaria Baldini, Chiara Carpita, Colette Esposito [Resistenza Femminista] – (27esima ora, 15 febbraio 2019)


– Cassare la legge Merlin, sul presupposto che il reclutamento e favoreggiamento della prostituzione siano legittimi in caso di “libera scelta” della donna, significherebbe fare un grande regalo alle mafie che gestiscono i bordelli oggi illegali e la prostituzione di strada.

Martedì 5 marzo 2019 la Corte Costituzionale terrà una pubblica udienza sulla questione sollevata dalla Corte d’appello di Bari in merito alla costituzionalità della legge 20 febbraio 1958 n. 75 – la legge Merlin – laddove considera reato il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione anche nel caso in cui questa sia esercitata volontariamente e consapevolmente. Com’è noto, il giudizio incidentale di costituzionalità è stato sollecitato dalla difesa dell’imprenditore barese Gianpaolo Tarantini, imputato insieme ad altre tre persone per il reato di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione.

La nostra associazione (Resistenza Femminista) insieme a Donne in Quota, Coordinamento Italiano della Lobby Europea delle Donne (Lef Italia), Iroko, Salute Donna, Udi Napoli, Differenza Donna, ha preso parte ad un’azione promossa da Rosanna Oliva di Rete per la Parità, quella di presentare un atto di intervento che l’avvocata Antonella Anselmo ha depositato presso la Corte Costituzionale e illustrerà all’udienza del 5 marzo.

La Legge Merlin, approvata dopo una lunga battaglia, ha rappresentato un enorme passo avanti nella tutela dei diritti umani e per la parità di genere, punendo coloro che lucravano sul sangue e le lacrime di tante donne delle “case chiuse” e liberando queste ultime dalla schiavitù dei registri. Un’eventuale decisione della Consulta in senso favorevole all’incostituzionalità della legge Merlin avrebbe delle ricadute di una gravità inaudita. Vediamo perché.

Il dibattito intellettuale che fa bene alle mafie

È ben noto e sotto gli occhi di tutti come l’Italia sia uno dei Paesi, in Europa, più interessati dalla tratta di essere umani, in particolare a scopo di sfruttamento sessuale. Cassare la legge Merlin, sul presupposto che il reclutamento e favoreggiamento della prostituzione siano legittimi in caso di “libera scelta” della donna, significherebbe fare un grande regalo alle mafie che gestiscono i bordelli oggi illegali e la prostituzione di strada. Si tratta, come sappiamo da inchieste e ricerche, di mafie straniere che si giovano della connivenza e complicità dei nostri clan che pure hanno la loro parte di guadagni. Distinguere la prostituzione “volontaria” da quella che non lo è è ben arduo e stupisce la semplicità con cui nel dibattito politico se ne parla. Le ragazze vittime di tratta, se interrogate, spergiurano di essere lì per loro libera scelta, così come suggerito dai trafficanti. Ricordiamo a questo proposito le parole di Lydia Cacho, giornalista d’inchiesta messicana e attivista per i diritti umani: «Questo è uno dei presupposti fondamentali nel dibattito mondiale sulla prostituzione: c’è un determinato momento nel quale le donne dai diciotto anni in su scelgono “liberamente” di entrare, rimanere e vivere nell’ambito della prostituzione. Le mafie si alimentano e traggono persino motivo di divertimento dalla rendita che è loro offerta da questa discussione tra intellettuali e attivisti anti-prostituzione. La speculazione filosofica sul significato della libertà, della scelta e dell’istigazione è diventata parte integrante delle argomentazioni usate dalle reti di trafficanti. Ho avuto modo di ascoltare questi discorsi dalle loro stesse bocche».

Libera scelta. Davvero?

In sostanza, illudersi di poter operare questa distinzione tra libera scelta di prostituirsi e costrizione esporrebbe al rischio di favorire la prostituzione di persone forzate rendendo difficile punire gli sfruttatori. È sotto gli occhi di tutti come la regolamentazione della prostituzione in paesi come la Germania e la Nuova Zelanda, che hanno liberalizzato l’industria del sesso (ovvero eliminato il reato di favoreggiamento) con la motivazione di facciata di voler migliorare la condizione delle donne nella prostituzione e tutelare coloro che “scelgono liberamente” questa attività, abbia portato viceversa all’esplosione della tratta e al tempo stesso al suo occultamento (il 90% delle donne nei bordelli tedeschi sono straniere, soprattutto dell’Est Europa) abbia reso non perseguibili i tenutari nei cui bordelli sono state scoperte vittime di tratta, abbia trasformato quegli stessi proprietari di bordelli da papponi a rispettabili e potentissimi “manager”, abbia fatto diventare il paese un supermercato del sesso low-cost e meta di turismo sessuale, con grave arretramento nei rapporti tra i generi e con la normalizzazione della violenza sessuale .
Tutto questo è documentato da numerose ricerche accademiche e inchieste come quella fondamentale di Julie Bindel attivista femminista, giornalista e scrittrice, contenuta nel libro denuncia Il Mito Pretty Woman. Come l’industria del sesso ci spaccia la prostituzione appena uscito per VandA.ePublishing. Bindel ha condotto 250 interviste in 40 paesi del mondo smascherando la potente e ben finanziata lobby pro-prostituzione costituita principalmente da proprietari di bordello, agenzie di escort e compratori di sesso il cui intento è proprio quello di ridurre la prostituzione a un “lavoro come un altro” occultando la violenza subita dalle donne allo scopo di decriminalizzare l’industria del sesso e proteggere il “diritto” dei compratori ad abusare dei corpi delle donne

Il denaro non cancella lo stupro

Inoltre, come ci raccontano le sopravvissute al mercato del sesso come Rachel Moran che hanno avuto il coraggio di denunciare l’industria e le violenze legalizzate subite dai clienti, quello della “libera scelta” non è soltanto un argomento pericoloso, ma anche semplicistico e scorretto. Ci sono infatti donne che senza essere vittime di tratta apparentemente hanno “scelto” in condizioni di povertà estrema o necessità oppure hanno alle spalle un passato di abusi infantili subiti che le ha rese vulnerabili e appetibile “merce” di sfruttamento per clienti e/o papponi. Per Moran e altre sopravvissute oggi attiviste, la prostituzione non è né sesso né lavoro, ma violenza sessuale: il denaro non cancella lo stupro ma anzi viene usato dal prostitutore per esercitare il suo potere e occultare l’abuso.

La legge in Francia: colpire la domanda

Il 1° febbraio scorso in Francia il Consiglio costituzionale ha sancito la costituzionalità della legge approvata il 13 aprile 2016 che ha introdotto la criminalizzazione dell’acquisto di sesso, la decriminalizzazione delle persone prostituite e la creazione di programmi di uscita e politiche di protezione e sostegno per le vittime di prostituzione, sfruttamento sessuale e tratta. Si tratta di una decisione storica. Nell’appello indirizzato al Consiglio costituzionale #NabrogezPas firmato anche dalla nostra associazione, sopravvissute alla prostituzione e attiviste sottolineano come le prime vittime della prostituzione siano le donne e i minori appartenenti ad etnie e minoranze sociali, persone in situazioni di povertà, vittime di violenza sessuale nell’infanzia, la parte più vulnerabile della società che i clienti prostitutori sfruttano imponendo un atto sessuale grazie al proprio potere economico indifferenti sia all’età (sono moltissime le ragazze minorenni nel mercato del sesso) sia alla condizione socio-economica della persona che comprano.
Lo scopo della legge abolizionista francese è proprio quello di colpire la domanda dal momento che i soldi spesi dai prostitutori vanno ad alimentare la tratta e lo sfruttamento sessuale delle donne (in Francia le statistiche parlano di 80% di vittime di tratta). La prostituzione, ovvero la ripetizione di atti sessuali non desiderati, come dimostrano studi e testimonianze di donne prostituite, ha conseguenze fisiche e psicologiche analoghe alla violenza e alla tortura: sindrome da stress post-traumatico, depressione, suicidio, dissociazione traumatica .

«Libertà d’impresa»

Coloro che in Francia e in Italia hanno sollevato la questione della costituzionalità in nome di un concetto ultraliberista di “libertà di impresa”, equiparando la prostituzione ad un’attività commerciale come un’altra, negano totalmente questa complessità. È evidente, d’altra parte, che la libertà di chiunque di provvedere al proprio sostentamento tramite il percepire pagamenti in cambio di atti sessuali non viene negata e tantomeno punita dalla legge Merlin né da quella francese (né dovrebbe mai esserlo, visto che per le donne nella nostra società questa costituisce spesso l’unica “scelta” rispetto al morire di fame), dunque di cosa esattamente stiamo parlando quando parliamo di presunta incostituzionalità? Stiamo parlando della possibilità di “aiutare” le donne a prostituirsi meglio, a trovare più occasioni di “facile guadagno”, come se le occasioni mancassero, come se il guadagno fosse facile e soprattutto come se gli aiutanti valorosi fossero dei benefattori disinteressati.

Lina e l’articolo 3 della Costituzione

Nella nostra Costituzione l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art. 41). La prostituzione vìola palesemente tutte le caratteristiche del lavoro e dell’impresa così come regolate nei nostri principi costituzionali. Lina Merlin, partigiana e madre costituente, è colei che ha promosso l’inserimento nell’articolo 3 della nostra Costituzione dell’espressione «senza distinzioni di sesso», il Principio Fondamentale dell’uguaglianza delle cittadine e dei cittadini. Sarebbe proprio questo principio fondamentale ad essere messo in discussione qualora venisse eliminato il reato di favoreggiamento. L’inferiorità delle cittadine italiane in termini di diritti umani sarebbe sancita per legge.

Il Consiglio Costituzionale francese, come ha spiegato l’avvocata Lorraine Questiaux ha riconosciuto che «il principio di dignità è oggettivo e non soggettivo. Rinunciare ai propri diritti fondamentali non è libertà: essi sono inalienabili e universali» . Ci auguriamo una decisione simile anche da parte dei giudici italiani.


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Manifesti femministi


Deborah Ardilli e Federico Zappino (Operaviva Magazine, 14 febbraio 2019)


– Una conversazione sul femminismo radicale

Questa conversazione prende spunto dalla pubblicazione del libro Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi i suoi scritti programmatici (VandA, 2018), a cura di Deborah Ardilli

Federico Zappino: Qualche tempo fa, ma in realtà accade periodicamente, venni sollecitato a replicare alle affermazioni, giudicate omofobiche e transfobiche, di alcune femministe che si definivano «radicali». Affermazioni che, come immagini, vertono attorno a questioni conflittuali come la gestazione per altri, il sex work o il transgenderismo. Ora, al di là del contenuto specifico di queste affermazioni, su cui non mi sembra utile soffermarsi, o almeno non nei termini in cui vengono correntemente formulate (e nemmeno, purtroppo, in quelli che solitamente caratterizzano le risposte di parte opposta), a colpirmi di quell’intervista fu che ben prima di articolare una risposta, mi ritrovai affannosamente a spiegare, o a provarci, che l’appropriazione dell’aggettivo «radicale», da parte di quelle esponenti del femminismo, occultasse in realtà un «differenzialismo», o un «essenzialismo». E non era solo una questione di parole. Era una questione storica, e politica. Com’era accaduto che il femminismo radicale – quello cioè in cui qualunque minoranza di genere e sessuale dovrebbe trovare importanti spunti teorici a sostegno della propria lotta, dal momento che il suo obiettivo consiste nella sovversione del sistema sociale etero-patriarcale – fosse finito per coincidere, nella vulgata, con il femminismo differenzialista, o essenzialista? Al di là del fatto che la presa di distanza dall’essenzialismo, attorno a cui convergono i gender studies accademici, non costituisca di per sé nulla di automaticamente promettente, mi sembra in ogni caso che l’opportuna pubblicazione di Manifesti femministi, a tua cura, consenta di appianare questo equivoco, tanto per iniziare. Mi sembra che questo disagio sia vissuto come tale da quant* ritengono impellente mettersi sulle tracce delle inestimabili risorse che storicamente hanno consentito loro di pensare, oggi, la necessità di «un più ampio movimento politico che miri ad abolire il sistema eterosessuale», come scrisse Louise Turcotte a commento dell’opera di Monique Wittig.

Deborah Ardilli: Quando l’editrice mi ha proposto di curare un’antologia di manifesti della «seconda ondata» femminista, ho pensato che valesse la pena cogliere l’occasione per provare a mettere in discussione una rappresentazione del femminismo radicale che, ancora troppo spesso, rasenta la caricatura. Servirebbe forse un rimando ad altri volumi per raccontare in maniera dettagliata in che modo quella rappresentazione si sia insediata nel senso comune, dando luogo all’equivoco che hai appena richiamato. Qui mi limito a segnalare che, a partire dagli ultimi due decenni del Novecento, quando da più parti si annunciava la transizione verso costellazioni post-patriarcali, sono stati versati fiumi di inchiostro per dipingere la «seconda ondata» del femminismo come un blocco omogeneo, compattamente attestato su posizioni «essenzialiste» – il peggior insulto che il gergo accademico possa concepire.

Stando alla vulgata, il femminismo di quegli anni costituirebbe lo stadio primitivo di una ricerca che, con l’avanzare del tempo, sarebbe progredita in direzione di una maggiore complessità teorica e di uno sguardo più scaltrito sulle questioni di genere. In nome della complessità, pareva finalmente possibile scrollarsi di dosso la zavorra ideologica con cui le femministe radicali avevano sovraccaricato pratiche e discorsi. Ora, è chiaro che se si parte dal presupposto che la «seconda ondata» rappresenti uno stadio infantile del femminismo da cui occorre congedarsi senza indugi, molte cose sono destinate a passare inosservate. Non ultimo il fatto che, all’epoca, femminismo radicale e pensiero della differenza sessuale costituivano tendenze distinte e rivali all’interno del movimento di liberazione delle donne. In Francia, per esempio, l’area «differenzialista» raccolta intorno a Psychanalyse et Politiquerifiutava persino di definirsi «femminista» ed era in conflitto aperto con le Féministes révolutionnaires di Christine Delphy e Monique Wittig.

Ripristinare canali di comunicazione con il passato può, allora, essere un primo passo per mettere in questione l’idea che la radicalità del femminismo coincida con la feticizzazione di un dato anatomico, o con la rivendicazione della potenza generativa del materno, o di qualsiasi altra forma di valorizzazione di una specificità sessuata. Capita ancora spesso, per altro, di imbattersi in giudizi portati a demonizzare la scelta separatista con l’argomento che soltanto un rozzo pregiudizio naturalistico potrebbe motivarla. Il mio auspicio è che restituire un minimo di respiro storico ai nostri ragionamenti aiuti non solo a vedere che le cose non stanno così, ma anche a comprendere che la presa di distanza dal feticismo biologico non necessariamente coincide, per il femminismo radicale, con l’obiettivo di prolungare con altri mezzi i dispositivi di inclusione della tolleranza liberale.

Un esempio tratto da Manifesti femministi: quando le Redstockings di Shulamith Firestone scrivono, nel loro manifesto del 1969, che «le donne sono una classe oppressa», che «poiché abbiamo vissuto in intimità con i nostri oppressori, isolate le une delle altre, ci è stato impedito di vedere nella nostra sofferenza individuale una condizione politica», che «il nostro compito principale in questo momento è creare una coscienza di classe femminilecondividendo la nostra esperienza e denunciando pubblicamente il fondamento sessista di tutte le nostre istituzioni», la problematica che si impone, con ogni evidenza, non è quella della valorizzazione della differenza sessuale. C’è indubbiamente una politica femminista del corpo; ma, a giustificarla, non è l’idea che l’anatomia costituisca di per sé un principio di classificazione sociale. Diversamente, non si spiegherebbe il ricorso alla categoria di classe di sesso: non si spiegherebbe, in altre parole, per quale motivo le frange più innovative del femminismo radicale abbiano ritenuto di poter estendere al genere l’analisi materialista. L’implicazione logica della rivolta delle donne è che la loro condizione può essere modificata, che il rapporto sociale che le definisce come la natura, il sesso, la differenza, l’alterità complementare all’uomo, può essere sovvertito. Fino a che punto si sarebbe dovuta spingere la trasformazione per poter effettivamente parlare di estinzione del patriarcato, lo avrebbe chiarito poco più tardi la stessa Firestone nelle pagine di The Dialectic of Sex (1970): «E proprio come lo scopo della rivoluzione socialista non era soltanto l’eliminazione del privilegio economico di classe, ma della distinzione di classe in quanto tale, allo stesso modo lo scopo della rivoluzione femminista deve essere, diversamente dal primo movimento femminista, non soltanto l’eliminazione del privilegio maschile, ma della distinzione sessuale in quanto tale: le differenze genitali tra esseri umani non dovrebbero più avere importanza culturale».

Zappino: Una rappresentazione piuttosto efficace di ciò che potrebbe significare «sovversione dell’eterosessualità».

Ardilli: Senz’altro. Ma permettimi un’ulteriore precisazione, in relazione alla rivolta delle donne e alle sue implicazioni. Se seguiamo le peripezie dell’aggettivo «radicale» a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta ci accorgiamo subito che il mutamento semantico riflette uno spostamento politico, non la convalida di un assunto biologico. Prendiamo il caso statunitense, che mi pare idoneo a illuminare processi di soggettivazione politica che, negli stessi anni, si attivano anche al di qua dell’Atlantico. Fino alla seconda metà degli anni Sessanta, per una giovane donna nord-americana essere una radical woman equivaleva a gravitare nell’orbita della Nuova Sinistra, cioè di quella frastagliata area politica, comportamentale e contro-culturale che comprendeva l’attivismo studentesco, il movimento per i diritti civili, la protesta contro la guerra del Vietnam e il riferimento obbligato ai movimenti di liberazione nei paesi del cosiddetto Terzo mondo. Alla fine del decennio, lo stesso aggettivo passa invece a qualificare quella componente – numericamente minoritaria, ma politicamente significativa – del movimento delle donne che, da un lato, mette fine alla militanza di servizio all’interno del movimento misto, mentre dall’altro lato prende le distanze dall’emancipazionismo di organizzazioni femminili di impronta riformista, come la NOW (National Organization for Women) di Betty Friedan. Che cosa comporta questa politicizzazione del privato, se non una vigorosa spinta verso la sua de-naturalizzazione? Che cosa motiva la doppia demarcazione polemica, se non la scoperta di una matrice autonoma di oppressione, che impone di spingere l’analisi politica nei territori del privato, della famiglia, della sessualità, del lavoro domestico?

Zappino: Se c’è qualcosa che accomuna l’odierno movimento femminista, da una parte, e quello gay, lesbico e trans*, dall’altra, sembra essere invece proprio la difficoltà di riconoscere l’esistenza di una matrice di oppressione. Non si capisce da dove venga questa nostra oppressione, e in realtà a volte non è nemmeno chiaro se concordiamo attorno al fatto di essere soggette a una qualche forma di oppressione. Nei casi migliori, riconosciamo l’esistenza di qualcosa che si chiama «capitalismo», o «neoliberismo», qualcosa che sortisce effetti tangibili sulla materialità delle nostre vite. Ma raramente siamo pronte ad accordare a qualcosa che si chiama invece «eterosessualità», o «etero-patriarcato», lo stesso potere di determinare le nostre esistenze, nonché di porsi come discrimine tra gli effetti sortiti differenzialmente, dallo stesso capitalismo, sulle «vite», a seconda del fatto che le vite siano quelle degli uomini o quelle delle donne, quelle degli uomini cis-eterosessuali e quelle dei gay o delle persone trans*. A volte, capita di leggere pagine e pagine di testi che dichiarano di ispirarsi al femminismo, o al queer, ma senza che in essi vi compaia mai, se non timidamente, un riferimento specifico al sistema sociale eterosessuale, o all’eterosessualità come modo di produzione patriarcale delle cosiddette «differenze» di genere.

Senza dubbio, una delle cause di questa distorsione percettiva è costituita proprio dall’affermazione della razionalità liberale, per cui non esiste alcuna matrice di oppressione, né alcun rapporto sociale di forza, ma solo individui che stipulano coscientemente un contratto sociale con altri individui, altrettanto liberi e uguali, in piena autodeterminazione, libertà di scelta, responsabilità (e colpa, di conseguenza, per i propri personali fallimenti). Tutte parole che, a ben vedere, sono ampiamente confluite nel lessico degli odierni movimenti femministi o Lgbtq. Al contempo, sappiamo anche che questa non è l’unica causa, dal momento che la difficoltà di mettersi d’accordo a proposito di una matrice di oppressione sembra permeare anche ampi strati del movimento più vicini alla critica marxista.

Ardilli: È una delle cause, appunto, ma non l’unica. Anche perché non sono sicura che il lessico degli odierni movimenti femministi o Lgbtq sia totalmente e indistintamente intriso di retorica liberale, o neoliberale. In fondo, sappiamo bene che una vigorosa retorica anti-neoliberale, o anche anti-capitalista, può essere del tutto compatibile con il misconoscimento dell’etero-patriarcato come sistema sociale. Può ben darsi che l’eco dei conflitti che, negli anni Settanta, hanno diviso marxisti e femministe oggi si sia affievolita. Ciò non significa, tuttavia, che i nodi fondamentali di quella discussione abbiano perso pertinenza.

Certamente, è innegabile che oggi sia diffusa – molto più di allora – la propensione a prosciugare il discorso sulle determinanti che influenzano le nostre vite: riconoscersi non solo condizionate, ma oppresse, è difficile. E doloroso. Mi sembra che il prestigio che circonda la reinterpretazione dei rapporti sociali in chiave di cooperazione volontaria tra soggettività libere e autodeterminate dipenda, molto più che dalla forza esplicativa di questo modello, dalla sua capacità di rassicurarci: perché perseguire faticosi progetti politici di liberazione, se la nostra autodeterminazione può esprimersi già qui e ora? In queste condizioni, tendono a moltiplicarsi discorsi che mettono l’accento sull’individuo, sulla sua postura volitiva o desiderante, sulla sua agency, sul suo empowerment. Da questo punto di vista, poni chiaramente un problema affine a quello sollevato in un intervento del 1990 di Catharine MacKinnon, emblematicamente intitolato Il liberalismo e la morte del femminismo. In quel discorso, MacKinnon si chiedeva dove fosse finito il movimento femminista che, negli anni Settanta, era stato capace di criticare concetti sacri come quelli di «scelta» e «consenso», che cosa fosse rimasto di quel movimento consapevole del fatto che «quando le condizioni materiali ti precludono il 99% delle opzioni, non ha senso definire il restante 1% – ciò che stai facendo – una scelta». E nonostante negli ultimi anni la questione del rapporto tra femminismo e neoliberalismo sia stata ampiamente dibattuta, sembra che ciò sia avvenuto in termini rovesciati rispetto a quelli proposti da MacKinnon. Mi sembra che il suo approccio colga il problema dell’impatto negativo della razionalità liberale in modo per noi più pertinente di quanto riescano a fare altre prospettive – su tutte, quella di Nancy Fraser – portate invece a rimproverare al movimento femminista degli anni Settanta di avere contribuito all’ascesa del neoliberalismo attraverso la critica del salario familiare. Il testo di Silvia Federici incluso in Manifesti femministi consente invece di comprendere quale fosse la portata reale della critica al salario familiare sviluppata, in particolare, dai gruppi per il salario al/contro il lavoro domestico: critica che mi pare grossolanamente fraintesa se interpretata, in chiave emancipazionista, come una richiesta di maggiore integrazione delle donne ai processi di valorizzazione capitalistica.

Quello che mi preme sottolineare, per tornare alla questione, è che il riferimento all’egemonia della razionalità neoliberale ci aiuta a cogliere solo un aspetto della questione. Come accennavo sopra, nel quadro dell’odierna «terza ondata» femminista non è affatto raro imbattersi in critiche della razionalità neoliberale (e del suo doppiofondo neofondamentalista, come sai bene), anche molto affilate, ma che, tuttavia, tendono a perdere mordente quando si tratta di pronunciarsi sull’etero-patriarcato. Certamente il sostantivo «patriarcato» e l’aggettivo «patriarcale» compaiono ancora nei documenti prodotti dal movimento odierno. Contrariamente alle apparenze, però, questo non significa che il concetto di patriarcato – o, come mi sembra più corretto dire, di etero-patriarcato – conservi il peso determinante che aveva avuto per il femminismo radicale.

Provo a spiegarmi meglio: la maggioranza del movimento femminista attuale è assolutamente disposta a riconoscere che le politiche neo-liberali hanno effetti devastanti sulla vita delle donne e delle minoranze di genere. I problemi sorgono non appena si tratta di rispondere a domande come queste: perché la privatizzazione dello stato sociale si traduce in un aggravio di lavoro sulle spalle delle donne? Perché sono in stragrande maggioranza femminili, o femminilizzati, i corpi di servizio – incluso quello sessuale – che affluiscono verso le società occidentali da paesi messi in ginocchio dal debito e dai programmi di riaggiustamento strutturale? È sulla risposta da dare a interrogativi come questi che si palesano le divergenze tra chi ritiene indispensabile utilizzare il concetto di etero-patriarcato e chi, al contrario, ritiene di poterne fare a meno. L’area del femminismo socialista, per esempio, è propensa a sostenere che 1) questi fenomeni vanno messi sul conto della crisi della riproduzione sociale che investe le società capitalistiche e 2) che il capitale resta il principale agente, oltre che l’unico beneficiario, di tali forme di sfruttamento. Per quale strano motivo proprio le donne vengano assegnate alla «sfera riproduttiva» non viene chiarito dalle teorie che escludono programmaticamente il riferimento a un modo di produzione eteropatriarcale. Veniamo invece sollecitate a interrogare il modo in cui il capitale utilizza a proprio vantaggio la differenza sessuale. Ma come venga prodotta quella «differenza», nel quadro di quale rapporto sociale, resta un mistero. A differenza del femminismo radicale, il femminismo socialista sembra suggerirci che la differenza tra uomini e donne, semplicemente, c’è: è un dato biologico, pre-sociale, una distinzione funzionale necessaria alla riproduzione sessuale che destina la maggior parte delle donne a un’intimità permanente con gli uomini, in vista della rigenerazione della forza-lavoro su base quotidiana e generazionale. Credo si debba tener conto di questa ipoteca differenzialista per comprendere l’insistenza a parlare di lavoro riproduttivo (anche a dispetto del fatto che i servizi prodotti possiedano un valore di scambio, dato che è possibile trasferirli sul mercato) e a tacere il fatto che gli uomini, proletari inclusi, sono beneficiari diretti del lavoro che riescono a estorcere gratuitamente alle donne. Va per altro precisato, a scanso di equivoci, che lo sfruttamento domestico non esaurisce il campo dell’oppressione etero-patriarcale. Senonché, è proprio quando volgiamo lo sguardo verso altri fenomeni macroscopici del dominio etero-patriarcale, come la violenza sessuale, che diventa ancora più problematico chiamare in causa il capitale, o il neoliberalismo. Correlare uno stupro al plusvalore, o a una crisi di sovrapproduzione, mi riesce decisamente più difficile che non associarlo all’esistenza un sistema eterosessuale finalizzato all’appropriazione del lavoro, della sessualità e della coscienza delle donne. E tu potresti fare questo stesso discorso, come già fai, per altre forme di violenza di genere, parlando del pestaggio nei riguardi della persona trans* o del ragazzo gay ammazzato di botte al termine del suo primo giorno di lavoro al centro commerciale. D’altronde: come si spiega la sovra-rappresentazione delle persone trans* tra le fila dei disoccupati? È sufficiente riferirsi alla dinamica capitalistica come fattore «in ultima istanza» determinante, per capire come mai alcune fasce di popolazione stentano più di altre ad accedere ai circuiti dell’economia formale?

Periodicamente mi cadono sotto gli occhi articoli che documentano, con una certa passione dimostrativa, impennate di violenza contro le donne a partire dalla crisi economica del 2007-08. Il messaggio di questi contributi è chiaro: la crisi economica e la relativa precarizzazione delle condizioni di vita e di lavoro induce gli uomini alla violenza. Vorrei fosse altrettanto chiara, però, l’esigenza che abbiamo di conservare il senso delle proporzioni, evitando di trasformare una correlazione statistica in una teoria dell’oppressione. Sospetto, per altro, che anche le femministe socialiste avvertano questa difficoltà. Non è un caso che non si siano completamente estinte le concessioni alla retorica femminista: il ricorso residuale all’aggettivo «patriarcale», o al sostantivo, «patriarcato» potrebbero veicolare un’implicita ammissione dell’insufficienza del quadro analitico marxista. Tuttavia, questo omaggio formale alla terminologia del femminismo radicale raramente si spinge al di là di una definizione che circoscrive il patriarcato alla sfera delle mentalità, degli stereotipi, dei pregiudizi: il sistema sociale di riferimento resta uno solo, il capitalismo. E questo mi sembra un ostacolo serio a indagare le cause delle nostra oppressione.

Zappino: Pensavo che è curioso che ci troviamo a interrogarci attorno a tali questioni nel tempo dell’intersezionalità. O meglio, di una versione rimasticata e distorta dell’intersezionalità – una produzione etero-patriarcale dell’intersezionalità, mi verrebbe da definirla. È infatti strano, non trovi?, che nell’ora della piena affermazione delle retoriche dell’intersezionalità, o dell’alleanza, femministe e altre minoranze di genere continuino tranquillamente a confliggere, e che non concordino nemmeno attorno al fatto di essere soggette a una comune matrice di oppressione. E spesso è difficile non cedere alla tentazione che dietro alle retoriche dell’intersezionalità si celi solo un inganno, per noi. L’intersezionalità consiste forse nel non focalizzarsi mai nemmeno per sbaglio sulla specificità delle forme di oppressione, nel guardare indistintamente a tutto (ossia, a nulla), affinché le ingiunzioni alla salvaguardia del movimento misto, dietro lo spauracchio del separatismo, possano tranquillamente occultare, e dunque perpetuare, il dominio maschile ed eterosessuale al suo interno? È questo che vogliamo?

Ardilli: La mia impressione è che, nel discorso corrente, la parola «intersezionalità» abbia assunto il valore di una formazione di compromesso. A un primo sguardo, si direbbe che la sua diffusione rifletta un certo grado di consenso intorno alla necessità di abbandonare lo schema che induce a graduare le oppressioni su una scala gerarchica. Nella pratica, vediamo però che le cose funzionano diversamente: il richiamo all’«intersezionalità» opera come un principio di universalizzazione astratta che finisce col ristabilire silenziosamente le gerarchie che, in linea teorica, si volevano eliminare. Mi sembra chiaro, per esempio, che precipitarsi a proclamare manifestazioni antifasciste e antirazziste ogniqualvolta l’autore di una violenza contro le donne è un soggetto razzializzato equivale a dire che, di fronte al rischio (tutt’altro che improbabile) di strumentalizzazioni a destra, la protesta contro la violenza sessuale deve passare in secondo piano. Anziché agire come moltiplicatore e intensificatore dei fronti di lotta, l’intersezionalità rischia di inibirne alcune, o di moderarne le pretese, in nome di un irresistibile richiamo all’unità. Noblesse oblige. Al contrario, per le femministe radicali di cui mi occupo in Manifesti femministi era del tutto ovvio che «le persone non si radicalizzano combattendo le battaglie degli altri». Mi sembra che oggi quell’intuizione si sia come capovolta: mettere tra pudiche parentesi la propria oppressione, combattere le battaglie degli altri, rinunciare all’auto-legittimazione che proviene dall’essere contemporaneamente soggetto e oggetto della proprio liberazione – insomma, quel complesso di attitudini che Monique Wittig e le altre autrici di Per un movimento di liberazione delle donne non esitavano a squalificare come «altruismo cristiano e piccolo-borghese» – oggi sono considerate qualità politiche di prim’ordine.

Nell’appello per lo sciopero dell’8 marzo 2019 diffuso da Ni Una Menos, per esempio, si legge che l’importanza del movimento femminista odierno dipende dall’essere diventato «cassa di risonanza per tutti i conflitti sociali». Ecco, l’immagine del movimento femminista come una cavità aperta in cui si amplificano suoni emessi altrove potrebbe essere una metafora eloquente di quella che tu definisci una «produzione etero-patriarcale dell’intersezionalità».


Foto © Nhandan Chirco (in collaborazione con Branko Popovic + Igor Lecic), Il Rimmel dell’Europa cola sui baveri / Et l’Europe alors (2014), MAAM – Museo dell’Altro e dell’Altrove.

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Nonostante il velo. Il reportage emozionale di Michela Fontana


L’angolo di Key (12 febbraio 2019)


– Vi siete mai chiesti chi si nasconde dietro ad un velo, quando incontrate una donna che lo indossa?

Vi siete mai chiesti chi si nasconde dietro ad un velo, quando incontrate una donna che lo indossa?
Che storia si cela, qual è il suo pensiero. Sono tutte domande che a me, personalmente, vengono in mente quando mi trovo di fronte ad una donna che indossa questo simbolo. Si tratta dell’ hijab, un velo nero che nasconde i capelli, le orecchie e la testa.
E come vive quella donna, nonostante indossi il velo?
Il libro che leggete nel titolo ce lo svela.
L’intervista e la recensione che vado a presentarvi mi hanno conquistata molto. Perché il libro mi ha conquistata, e sono sicura che piacerà anche a voi. Specialmente se amate libri scritti bene da croniste che con la professionalità e l’etica giornalistica raccontano storie, culture e vite a noi lontane, ma che meritano la nostra attenzione.
Il libro in questione è “Nonostante il velo” di Michela Fontana, edito da VandA ePublishing.

Un libro corposo ma per nulla pesante, come la fattezza potrebbe far pensare.
È a dir poco strepitoso. Scritto divinamente da una brava (lo si capisce dal tipo di scrittura) cronista che con eleganza, intelligenza e rispetto, è entrata in punta di piedi in una società culturalmente ostica alle donne, come quella araba, e ha saputo raccontarla al meglio.
Un approfondimento giornalistico bene accurato, che non tradisce l’umanità della donna-giornalista Michela Fontana.
Si legge benissimo. Pur non conoscendo la sua voce, è come se leggendolo fosse davvero lei, Michela, a raccontare le donne che ha incontrato.

Insieme con l’autrice vorrei approfondire alcuni aspetti, per cui ecco la nostra chiacchierata:

Michela, due anni vissuti a Riad inseme a suo marito che era lì per lavoro. Cosa le è rimasto di quella esperienza una volta rientrata in Europa?
Mi è rimasto un legame ideale con le donne saudite, molte delle quali ho trovato coraggiose, intelligenti e pronte a vivere nel futuro. Mi è anche rimasta una maggiore comprensione di cosa significhi vivere in un paese islamico conservatore e come sia difficile per le saudite emanciparsi  davvero dalle loro tradizioni patriarcali. In effetti noi diamo per scontato che il nostro modello di vita occidentale sia attraente, ma per molte donne che ho intervistato la nostra libertà non è necessariamente considerata un valore positivo. La  realtà della società saudita è molto più complessa e contraddittoria dei luoghi comuni basati su conoscenze superficiali.

Che significato hanno in quelle terre i concetti di intraprendenza e
evoluzione al femminile?
In Arabia Saudita oggi direi che essere intraprendente per una giovane donna significa voler studiare, cercare un lavoro e aspettare a sposarsi per poter finire gli studi. Vuol anche dire resistere alle pressioni famigliari per avere molti figli e cercare di avere una certa indipendenza economica. Naturalmente la società saudita è variegata e ci sono famiglie ancora estremamente conservatrici. Insomma, non tutte le donne saudite vogliono mettersi al volante o fare a meno del loro “guardiano” (padre marito fratello), che ha potere assoluto su di loro. Questo però lentamente cambierà e sempre più donne vorranno “ emanciparsi” senza però andare contro i dettami della loro cultura religiosa.

C’è una storia o una donna che più di altre le è rimasta impressa nel
cuore e nella mente?
Faccio fatica a scegliere, perché molte di loro mi hanno colpito. Ripenso spesso a Wadha, a cui dedico il capitolo In fuga verso la libertà , che è fuggita dal paese per sottrarsi alle violenze che subiva da parte del padre e ora ha trovato asilo politico in Canada, proprio come  ha fatto recentemente la giovane Rahaf Al Muhammed al Qunun di cui hanno parlato tutti i giornali, dopo che si era barricata nell’ aeroporto di Bangkok. A differenza della diciottenne Rahaf, però, Whada ha più di trentanni ,ha pianificato la fuga in due anni, senza clamore o pubblicità, con molta paura, molti rischi e molta sofferenza.

Quanto tempo ha impiegato a scrivere Nonostante il velo? C’è stato
qualcosa che la preoccupava nella stesura del libro?
Ho svolto le mie interviste durante i due anni di soggiorno a Riad e ho impiegato circa un anno a scrivere  il libro. Quello che mi preoccupava era di comunicare al meglio quanto avevo sentito e vissuto durante la mia esperienza, senza tradire il desiderio delle donne saudite di essere comprese e ascoltate. Ho cercato di non fare trapelare il mio punto di vista (anche se immagino si possa percepire tra le righe) o di dare giudizi, ma di fornire il contesto e le informazioni storiche affinché la lettrice/lettore possa giudicare da solo. Ho cercato di fare ciò che penso un giornalista o uno storico dovrebbe idealmente fare.

Ci sono altre culture che vorrebbe esplorare, capire e raccontare in un
altro libro?
Mi interessano soprattutto le culture diverse dalla nostra, perché rappresentano una sfida alla comprensione e ai luoghi comuni. Sono stimolata a scrivere soprattutto quando vivo in un paese per motivi di lavoro. Quando ho vissuto in Cina ho studiato la storia cinese e  ho scritto la biografia  di Matteo Ricci, un gesuita vissuto in Cina tra cinquecento e seicento, il primo mediatore culturale tra Cina ed Europa (Padre Matteo Ricci, nato a Macerata, la mia Regione – ndr). Forse oggi mi piacerebbe conoscere più a fondo il Giappone, un antica civiltà che conserva le tradizioni pur essendo totalmente immerso nella modernità.

Bello davvero. Da giornalista, vorrei saper scrivere e raccontare storie come lei.


 

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Il mito di Pretty Woman, la puttana felice


di Ida Paola Sozzani (LaCittàFutura, 13 gennaio 2019)


– Esce nelle librerie italiane il prossimo 15 Gennaio 2019 l’ultimo dossier-inchiesta sulla prostituzione realizzato dalla giornalista inglese Julie Bindel, nell’appassionata traduzione realizzata dalle attiviste italiane di Resistenza Femminista, pubblicata da Vanda-Morellini editore.

MILANO. Le moderne abolizioniste della prostituzione rivendicano la loro genealogia da Josephine Butler, che fu antesignana del femminismo e riformatrice sociale e figlia di John Grey, un avvocato antischiavista, e moglie di George Butler, accademico progressista. Nell’Inghilterra vittoriana rigidamente classista del 1860, dove le donne non avevano ancora il diritto di voto, la Butler fu la prima a denunciare l’abuso che le donne e in particolare le bambine delle classi sociali disagiate subivano nella prostituzione, denunciando le contraddizioni borghesi insite nella società Vittoriana che relegava le donne povere a inutile feccia sociale sfruttabile dai maschi e dai papponi. Josephine Butler fu tra quelli che forzarono il Parlamento inglese ad aumentare l’età del consenso matrimoniale delle ragazze dai 13 ai 16 anni, impedendo di fatto i matrimoni delle bambine.

A partire dal 1869 la Butler si impegnò per l’abrogazione del Contagious Diseases Act, una legge brutale che stigmatizzava le donne come causa del diffondersi delle malattie veneree in particolare fra i soldati e autorizzava ronde poliziesche nelle città militari allo scopo di imporre controlli sanitari e ricoveri coatti alle donne, contravvenendo così di fatto al principio giuridico dell’ “Habeas corpus”, sancito in Inghilterra fin dal 1679 con l’Habeas Corpus Act a tutela della sicurezza e inviolabilità di ogni persona.

La Butler non fu certo una moralista cristiana o una sessuofoba – come venne denigrata – né una salvatrice paternalistica delle donne, bensì una progressista convinta che la prostituzione violasse i diritti umani delle donne e mise per la prima volta in discussione il diritto degli uomini ad avere accesso garantito e indiscriminato al corpo di donne e minori finiti vittime della prostituzione.

Ne “Il mito Pretty Woman” – che nell’edizione originale in Inglese reca il titolo “The Pimping of Prostitution” – lo sfruttamento della prostituzione – l’autrice e giornalista britannica Julie Bindel sfata il mito della “Puttana Felice”, quella Pretty Woman che Cinema e Media ci hanno rivenduto dagli anni Ottanta, quando le potenti lobby pro-prostituzione dagli USA sono riuscite a far passare la narrazione tossica che nella prostituzione la donna eserciti la propria libertà e autodeterminazione sessuale o addirittura una scelta di lavoro. Bindel ci offre una panoramica della realtà della prostituzione oggi a livello mondiale, a fronte di una ricerca condotta personalmente in 40 diversi Paesi, città e Stati, dove ha incontrato e intervistato 250 persone coinvolte a vario ruolo nel problema: attivisti o sedicenti tali per i diritti delle “sex workers”, papponi, compratori di sesso, prostitute in attività e fuoriuscite dalla prostituzione, donne e uomini vittime di tratta, tenutari di bordelli e sfruttatori-affaristi che reinvestono i profitti milionari nelle grandi catene dei bordelli, attivisti contro l’AIDS foraggiati dal governo, giornalisti di varia nazionalità, lesbiche, gay, associazioni di bisessuali e transgender, agenti di polizia e femministe.

Julie Bindel negli ultimi anni ha visitato bordelli legali e regolamentati in Nevada negli USA, Australia, Germania e Olanda e zone “gestite” come a Zurigo, Amburgo o Leeds in Gran Bretagna, e si è recata nel poverissimo Downtown East Side di Vancouver dove centinaia di donne e ragazze native pellirosse vengono prostituite e uccise. Nel Gujarat indiano ha visitato un villaggio che sussiste grazie alla prostituzione di madri, mogli, sorelle e zie, a Istanbul è riuscita a intervistare uomini turchi in fila davanti a un bordello legale, mentre in Cambogia ha conosciuto le prostitute che vivono lungo una linea ferroviaria dismessa a Phnom Penh senza acqua e servizi igienici e su cui la Ong WNU lucra finanziamenti governativi presentando quelle sventurate come “Attiviste per i diritti delle sex workers”.

Nel suo libro Julie Bindel ripercorre la storia del movimento abolizionista contemporaneo, dai suoi esordi con il movimento internazionale WHISPER (Donne in rivolta che hanno subito violenza nel sistema prostituente), fondato nel 1985 negli USA da Evelina Giobbe e che riuniva donne sopravvissute e fuoriuscite dal sistema prostituente, per giungere fino all’attuale SPACE International (Attiviste internazionali provenienti da nove Paesi sopravvissute all’abuso della prostituzione che chiedono di illuminare l’opinione pubblica).

Evelina Giobbe fu la prima trent’anni fa a evidenziare le analogie esistenti nelle moderne società patriarcali occidentali tra l’atteggiamento tenuto dalla Destra e dalla Sinistra relativamente al diritto di accesso del maschio nei confronti del corpo femminile: entrambi gli schieramenti sono interessati a controllare e di conseguenza regolamentare sociologicamente e quindi politicamente l’accesso ai corpi delle donne. La destra lo fa attraverso l’istituto del matrimonio e la sua tutela, la sinistra attraverso le “deroghe” libertarie della prostituzione e della pornografia. “Insomma – ha confidato ancora recentemente Giobbe alla Bindel – puoi sposare oppure comprare questa cosa, e noi siamo questa cosa”.

Mettendone in luce le contraddizioni, in parallelo, nel libro Julie Bindel tratteggia anche lo sviluppo nel mondo anglosassone e americano della potente lobby pro-prostituzione, ai suoi esordi incarnato dal gruppo liberista COYOTE (Call Off Your Old Tired Ethics cioè “Basta con la vostra vecchia morale!”) fondato nel 1973 negli USA da Margo St. James; era stato preceduto da WHO (Whores, House Wives and Others – Puttane, Casalinghe e Altro). St. James era finanziata dalla Fondazione Point, legata alla Chiesa metodista Glide Memorial di San Francisco e ricevette mille dollari dalla Fondazione Playboy. Margo St. James radunò cinquanta personalità di spicco nel comitato consultivo di COYOTE e incaricò alcune prostitute di condurre una campagna per la decriminalizzazione. Nel gruppo operarono donne che si spacciavano come “la voce delle prostitute” – senza però mai essere state nella prostituzione, bensì spesso nello sfruttamento di altre donne – affiancate da uomini anche importanti e potenti che ne sostenevano l’agenda politica e il concetto che la prostituzione fosse un lavoro come un altro: si trattava di politici, studenti, guru di associazioni e compratori di sesso che sdoganavano il marketing di questo abuso sessuale “vecchio come il mondo” rivisitandolo e riproponendolo in una forma socialmente accettabile costruita sul mito della “puttana felice” e della “puttana per scelta” o, paradossalmente, secondo i desiderata femministi più aggiornati dell’empowerment e della autodeterminazione della donna.

Xaviera Hollander pubblicò insieme a Robin Moore nel 1971 il best seller “The happy hooker” – La puttana felice – da cui furono tratti un film e una commedia musicale: grazie a questa sua finta biografia – ammise di essersi prostituita solo per sei mesi – riuscì a rendere popolare l’idea che la prostituzione sia un’attività piacevole. In Gran Bretagna Helen Buckingham, una ragazza squillo d’alto bordo, si promosse portavoce delle donne britanniche nel mercato del sesso. Fondò il gruppo PUSSI (Prostitutes United for Social and Sexual Integration – Prostitute unite per l’integrazione sociale e sessuale) che in seguito divenne PLAN (Prostitution Laws Are Nonsense – Le leggi sulla prostituzione sono una assurdità) e si alleò con Selma James, fondatrice della Campagna per il salario alle casalinghe, che chiedeva soldi allo stato per il lavoro non riconosciuto delle donne in casa. Insieme nel 1975 fondarono l’ECP (collettivo inglese delle prostitute).

Così, risciacquando il linguaggio e sostituendo ipocritamente le parole tradizionali cariche di stigma della prostituzione con altre socialmente accettabili e politically correcti termini sex work e sex workers – lavoro sessuale e lavoratori del sesso – sono diventati nell’arco di un ventennio la parola d’ordine di una lobby fatta di accademici, assistenti sociali, politici, proprietari di bordelli e di agenzie di escort (come Douglas Fox dell’International Union of sex Workers), giornalisti e manager coinvolti nel mercato pornografico e di acquirenti del sesso – una lobby ben finanziata negli USA che è riuscita anche ad accaparrarsi gli abbondanti fondi governativi per la lotta all’AIDS – con lo scopo di decriminalizzare l’industria del sesso e il suo mercato globale, trasformando dopo la mafia anche i comuni papponi in manager abili nel gestire il diritto degli uomini di abusare impuniti del corpo delle donne.

WHISPER ha rappresentato una sfida diretta all’idea che la prostituzione fosse o una libera scelta o un lavoro come gli altri e sul suo modello sono nati altri gruppi abolizionisti e anti-tratta: nel 1988 è sorta la Coalition Against Trafficking in Women che si è diffusa nelle Filippine, Bangladesh, Indonesia, Thailandia, Venezuela, Portorico, Cile, Canada, Norvegia e Grecia. Erano gli anni in cui il Turismo sessuale in quei Paesi stava diventando molto popolare.

Secondo Evelina Giobbe per mettere fine alla prostituzione e fermare gli uomini che la alimentano – i puttanieri – le donne comuni devono avere il coraggio di guardare in faccia gli uomini che hanno davanti tutti i giorni: i loro uomini. Ma le donne questo gesto che potrebbe destabilizzarle non lo vogliono fare, perciò preferiscono fare un passo indietro e continuare a credere che la prostituzione sia una libera scelta, altrimenti dovrebbero convincersi che i loro uomini sono dei perversi e degli stupratori. Norma Hotaling, sopravvissuta all’abuso sessuale infantile e alla prostituzione di strada, sopportata solo al costo di diventare eroinomane, dopo essersi disintossicata ha fondato SAGE (Standing Against Global Exploitation – Prendiamo posizione contro lo sfruttamento globale) per aiutare altre tossicodipendenti finite nella prostituzione e vittime di violenza.

Nel 1996 nella popolosa città di St. Paul nel Minnesota la sopravvissuta dal mercato del sesso Vednita Carter fonda Breaking Free, associazione che offre sostegno specifico, counseling e corsi di formazione e programmi di uscita per vittime di prostituzione. La maggioranza delle donne che si rivolgono a Breaking Free sono afro-americane, la categoria a maggior rischio di sfruttamento sessuale nel Nord America. Vednita è convinta che i servizi offerti vadano modulati per le donne a seconda dello stadio del loro processo di uscita dalla prostituzione: “Voglio che le donne sappiano che hanno un posto dove andare e che non saranno cacciate solo perché non sono pronte a uscire subito dalla prostituzione; può essere un processo lungo e complicato e se scoraggiamo queste ragazze giudicandole perché non stanno passando a un’altra vita, le perdiamo. Sono talmente emarginate e spesso viste come quelle che “scelgono” quella vita, perché davvero tanta gente bianca le vede in questo modo, invece di vedere l’assenza di alternative per loro”.

Poiché le varie Chiese possono contare su una stabile disponibilità economica, in molti Paesi stanno prevalendo i servizi di assistenza alle donne vittime di tratta e prostituzione gestiti da organizzazioni religiose, che agiscono ottimamente ed eticamente senza obbligo per le donne di diventare religiose praticanti prima di uscire dalla prostituzione, o di diventare religiose perché hanno beneficiato di questi servizi. Ma i programmi di fuoriuscita offerti da gruppi e associazioni femministe abolizioniste si avvantaggiano della fondamentale esperienza delle sopravvissute che collaborano con attiviste, psicologhe, giuriste e mediche esperte sulle cause e le conseguenze della violenza maschile sulle donne. Anche Rae Story, fuoriuscita dalla prostituzione nel 2015 e attivista femminista socialista conferma che “Oggi le necessità prioritarie sono case di accoglienza temporanea, counseling gratuito, assegni statali, servizi di welfare e disabilità per quelle di noi che soffrono di sindrome postraumatica da stress e problemi mentali come risultato della prostituzione”.

Fra le attiviste abolizioniste più attive negli ultimi anni si segnala Rachel Moran, di cui è stato recentemente pubblicato il libro “Stupro a pagamento, la verità sulla prostituzione – nella traduzione di Resistenza Femminista Round Robin Editrice 2017”. Rachel Moran, finita nella prostituzione di strada e poi al chiuso nei bordelli e centri massaggi irlandesi dai 15 ai 22 anni è la sopravvissuta fondatrice di Space International (Survivors of Prostitution-Abuse Calling for Enlightenment – Sopravvissute all’abuso della prostituzione che chiedono di illuminare l’opinione pubblica). Dal 2002, nei suoi viaggi in oltre 20 nazioni e in diverse sedi internazionali, incluso il Parlamento Italiano, il Parlamento Europeo, le Nazioni Unite e la Harvard University di Boston, Rachel ha portato la sua testimonianza spiegando che la prostituzione non è “né sesso, né lavoro” e il fatto che ci sia di mezzo del denaro non cambia la natura di quello che succede, cioè che si tratta di uno stupro a pagamento, reiterato, traumatico e devastante per la donna prostituita e costantemente “rimosso” nella percezione della maggior parte delle persone comuni perché ipocritamente ignorato, negato e normalizzato anche nella nostra società patriarcale capitalista.

Il sesso infatti esiste solo nella reciprocità del desiderio, mentre la prostituzione è soltanto una compensazione per un abuso sessuale che si è costrette a subire per sopravvivere e non si può in nessun modo parlare di lavoro in quanto la prostituzione è sostitutiva del lavoro, costituendo per migliaia di donne e bambine nel mondo il tentativo di avere una forma residuale ed estrema di sostentamento economico, quando il lavoro non c’è. Si smetta dunque consapevolmente di usare il termine “sex work” che fu inventato nei primi anni Ottanta da Carol Leigh, e adottato dall’industria del sesso di San Francisco nel periodo in cui dilagava l’AIDS per normalizzare e sanitarizzare la prostituzione, ma che soprattutto dopo la diffusione del fenomeno della Tratta si è rivelato per quello che è: un trucco linguistico “politically correct” – denunciato anche dall’icona femminista Kate Millet – che copre e occulta una situazione orribileun linguaggio che normalizza invece che opporsi alla violazione dei diritti umani e alle forme nuove di neocolonialismo funzionali alle società occidentali sviluppate sulla asimmetria e diseguaglianza di potere fra uomo e donna nella domanda di sesso.

Rachel Moran si batte insieme alle ormai numerose attiviste della rete abolizionista mondiale anche in CATW –coalizione contro la tratta delle donne e la European Women’s Lobby perché gli Stati adottino il Modello nordico nella legislazione e combattano il fenomeno della tratta delle donne e delle ragazze dai paesi economicamente svantaggiati verso quelli sviluppati dell’occidente capitalista per impedirne il loro sfruttamento sessuale.

In particolare sono convinte della necessità dell’adozione del modello legislativo nordico le femministe radicali che si ispirano al pensiero della statunitense Andrea Dworkin e della belga Luce Irigaray e in Italia alle pensatrici della seconda ondata del femminismo – quello detto “della differenza” che a partire da Carla Lonzi si esprime negli anni Settanta con personalità come Luisa Muraro, filosofa, linguista, docente e femminista, fondatrice insieme ad Adriana Cavarero e altre della comunità filosofica Diotima, oltreché animatrice a Milano negli anni Settanta insieme a Lia Cigarini, Elvio Fachinelli, Lea Melandri e altri di fondamentali esperienze di didattica antiautoritaria e dell’esperienza intellettuale della “Libreria delle donne”.

In questo continuo passaggio di testimone interno al Femminismo, anche le femministe radicali italiane di fronte al dilagare della Tratta ritengono sia giunto il momento di andare oltre la legge Merlin del 1958 per abbracciare, all’interno di una società capitalista, il Modello legislativo nordico, convinte sia la giusta strategia per contrastare qualsiasi mercato costruito sulla vulnerabilità, lo sfruttamento e la disperazione di un essere umano e sostenere le persone, in gran parte donne, ridotte a vendere l’accesso al proprio sesso, penalizzando invece la domanda maschile e gli sfruttatori. Lina Merlin si rifiutò sempre di definire la prostituzione un lavoro come un altro e con la legge a lei intitolata ha liberato le donne che venivano schedate, rinchiuse nei bordelli e bollate con infamia per l’abuso compiuto su di loro dagli uomini.

Il modello nordico neo-abolizionista

Radicato nella cultura dei diritti umani di matrice scandinava, il Modello nordico si prefigge di frenare la domanda di prostituzione e di promuovere l’uguaglianza delle donne e degli uomini. La logica alla sua base è che la prostituzione è una forma di violenza e dunque il cliente pagando per il sesso commette un crimine. Nel modello nordico si ritiene che la donna che vende sesso a fronte di una compensazione economica resti comunque un partner sfruttato nello scambio e quindi la prostituta in questo sistema non viene perseguita, mentre viene perseguito il cliente che pratica l’adescamento ai fini della compravendita sessuale, oltre che ovviamente chi favoreggia e sfrutta la prostituzione. Questa legislazione – il cosiddetto Sexköpslagen – è stata adottata per la prima volta al mondo in Svezia nel 1999 ed è integrata con politiche sociali che favoriscono la fuoriuscita delle donne dalla prostituzione.

In un’ottica progressista il Modello nordico si è diffuso nel mondo e finora è stato adottato anche da Norvegia, Islanda, Irlanda e Irlanda del nord, Corea del Sud, Canada, Francia. I governi di Israele, Lettonia e Lituania lo stanno valutando e nel 2014 il Parlamento Europeo e l’Assemblea del Consiglio d’Europa hanno approvato una Raccomandazione per implementare questo modello come il più utile per affrontare la prostituzione in Europa.

Il Modello Nordico è sorto dalla consapevolezza del fallimento del modello di “regolamentazione” della prostituzione legale sperimentato da socialdemocratici e verdi in Germania dal 2002 e poi in Olanda: qui la prostituzione legale al chiuso, negli auspici dei socialdemocratici si sarebbe dovuta trasformare in un lavoro come gli altri, con un capo, un contratto di lavoro e un sindacato e avrebbe dovuto svolgersi fuori dalle strade, lontano dagli sguardi dei benpensanti e dei bambini. Nella realtà la prostituzione nel cuore dell’Europa e in Svizzera (dove si possono prostituire anche le ragazze dai 16 anni) è diventata un mega business sotto la supervisione dello Stato in città come Amburgo o Stoccarda o Zurigo e un’enorme possibilità di sfruttamento economico per i tenutari di catene di bordelli – che percepiscono per ogni prostituta almeno 140-160 euro al giorno e alimentano un turismo maschile sessuale europeo dell’ordine di milioni di uomini – e una grande occasione per la rendita immobiliare dei proprietari di case, ma non è invece diventata un lavoro normale per le prostitute che continuano ad aumentare di numero.

Le donne in prostituzione nei Paesi dove essa è “regolamentata” sono diventate ancor più socialmente invisibili e stigmatizzate, povere e intrappolate in un sistema infernale. Lo evidenziava già nel gennaio 2007 il rapporto ufficiale sull’impatto della nuova legislazione pubblicato dal governo tedesco, oltre ad alcuni articoli apparsi nel 2012 sul quotidiano tedesco Der Spiegel nel decennale di entrata in vigore della legge. Anche Eurostat in un rapporto del 2013basato su dati ufficiali evidenziava come la condizione delle donne coinvolte nella prostituzione non era affatto migliorata con una legge che ne regolamentava la pratica.

A fronte di una popolazione di 80 milioni di abitanti, oggi in Germania ci sono 400.000 donne nella prostituzione e si stima che 1.200.000 uomini acquistino sesso ogni giorno. Ciononostante, l’impostazione legislativa in Germania e Paesi Bassi non è ancora stata modificata. La verità è anche che solo una minoranza di donne in prostituzione in Germania sono tedesche, mentre la maggioranza è affluita qui da tutta Europa dopo la caduta del Muro di Berlino soprattutto dai Paesi poveri dell’Est europeo come Ucraina, Moldavia, Romania, e più recentemente dai Paesi africani e asiatici di provenienza della Tratta. Sono ragazze, anche minorenni, in gran parte analfabete che devono mantenere tutta la famiglia; molte anche le Rom e le ragazze-madri, che esercitano mentre i figli crescono in braccio ai papponi. Tutte sono strangolate economicamente, ridotte a schiave e costrette a rimanere in una catena di sfruttamento legalizzata in cui anche lo Stato pretenderebbe la sua fetta di guadagno. Ma nella realtà neanche lo Stato ci ha guadagnato, dal momento che solo una minoranza ridicola, 44 (di cui due uomini) su 400.000 si sono di fatto iscritte e “regolarizzate” negli elenchi delle Camere di Commercio per pagare le tasse in regime forfettario.

Come ha raccontato una sopravvissuta italo-tedesca in un’intervista raccolta da Marina Terragni per Il Corriere della Sera “L’idea un po’ romantica e ingenua che gli uomini vadano a prostitute per farsi una scopata e via, va dimenticata. Una scopata se la possono fare con chiunque. Mica è “Pretty Woman”: vengono da te per ben altro. Vedono il porno (in TV e nel Web ndr.), ti chiedono di indossare falli artificiali, di travestirsi con parrucca o intimo femminile. Ci sono i feticisti, i coprofagi. Vanno molto i giochi con l’urina. Dall’anal sex alla zoofilia, un repertorio sterminato. Sono sporchi, maleodoranti, spesso ubriachi e strafatti. Pagano il diritto di scatenare quello che hanno dentro, e tu sei solo una latrina, né più né meno. Devi tacere, fare e lasciare fare, e saper fingere piacere. Ti pagano, e pretendono anche che tu sia soddisfatta delle loro prestazioni.

Qual è il senso profondo dell’andare a prostitute?Non si tratta di sesso. In questione c’è ben altro. È un mix tra il potere che ti dà il fatto di pagare e il piacere di umiliarti. Il tutto veicolato da una violenza di base. Hai a che fare con qualcosa di guasto. Una specie di camera di compensazione. L’uomo si sveste per un’ora o due dei ruoli che deve sostenere e si concede di manifestare una parte di sé che normalmente devo tenere compressa e nascosta, un suo doppio impresentabile.

Renate Van der Zee, giornalista olandese che non era abolizionista, ma si occupava di violenza sulle donne, nel 2013 ha pubblicato un nuovo studio critico dal titolo tradotto “La verità dietro il quartiere a luci rosse” e nel 2015 una indagine sulla domanda di prostituzione dal titolo “Uomini che comprano sesso”. In Nuova Zelanda la violenza sulle prostitute è aumentata ulteriormente dopo l’adozione del Prostitution Reform Act del 2003, il modello della de-criminalizzazione totale: la prostituzione, come il suo sfruttamento, favoreggiamento, reclutamento o induzione e organizzazione sono stati tutti legalizzati e dunque “normalizzati”. Le attività si svolgono in tutta comodità al chiuso, con controlli sanitari esigui e lasciati alla discrezione di ufficiali sanitari che si sono rivelati spesso inadempienti perché anche loro non sanzionabili e qualsiasi comportamento dei clienti e degli sfruttatori delle ragazze è accettato e normalizzato. Il potere dei papponi è ormai fuori controllo: sono loro a stabilire prezzi e prestazioni, sono loro che nascondendosi dietro la maschera perbenista dell’uomo di affari gestiscono la Tratta delle donne e delle bambine in un regime di totale impunità. A causa della decriminalizzazione anche la polizia non ha più l’obbligo di indagare. Il mercato del sesso nella sua versione più spietatamente neoliberista usa i corpi delle donne sottoponendole a ogni genere di violenza.


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Femminismi radicali ed utopistici


(L’Adige, 20 gennaio 2019)


– In un libro di Deborah Ardilli i manifesti teorici degli anni Settanta

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di Alessandra Bocci (La Gazzetta dello Sport, 16 gennaio 2019)


– «Giusto portare la Supercoppa qui? Non bisogna essere ipocriti, con questi paesi si fanno affari in continuazione».

La testimonianza

«Il Principe lo ha capito, ha dato il via ai cambiamenti»

La giornalista e saggista: «Ora qualcosa si muove per le donne. E lo sport nelle scuole è importante: combatte obesità e diabete»

Se vuoi finire, comincia. Difficilmente l’Arabia arriverà ad avere una società aperta, perché ha una cultura e una storia profondamente diversa da quella dei paesi occidentali, però le concessioni di Mohammed bin Salman sono un inizio e hanno permesso di accelerare un processo che probabilmente era in atto in parte della società. Michela Fontana, matematica, giornalista, saggista, ha scritto fra l’altro «Nonostante il velo», che raccoglie tante voci e contraddizioni, come racconta, che ha vissuto un po’ ovunque, a Riad dal 2010 al 2012.

«È quando ci sono tornata un anno dopo si respirava già un po’ il clima delle riforme. Bisogna sempre mettere le cose in un contesto: queste sono riforme concesse dall’alto, chi si mette a protestare può finire in carcere o andarsene, come Rahaf, scappata chiedendo aiuto su Twitter e ha avuto asilo politico in Canada. Queste riforme non danno libertà di espressione, ma concedono alle saudite la libertà di fare cose che prima non potevano immaginare».

Com’era abitare in Arabia Saudita qualche anno fa?
«Anche le donne straniere dovevano coprirsi e non potevano guidare, per esempio. Una volta ti portavano la “abaya” da indossare direttamente all’aeroporto. Ora la patente è un vantaggio per le ragazze alle quali è stato concesso di lavorare. È vero che se una fa la commessa difficilmente ha i soldi per l’auto, ma non bisogna negare che ci siano stati dei passi avanti».

Dicono che Gedda sia più aperta di Riad.
«Storicamente è così. Era una città di pellegrini, c’era più mescolanza di culture. I Saud l’hanno inglobata nel loro regno negli anni Trenta, Gedda rispetto a Riad ha radici diverse. A Gedda vedevi le ragazze con le amiche nei bar, alcuni bar, già prima delle riforme. È innegabile che qualcosa si stia muovendo, anche perché questa nuova classe dirigente ha capito che una nazione non può restare legata a un modello medievale. L’Arabia Saudita è tornata indietro per vari fattori negli anni Ottanta, quando la chiusura è stata assoluta. Ma la società bene o male va avanti e ho l’impressione che questo principe ereditario un po’ capisca che deve riformare, un po’ rincorra i cambiamenti.  I sauditi, anche la famiglie molto conservatrici, sono fieri di mandare la figli a studiare all’estero, eppure restano conservatori. Lo sono anche le donne, che spesso sono le prime a non condividere i nostri modelli occidentali. Sono abituate a essere protette, tenute in casa per fare figli. Ora molte vogliono studiare e lavorare, si sposano tardi, fanno meno figli. Queste riforme le lasciano in una condizione di segregazione, ma stanno cambiando la qualità della loro vita e lo sport ha funzione importante: non solo poter andare allo stadio da sole, ma anche praticare sport liberamente. L’introduzione dello sport nelle scuole è stato importante per combattere problemi come obesità e diabete».

Come fanno quelle che studiano all’estero a calarsi nella loro realtà quando tornano a casa?
«Anche molte saudite sono conservatrici. Anche qualche anno fa era permesso loro di andare all’estero a studiare con delle borse di studio istituite dal sovrano precedente, ma con un fratello, un parente, un guardiano: non vivevano veramente all’occidentale. Ecco, quando Mohammed bin Salman avrà il coraggio di affrontare il problema del guardiano avverrà la vera rivoluzione, ma è complicato».

Ha fatto bene la Lega calcio a portare la partita a Gadda?
«Non bisogna essere ipocriti. Con questi paesi illiberali si fanno affari in continuazione, penso alla Cina o alle commesse delle imprese italiane per la metropolitana di Riad. L’Arabia è particolarmente arretrata sul piano delle libertà civili, ma è difficile isolare un paese. E nessuno ha mai veramente isolato l’Arabia Saudita».

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Commento di Michela Fontana alla situazione femminile in Arabia Saudita


di Michela Fontana (gennaio 2018)


Nonostante il velo (Morellini – VandA.ePublishing 2018)

Cosa succede alla “questione femminile” in Arabia Saudita? Paradossalmente le riforme messe in atto dal principe ereditario Muhammed bin Salman, accolte positivamente dalle opinioni pubbliche saudite e internazionali, come la concessione alle donne di guidare l’automobile, di assistere – nel settore riservato alle famiglie – alle partite di calcio, di ricevere un sms quando il marito ha deciso di divorziare (prima non veniva nemmeno loro notificato), mettono ancora più in evidenza la mancanza di libertà delle donne, ancora oggi costrette a dipendere legalmente tutta la vita da un guardiano (padre, marito, parente maschile o giudice islamico), che poi è spesso l’autore di soprusi e violenze su di loro. Le donne sono ancora oggi costrette a sottostare ad una cultura e una religione patriarcale che le considera proprietà dell’uomo. Lo dimostra in modo clamoroso la vicenda della diciottenne saudita Rahaf Mohammed al-Qunun , figlia di un funzionario governativo che la sottoponeva a violenze, fuggita durante un viaggio in Kuwait e fermata all’aeroporto di Bangkok per essere rispedita a casa . La giovane, dopo essersi barricata in una stanza di hotel in aeroporto, e avere lanciato disperate richieste di aiuto e di asilo politico via twitter (ulteriore prova che per le saudite internet è realmente rivoluzionaria) è ora sotto la protezione del governo Tailandese e della UNCHR (l’ente delle Nazioni Unite preposto alla protezione dei rifugiati). Non solo, ma la giovane donna ha avuto anche l’ardire di infrangere un divieto assoluto, ovvero di dichiarare che rinuncia all’Islam, dimostrando così di capire bene il ruolo della religione, come viene professata in Arabia saudita, nel giustificare l’ oppressione femminile. Un presa di posizione molto coraggiosa dal momento che l’apostasia in Arabia Saudita e in molti paesi islamici può essere punita con la morte.
Un caso limite? Assolutamente no. Sono molte le donne saudite sottoposte a violenze di vario genere in famiglia che cercano di lasciare il paese. E fuggono anche molte attiviste , temendo di essere imprigionate, e di sparire nelle carceri senza avere nemmeno assistenza legale. Io ho conosciuto bene molte donne che hanno vissuto vicende drammatiche. Wadha, una quasi trentenne fuggita da un padre che la picchiava selvaggiamente e la chiudeva in casa per mesi se la scopriva al telefono con un amico che, dopo una fuga rocambolesca attraverso il Bahrein e Londra, ha raggiunto il Canada dove ha ottenuto asilo politico. Oppure Omaima, una attivista per i diritti umani e medico che , temendo di essere imprigionata per le sue posizioni femministe, (come Eman El Nafjan, attivista per i diritti alla guida in prigione senza processo dallo scorso maggio) è arrivata in Italia dalla Cina, dove si trovava per studiare e ha ottenuto asilo politico nel nostro paese. Potete leggere le storie di Eman, Omaima, Wadha, e molte altre ancora, nel mio libro Nonostante il velo (Morellini – VandA.ePublishing) nella nuova edizione attualmente in libreria.

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Il potere segreto della Bibbia


di Guido Benzi (Parole di Vita, gennaio 2019)


Vetrina Biblica

Simone Venturini
Il potere segreto della Bibbia. Per scoprire Dio e se stessi
VandA.ePublishing, Milano 2017
pp. 170, 15,60

 

Il titolo originale e accattivante di questa breve e intensa introduzione alla lettura della Bibbia rivela già i destinatari dell’opera: interessati ma non specialisti, lettori in ricerca di senso religioso, persone attratte dal testo sacro ma perplesse di fronte alle difficoltà di lettura e interpretazione.

A questi, e a tanti altri, il biblista Simone Venturini offre un agile volumetto in cui si affrontano direttamente molte domande che affollano la mente di chi – pur nel tramestio delle tante incombenze giornaliere – vuole coltivare uno spazio di interiorità a partire dalla lettura delle Scritture. Simone Venturini, laico, sposato e padre di Raffaele e Tommaso, è docente di Scienze bibliche all’Università Pontificia della Santa Croce di Roma e officiale presso l’Archivio Segreto Vaticano. L’Autore non è nuovo nell’associare alla sua attività scientifico-accademica intelligenti pubblicazioni di carattere divulgativo, come testimonia anche il blog da lui diretto e animato (www.simoneventurini.com). Il potere segreto della Bibbia è una serie di riflessioni-meditazioni che, rigorosamente innestate su testi biblici, analizzati con finezza e perizia, delineano per il lettore un itinerario sapienziale, interloquendo anche con tematiche di attualità.
Una lettura senz’altro consigliata.


 

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4 domande a…


di Valerio Piccioni (La Gazzetta dello Sport, 5 gennaio 2019)


– «Nuove aperture ma ogni donna ha un guardiano»

4 domande a… Michela Fontana, scrittrice e giornalista

«Nuove aperture ma ogni donna ha un guardiano»

Michela Fontana, scrittrice e giornalista, ha trascorso due anni e mezzo in Arabia Saudita collezionando testimonianze raccolte nel libro Nonostante il velo pubblicato da Morellini e VandAePublishing.

Come vive una donna in Arabia Saudita?

«In un modo per noi inconcepibile. Dall’abbigliamento, con l’obbligo di coprire tutto il corpo, alla segregazione di genere che proibisce alle donne di mescolarsi agli uomini nei luoghi pubblici, consentendo loro di rimanere soltanto nei “settori per famiglie”. Per intenderci, una donna non può mai entrare in una banca, in un caffè, in un ospedale, dall’ingresso centrale. Ed è dipendente per tutta la vita da un “guardiano” uomo».

Ecco, le recenti aperture del regime sono davvero tali?

«Le aperture ci sono state. Non bisogna entusiasmarsi troppo, ma neanche ignorarle. Facciamo un esempio: prima l’attività fisica delle donne era possibile soltanto nelle scuole private, ora si sta organizzando anche in quelle pubbliche».

Quali sono le altre conquiste?

«Ci sono ora poi dei piccoli ambiti in cui la donna può ora fare da sola, senza l’autorizzazione del suo “guardiano” uomo. E le donne possono guidare anche se non va dimenticato che proprio le attiviste più coraggiose nel rivendicare quel diritto sono finite e sono tuttora in carcare. Non dobbiamo dimenticarci che l’Arabia saudita è un Paese dove Re e Governo hanno un potere assoluto, di vita e di morte, nei confronti dei loro sudditi».

Andranno anche da sole a vedere la Supercoppa?

«Assolutamente sì, arriveranno sicuramente in gruppi. Mi è capitato di incontrare diverse nei caffè o nei ristoranti, seppure soltanto nei settori dedicati alle famiglie. Credo non vedano l’ora di poter fare e vivere cose fino a ieri proibite».