“Il mercato è fatto così: ne fa sempre una questione di soldi, riconduce tutto alla misura universale del denaro”, così inizia “Temporary mother” di Marina Terragni per riflettere su come oggi la maternità a pagamento sia un colossale giro d’affari da almeno 3 miliardi di dollari.
Se inizialmente la surrogacy poteva sembrare un mezzo di liberazione per le donne oggi, anche secondo i possibilisti, le donne non si sono affatto liberate, anzi sono diventate mezzi di produzione.
Invece di riflettere su come la libertà riproduttiva delle donne sia oppressa ovunque e di come ciò infici sulla possibilità di avere o meno figli ci affidiamo al capitalismo perché ci fornisce la soluzione dimenticando che ha anche creato il problema.
Quei figli che non ci è consentito avere possiamo sempre comprarli. Basta pagare.
Leggine un estratto…
“Tante di noi resistono all’idea della maternità per contratto e per soldi, e si dicono invece possibiliste sull’“utero” solidale.
L’associazione Arcilesbica ne parla in un documento dove si dice che la GPA “se realizzata per solidarietà è altruistica, se si dà per un compenso è commerciale. La GPA può sussistere nel momento in cui risulta essere un atto volontario, per sottolineare questa volontarietà è necessaria la gratuità, anche economica, del gesto…”. Gratuità che peraltro si realizza solo in un numero pressoché insignificante di casi: normalmente si tratta di una transazione economica.
Anche in quei paesi, come il Canada, dove la legge riconosce alle gestanti per altri un’indennità comprensiva del rimborso delle spese mediche, si tratta in realtà di un compenso a tutti gli effetti. Le donne si offrono per avere quei soldi. Secondo Arcilesbica, il fatto che in una GPA non passi denaro costituirebbe una garanzia sufficiente. La faccenda mi pare più sottile.
Chiedere a una donna che si offra gratis o quasi gratis per il suo biolavoro è farle una richiesta molto ambigua. Su questa “generosità” è costruito tutto il marketing delle agenzie che vendono surrogacy – ci torneremo più avanti. Ma il punto è un altro.
La madre di mio padre lavorava, e aveva dato “a balia” il suo bambino neonato. Com’era giusto, le balie da latte ricevevano un compenso per il loro dono prezioso: si trattava in genere di donne povere a cui quei soldi facevano comodo.
Mio padre fu sempre affezionato alla sua balia e ai figli di lei che chiamava, come si diceva allora, fratelli di latte: c’era un lessico affettuoso che conferiva esistenza simbolica a quelle relazioni. Con lei e con quei fratelli rimase sempre in legame. Lì passavano soldi, ma la relazione rimaneva al centro. Oggi le balie da latte non esistono quasi più, ma esistono donne, spesso straniere, che affiancano o sostituiscono la madre nel lavoro di cura della creatura e per questo ricevono un compenso. Si tratta in questo caso di accudimento, di nutrimento affettivo e non del latte. Anche qui i soldi non surrogano la relazione, sono solo una componente della relazione, dalla quale peraltro la madre non scompare.
In questione non è nemmeno il quanto, come tante e tanti ritengono: e allora la cosa va bene se si tratta di un semplice rimborso, non va bene se è un canone di locazione pieno. Si tratta piuttosto di capire che cosa si compra, con quei soldi. Se si compra il diritto di rompere la relazione e fare sparire la madre dalla vita della creatura. Se i soldi diventano un sostituto, un surrogato di quella relazione. Vero che in una GPA autenticamente solidale io quella donna non dovrei pagarla. Ma potrei decidere di farle un gran dono, o anche di darle dei soldi: il fatto non è questo. Quello che conta è che io non paghi quella donna perché sparisca e si lasci cancellare dalla vita della creatura e dalla mia. Che io non pretenda di surrogare quella relazione con il denaro.
Il modello potrebbe essere quello di una libera relazione tra due donne, come nel caso delle balie da latte, in cui nessuna debba scomparire dalla vita della creatura e dell’altra madre. Una relazione in cui la gestante accetti il rischio e la gioia di quella relazione possibilmente per la vita, e non solo di offrire per nove mesi il suo grembo. In questo modo non sparirebbe la madre. Sparirebbe invece la gran parte dei problemi che pesano sulla vita di questi bambini. Sarebbe chiaro da subito com’è andata. E che loro sono i figli fortunati di un plus d’amore.
Per Rosemarie Tong il problema non sta nella GPA in sé, ma nell’uso che ne viene fatto in un contesto patriarcale: “La maternità surrogata diventa fonte di sfruttamento se gli uomini hanno il controllo delle regole, dei tribunali, del corpo delle donne”, dice. “L’etica femminista richiede che le donne denuncino, resistano, e sconfiggano questi e altri tipi di controlli di stampo patriarcale. Solo allora saremo in grado di poter determinare se la maternità gestazionale abbia realmente un futuro come una modalità di riproduzione veramente collaborativa – un processo che aumenti la libertà e la felicità delle donne che scelgono di aiutarsi le une con le altre per avere un figlio” (Nuove maternità).
Quando sono gli uomini a decidere, quando le leggi, e in particolare le leggi di mercato, sono le loro, apri la porta all’utero “etico e solidale” e di lì passerà il business della GPA commerciale: di tutto viene fatto profitto.
“Le dimensioni del debito pubblico italiano sono un fattore di rischio che ostacola qualunque politica di sviluppo della nostra economia. Un problema annoso, tema di dibattito e di scontro a ogni vigilia del voto. Le politiche di austerità volte ad arginare il debito si sono rivelate inefficaci, oltre che dolorose. In un’Italia afflitta da disoccupazione e vaste sacche di indigenza occorrono provvedimenti adatti a promuovere consumi, investimenti, occupazione e reddito. E il loro ineludibile presupposto è la disponibilità di moneta”.
Pierangelo Dacrema in “La buona moneta” offre una raccolta di spunti per un’economia del futuro.
Se, come spesso accade nei ragionamenti economici, il denaro è sia causa che soluzione come procurarsi moneta?
Leggine un estratto…
“L’idea all’origine della proposta che formulerò in modo articolato nella terza parte di questo lavoro non è affatto nuova. Nuova semmai è la proposta, anche sotto l’aspetto tecnico.
L’idea, infatti, è stata non solo formulata ma anche applicata con successo nella prima metà degli anni Trenta del secolo scorso, ed è alla base del “miracolo” compiuto dalla politica economica del governo nazionalsocialista prima della sciagurata decisione di scatenare la guerra in Europa e nel mondo.
A tale proposito credo che si possa trovare ormai ampio consenso sul principio per cui una condanna senza appello del nazismo per gli orribili delitti e le devastazioni di cui si è reso responsabile sia compatibile con un’analisi degli apprezzabili risultati da esso ottenuti, fino al 1937, sul piano economico-sociale. Studiosi come Joachim Fest non hanno esitato ad ammettere 1 che, se Hitler fosse morto prima del 1938 – o non avesse invaso l’Austria perseverando poi nel folle disegno che avrebbe scatenato la seconda guerra mondiale –, sarebbe stato ricordato come un grande statista tedesco, forse il più grande.
Quando Adolf Hitler, nel gennaio del 1933, riceve da Paul von Hindenburgh l’incarico di formare il nuovo governo, la Germania è un Paese allo stremo. Sono fatti noti, ma è il caso di ricordarli brevemente. Una trentina di partiti e sei milioni e mezzo di disoccupati – poco meno di un quarto della forza lavoro del Paese – rendono la situazione potenzialmente esplosiva. La nazione è oberata di debiti per le riparazioni di guerra, praticamente impossibili da pagare, l’indigenza è diffusa, un gran numero di famiglie e di individui è alla fame. Ed è proprio cavalcando questo malcontento che lo NSDAP – Nazionalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei – ottiene un risultato elettorale più che soddisfacente. Con le parole roboanti e lo stile tipici di un dittatore che si trova a un passo del potere assoluto, Hitler fa alcune promesse ai tedeschi. E le mantiene. Con un Rudolph Hess sorridente e ammiccante al suo fianco, si rivolge a un pubblico osannante ricordando che lui e i suoi seguaci erano in sette, all’inizio. E che ora sono diventati milioni.
Per questo potrà permettersi di selezionare, allontanare gli opportunisti e gli incapaci, scegliere i migliori. Parlando d’economia, giura di avere come unico obiettivo il benessere del popolo tedesco, e assicura di tenere ben presente come la prosperità nasca dal lavoro, dall’attività del popolo, e non dal denaro, che ne è banale e meccanica conseguenza. Promette che lo Stato non lascerà isolati gli individui operosi, volenterosi e intenzionati a collaborare, a entrare in azione a vantaggio di tutti. Garantisce un controllo dello Stato sull’attività dei privati e un rapporto di collaborazione tra Stato e industria destinato ad aumentare la produzione e una distribuzione della ricchezza nazionale attenta ai meriti e ai bisogni individuali.
Con la nazionalizzazione di diverse grandi imprese, ma sempre in dialogo con l’industria privata, lancia un programma di investimenti pubblici volto a rivoluzionare il sistema dei trasporti, a potenziare le infrastrutture, a dare ai tedeschi nuove prospettive. Artefice della politica economica del governo nazista dall’inizio del 1933 alla fine del 1937 è Hjalmar Schacht, che non è nazionalsocialista (e per di più ha origini ebraiche). Ciò a riprova di come certi giudizi possano, e forse debbano, tenersi separati. È probabile che Schacht avesse visto in Hitler il capo di una forza politica – eccentrico sia il capo che il partito da lui creato – capace di mettersi alla guida di un Paese bisognoso soprattutto di: a) godere di un periodo di stabilità politica; b) approfittare di tale periodo per risollevare le sorti di un’economia che versava in condizioni disastrose. È probabile, anzi, quasi certo, che Hitler accarezzasse fin dal 1933 i suoi perniciosi disegni di guerra e di dominio sull’Europa, e che avesse visto in Schacht l’uomo giusto per realizzarli (senza un’economia forte alle spalle, la guerra sarebbe parsa una follia anche al più folle dei dittatori). Perché la scelta del Führer si è rivelata (malauguratamente) intelligente? Stiamo parlando, ripeto, di eventi e di uomini ben conosciuti. Ma ripercorrere in estrema sintesi alcuni brani del passato può rendere più facile l’analisi del presente e l’individuazione di possibili soluzioni per il futuro.
Si consideri che Schacht è già un eroe nazionale. Diventato responsabile economico della Repubblica di Weimar su incarico del cancelliere Gustav Stresemann nel 1923, nonché presidente della Reichsbank nel 1924, diffonde sul mercato una nuova valuta, il Rentenmark, che soppianta il vecchio marco, ormai inservibile, e sconfigge l’iperinflazione di quel tempo. Rimane al vertice dell’istituto di emissione fino al marzo del 1930, sei mesi dopo l’inizio della Grande Depressione. Hitler si esprimeva in modo enfatico, drammatico. Era amato, il suo eloquio era estremamente appassionato. Un tipo strano. Ma strana era anche la situazione.
Nel marzo del 1933 Schacht accetta di tornare a essere il presidente della Reichsbank, e nell’agosto del 1934 diventa ministro dell’Economia. I risultati ottenuti dall’economia tedesca sotto la sua guida, in pochi anni, sono oggettivamente straordinari. Già alla fine del 1936 la disoccupazione è ridotta al minimo e tutti i settori dell’industria registrano fenomenali incrementi della produzione.
È giudizio unanime che il successo di questa operazione di rilancio del sistema economico sia dovuto in buona misura ad alcune innovazioni introdotte da Schacht nel sistema dei pagamenti. Si tratta in particolare di due accorgimenti, entrambi volti all’esigenza di offrire liquidità al sistema evitando di creare un eccesso di base monetaria con la deprecabile conseguenza dell’inflazione, un problema di cui la Germania ha un ricordo fresco e drammatico. La prima innovazione riguarda le modalità di finanziamento delle importazioni, vale a dire delle merci di cui il Paese ha un estremo bisogno, soprattutto in campo alimentare.
L’idea è semplice e centrata sull’obiettivo: non deprimere il marco, la valuta nazionale. Il che significa non costringere la banca centrale a emettere marchi o a spendere valuta estera, che la banca si trova costretta ad amministrare con molta parsimonia. Le importazioni, pertanto, vengono pagate con cambiali spendibili solo in Germania, sul mercato tedesco. Il risultato è che ogni spesa all’estero (importazione) destinata a rifornire il sistema produttivo tedesco si traduce in una spesa dall’estero che alimenta il sistema ulteriormente (esportazione). Si tratta in sostanza di un baratto con esiti virtuosi, capace di scavalcare qualunque forma di intermediazione finanziaria associata di norma a qualsiasi operazione economica (considerando economica un’operazione per cui esiste un soggetto che produce e che vende – l’offerta – e un altro che acquista e consuma – la domanda). Facile fornire un esempio. L’Argentina è ricca di grano e di carne, che può esportare in abbondanza. E la Germania è in grado di produrre macchine utensili di cui l’Argentina ha bisogno per favorire un progresso tecnologico che non è capace di promuovere da sola. Benissimo. La Germania avrà il grano e la carne di cui necessita in cambio di tecnologia pagata dall’Argentina con strumenti finanziari spendibili solo in Germania. È un baratto, nient’altro che un baratto assistito e garantito dallo Stato.
La seconda idea, per quanto in tutto simile alla prima, è ancora più ardita, e si risolve in un meccanismo di finanziamento della spesa pubblica senza il ricorso a emissioni di moneta né al collocamento di veri e propri titoli di Stato. Nella Germania che i nazisti si accingono a governare la liquidità scarseggia, le aziende licenziano o, nella migliore delle ipotesi, non assumono, ed esiste una capacità produttiva largamente inutilizzata.
Occorrerebbe una politica monetaria di stimolo, fortemente espansiva, che trova però un ostacolo insormontabile nel pericolo dell’inflazione e nella diffidenza dell’Europa nei confronti di una valuta come il marco e di una nazione come la Germania, che si ha ragione di considerare risentita, umiliata, e sempre pronta a varare una politica del riarmo. Schacht decide allora di creare la Metallurgischen Forschungsgesellschaft, Società per la ricerca metallurgica (abbreviata in MEFO). L’organismo, interamente posseduto dalla Reichsbank, è una scatola vuota: non fa nulla e non possiede nulla. Però ha la peculiare e pregiata caratteristica di poter emettere cambiali garantite, di fatto, dallo Stato (più esattamente dalla Reichsbank). Queste cambiali – i titoli MEFO – rendono il 4 per cento su base annua e hanno scadenza breve, trimestrale o quadrimestrale. Possono tuttavia essere rinnovate fino a cinque anni. Attraverso di esse la MEFO – indirettamente la Reichsbank, e in sostanza lo Stato – può raccogliere denaro ma può anche pagare in via dilazionata le commesse industriali, vale a dire sostenere la spesa pubblica, finanziare la produzione e la domanda globale. Da notare che i soggetti, per lo più industriali, che accettano titoli MEFO in pagamento si rendono conto di poter decidere di non rinnovarli, o di scontarli presso la Reichsbank ottenendo moneta ufficiale, marchi. Ma non lo fanno, vuoi perché i titoli hanno un rendimento interessante, vuoi, soprattutto, perché hanno fiducia in questi titoli.
Per le aziende tedesche è prevista poi la possibilità di emettere cambiali garantite dalla MEFO, circostanza, quest’ultima, che accredita i titoli in loro possesso come strumenti di pagamento del tutto affidabili. Il risultato è che i titoli MEFO proliferano, circolano come moneta e, come la moneta, servono al finanziamento e al funzionamento del sistema economico. Si tenga presente che i MEFO sono spendibili solo in Germania. Ma è quanto si è pianificato fin dall’inizio: doveva essere la Germania a trarne beneficio. E così fu. La Germania godette per diversi anni di un regime di doppia circolazione della moneta che si rivelò molto utile per la rivitalizzazione dell’industria nazionale.”
“L’idea di un’Europa economicamente e politicamente unita – o un poco più unita di quanto lo fosse stata fino ad allora – nacque dopo il secondo conflitto mondiale. E fu di uomini che, avendo assistito alle sofferenze dei loro Paesi, immaginarono la possibilità, o meglio la necessità, che un continente devastato dalla guerra, per secoli teatro ricorrente di discordie e lotte armate, si dimostrasse finalmente capace di costruire un lungo periodo di prosperità e di pace.”
Eppure proprio questa unione ha deluso le aspettative di molti. L’euro più che un mezzo e una possibilità è stato troppo spesso percepito come un ostacolo alla realizzazione di politiche economiche adatte a diffondere il benessere.
Con “Sognando l’Europa” l’economista Pierangelo Dacrema presenta il disegno di un’Europa unita politicamente ed economicamente. Un’Europa che sia più importante della sua moneta e che torni ad essere guidata dalla grande politica.
Leggine un estratto…
“Quella di un’Europa unita sul piano economico e politico è, di per sé, un’idea forte ed edificante, ma potrebbe sembrare a molti un’utopia. Accade tuttavia che certi sogni si avverino.
Quanti obiettivi apparentemente irraggiungibili, nel corso della storia e in ogni campo, sono stati perseguiti con tenacia da individui coraggiosi e poi, con l’aiuto di qualche circostanza favorevole, sorprendentemente realizzati? Ho un vivo ricordo del momento in cui, nel corso di un’intervista radiofonica rilasciata nella tarda primavera del 1989, Giulio Andreotti – all’epoca ministro degli Esteri, e quindi persona presumibilmente “informata dei fatti” – dichiarò, chiamato a esprimersi sul punto, che della caduta del Muro di Berlino avrebbero forse, e non senza un po’ di fortuna, potuto parlare i suoi nipoti.
È noto invece che il Muro cessò di dividere la parte occidentale da quella orientale della capitale tedesca a partire dal 9 novembre dello stesso anno, e che Helmut Kohl non si lasciò sfuggire l’occasione per diventare artefice di un evento storico formidabile come la riunificazione delle due Germanie. Ciò premesso, sarebbe difficile sostenere, da parte di chiunque, che l’attuale Unione europea si stia rivelando capace di muovere passi sicuri e spediti verso i suoi stessi obiettivi originari e non abbia deluso le aspettative di buona parte dei cittadini europei: la Brexit ne è una prova tangibile, e purtroppo non la sola.
È evidente come l’Europa sia più importante della sua moneta – parlo dell’Euro, a tutt’oggi la sua creatura più compiuta –, mentre sembra talora valere il contrario. Ed è così che l’Euro viene percepito da alcuni come un ostacolo per la realizzazione di politiche economiche adatte a diffondere il benessere e non come un primo, fondamentale, strumento per il perseguimento degli scopi essenziali dell’Unione.
L’Euro è la valuta più protetta del pianeta, e questa ossessiva difesa tecnica della moneta (per statuto, l’unico imperativo della Bce è il contenimento del tasso di crescita del livello generale dei prezzi entro il 2% su base annua), con le politiche d’austerità che ne conseguono, possono sortire l’effetto di mettere in cattiva luce non solo e non tanto la moneta unica quanto l’unione di Stati che ne ha deciso l’emissione e l’utilizzo in via esclusiva. Più in generale, l’Unione europea sembra incline a occuparsi di fini limitati, specifici, e poco propensa a fronteggiare emergenze gravi: sono emblematici il ritardo e la scompostezza con cui è stato trattato un problema epocale come quello dell’immigrazione.
Gli stessi pilastri dell’Europa di Maastricht – il rispetto della soglia del 3% del rapporto deficit/Pil e del 60% del rapporto debito pubblico/Pil – privilegiano una visione rigidamente economico-finanziaria di un contesto complesso, articolato ed eterogeneo, rispetto a un’altra più flessibilmente, e più opportunamente, politica.
Eppure è noto come l’economia, non solo nel suo aspetto macro, si trovi legata, spesso in modo indissolubile, alle vicende della politica. Ragione per cui può accadere che un provvedimento di politica non economica (per esempio, un decreto del ministro dell’Interno o della Pubblica istruzione) abbia ripercussioni sul sistema economico più evidenti, se non addirittura più immediate, di un provvedimento di politica economica in senso stretto (per esempio, una diminuzione o un aumento dei tassi d’interesse, o un aumento o una diminuzione della pressione fiscale).
La sensazione è che l’Europa unita sia oggi orfana della grande politica. E non è fuori luogo ricordare, di nuovo, che cos’è riuscito a fare uno statista tedesco con una decisione che, nel 1989, apparve al mondo imprudente e potenzialmente foriera di disastri economico-sociali. A proposito del da farsi, occorre innanzitutto rendersi conto di come il progetto di un’Europa sempre più unita – tanto entusiasmante quanto di ardua realizzazione – richieda il recupero e il rilancio degli ideali che ne sono stati il motore iniziale. Solo una politica d’alto profilo può essere fonte di scelte e comportamenti destinati a generare un benessere maggiore e più equamente distribuito fra tutti i cittadini europei.
La percezione di un’inadeguatezza dell’Ue di oggi dovrebbe accomunare fautori e detrattori dell’Europa – categorie entrambe insoddisfatte, in misura e per ragioni diverse – e unirli nello sforzo comune della ricerca di un percorso più virtuoso, per quanto impervio. Possono sperare, “populisti” e “sovranisti”, di fare man bassa di voti alle prossime elezioni europee mobilitandosi solo per ottenere una sorta di mandato specifico ad abbandonare il campo o a “disfare tutto”, vale a dire tutto quel poco o tanto che esiste delle istituzioni e delle regole europee? Qualunque unione è fondata da un lato sull’esistenza di regole condivise al proprio interno, dall’altro sulla costruzione di un rapporto il più saldo possibile con la realtà che la circonda, vale a dire un sistema di relazioni che la legittimi all’esterno e le dia più forza all’interno.
Sul piano di una politica economica europea, l’esistenza di tali presupposti dovrebbe promuovere le condizioni per:
1) il mantenimento della centralità dell’Euro – e un suo maggior gradimento – attraverso la restituzione di un minimo di flessibilità alle politiche monetarie nazionali, anche a costo di un lieve innalzamento del tasso d’inflazione (per esempio, occorrerebbe concedere ai Paesi più indebitati un margine di manovra per l’emissione di valuta nazionale, ciò che evidentemente richiederebbe una revisione dei Trattati europei);
2) il sostegno di una politica industriale che favorisca il Sud dell’Europa e, più in generale, tutti i Paesi del Mediterraneo, in modo da creare, tra l’altro, condizioni di vita a livello locale idonee a scoraggiare l’emigrazione (per esempio, attraverso forti incentivi alle grandi imprese europee a investire nell’Africa del Nord, in Grecia, in Turchia e nel Mezzogiorno d’Italia).
In sintesi, è fondato il sospetto che un’insufficiente sensibilità delle istituzioni europee per certe istanze dei Paesi economicamente più fragili possa alla lunga far prevalere le tendenze centrifughe su quelle centripete. E sarebbe un vero peccato, poiché le disgregazioni e le frammentazioni possono risolvere nel breve piccoli problemi lasciandone aperti altri, ben più gravi, che le unificazioni hanno per loro natura una migliore attitudine a fronteggiare.”
Aveva forse troppo
caldo? No, per niente, era ancora marzo…
Si era imbarazzata di
qualcosa? Non mi pare.
Si era terribilmente
innamorata di qualcuno? Non ancora.
Invece sapete cosa: si era ammalata ed era diventata tutta rossa. Non poteva fare spostamenti, né uscire di casa. Allora si era proprio ammalata! Doveva stare tranquilla e aspettare il tempo della guarigione. Pare fosse arrivato un mostro o qualcosa di simile, non si vedeva, era invisibile, ma era molto potente e cattivo che aveva messo l’Italia in questa situazione. Ma non mi soffermerei troppo, parlano tutti di questo, invece, vorrei raccontarvi del tempo altro: quello dei colori.
Ai bambini e alle bambine il rosso piaceva, però preferivano tutti i colori. Bianco, verde, giallo, marrone, rosa, arancione… I tanti colori dell’Italia. I suoi colori.
“A noi tutta rossa non piace mica tanto, vogliamo ridipingerla come era prima.
Ci penseremo noi!
Noi siamo molto bravi a
colorare. A scuola lo facciamo sempre! Voi grandi siete più portati in altre faccende,
ora è il nostro tempo, mettetevi da parte.”
Perché per mischiare e
rifare i colori e dipingere l’Italia ci voleva tempo.
Ma soprattutto si dovevano
preparare i colori.
Per farlo però i grandi
avrebbero dovuto fermarsi.
Era il tempo dei colori.
Così accadde che i bambini e le bambine di tutta Italia si riunirono. Ci volle tempo perché tutti si incontrassero. Erano tanti, tantissimi bambini e bambine! Alcuni arrivarono col grembiule come dei veri pittori, altri vestiti sportivi, altri in pigiama, altri ancora in mutande e canotta, dalla fretta non si erano nemmeno vestiti non c’era poi tutto questo tempo, alcuni bambini arrivarono con le provviste: focacce e merende per tutti, altri con caramelle e ciupa ciupa.
Molti presero il sacco a pelo nel caso mentre coloravano si fossero addormentati, perché sarebbe stato un lavoro lungo. Altri caricando sulle spalle zainetti con i loro peluches, nel caso fossero rimasti lontani da casa parecchio.
Nonostante fossero moltissimi, si organizzarono benissimo. Presero enormi tavolozze di colori, tempere, pennelli di ogni misura e secchi di acqua. Con le loro mani prepararono, mischiandoli tutti, i colori: verde, giallo, arancione, marrone, rosa, viola…
All’inizio erano troppo
densi o troppo opachi o poco lucidi… Così con calma e pazienza aggiunsero
acqua. Li rimescolarono di nuovo. Doveva uscirne un lavoro perfetto. Così
ricominciarono.
Iniziarono ma passò un autobus che fece uno stridulo rumore, che confusione! Poi c’era il via vai dei negozi e della gente che continuava a uscire e andava a mangiare fuori. “Insomma non si riesce a lavorare, ci dobbiamo concentrare, dobbiamo dipingere tutta l’Italia, ma loro hanno capito?”
“Ci insegnano sempre che per studiare bene ci vuole concentrazione e poi cosa fanno?… Mah!”
Così i bambini
inascoltati passarono a tenere minacce:
“Se non la smetterete coloreremo anche voi! C’è chi diventerà arancione, chi giallo, chi verde! Avete capito?”
I grandi capirono il messaggio e si fermarono per un po’. I negozi chiusero, tranne quelli per mangiare e curarsi, bisogna mangiare anche per colorare!
E con tanto impegno
iniziarono a colorare l’Italia.
Ogni bambino e ogni bambina colorava a suo modo e proprio per questo il colore era ancora più bello.
C’è chi era più
meticoloso, chi più fantasioso, chi più estroso.
Il tempo era come sospeso perché loro dovevano colorare senza sosta. Dai che funziona! Colorate! Senza fermarvi! “Non deve uscire nessuno! Il colore si deve asciugare per bene con il tempo. Se uscirete prima lo calpesterete e dovremmo ricominciare di nuovo”.
Minuto dopo minuto,
giorno dopo giorno, mese dopo mese…
Passò il tempo e piano
piano, poco a poco, si ricominciò a vedere il verde, il bianco, il giallo, il
rosa, il marrone, il viola, il blu, l’azzurro…
I colori erano
tornati… quanta emozione.
Ma soprattutto che
soddisfazione dopo tutto lo sforzo fatto!
Una notte però l’Italia si svegliò ed era di nuovo rossa… Si era innamorata pazzamente.
Era di tutti i colori ma ora era diventata rossa solo per amore.
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Per Genevieve Vaughan linguaggio e scambio (il commercio, il mercato) non sono poi così distanti. In entrambi, secondo l’autrice, non si fa altro che soddisfare un bisogno.
C’è però nel linguaggio un senso di condivisione che nello scambio è del tutto assente.
In “Homo donans. Per un’economia del materno” l’autrice rintraccia un aspetto fondamentale del nostro essere umani: la pratica del dono che consiste in un ascolto attento e sincero dell’altro e dei suoi bisogni.
In un’indagine che si snoda tra femminismo, linguistica, semiotica, economia e antropologia Genevieve Vaughan propone di riscoprire il valore del dono per farne un nuovo tipo di economia.
Leggine un estratto…
“Secondo quanto sostiene David Gilmore nel suo testo Manhood in the Making (“Mascolinità in costruzione”, 1990), i valori adottati dagli uomini nel processo di formazione della propria identità possono essere ricondotti a una sorta di “copione della mascolinità” che rimane relativamente invariato a seconda delle diverse culture. Valori quali indipendenza, competitività, eccellenza performativa, coraggio, robusta costituzione e grossa taglia compongono i parametri di questo copione che viene adottato e costruito dai maschi per distinguersi dalle madri.
Credo che possiamo facilmente riconoscere quanto questi valori siano analoghi a quelli del capitalismo: autonomia, competitività, eccellenza performativa, attitudine al rischio e status elevato in base alla “taglia” sociale, per possedere più ricchezza o potere. Avendo abbandonato la pratica del dono unilaterale sia come genere sia come modello di produzione e distribuzione, potrebbe sembrare che solo tramite la legge o il rigore morale e religioso gli uomini (e le donne che vivono all’interno di un sistema capitalistico) possano venire persuasi a prestare attenzione ai bisogni altrui.
Eppure il perseguimento esclusivo del proprio interesse è un vicolo cieco dal punto di vista psicologico. Chi lo pratica finisce per trovare la propria vita priva di “significato”. Trovare significati a livello individuale è impresa virtualmente impossibile giacché, nel linguaggio come nella vita, il significato è legato alla comunicazione e all’orientamento verso l’altro. Ci aggrappiamo alla legge del prototipo maschile come misura del nostro comportamento ma ciò non serve a ricondurci sulla strada del dono, che ci appare sempre più un impossibile e non realistico Eden.
Nel frattempo il modello economico proposto dal copione della mascolinità continua a costruire un anti-Eden, creando miseria laddove dovrebbe esserci abbondanza, gratificando pochi con averi in quantità sempre maggiore e penalizzando molti, innalzando un muro oltre al quale l’Eden del donare rimane celato.
Uno dei vantaggi che il capitalismo ha avuto – forse il suo unico risvolto positivo – è che, attraverso l’istituzionalizzazione dei valori appartenenti al copione della mascolinità e all’introduzione delle donne nella forza lavoro retribuita, esso ha dimostrato che quei valori ipoteticamente “maschili” non poggiano affatto su fondamenta biologiche, considerato che le donne sono state in grado di adottarli con altrettanto successo. Una società basata sul dono unilaterale sarebbe in grado di dimostrare, istituzionalizzando il copione delle cure materne, che nemmeno quei processi sono limitati biologicamente alle femmine”.
Il conflitto fra le donne… non è un problemino fra isteriche ma il retaggio di un’antica ferita”, Sofie della Vanth.
Carla Lonzi diceva che la donna appartiene alla specie dei vinti ma non vuole ripetere la storia dei vincitori.
Un’operazione non sempre facile però, soprattutto quando anziché allearsi con le altre si compete. Ma perché proprio noi donne tanto famose per la nostra capacità di tessere relazioni siamo, tra di noi, così in conflitto?
Sofie della Vanth in “Il conflitto fra donne… non è un problemino fra isteriche ma il retaggio di un’antica ferita” indaga a fondo questo tema aiutandoci a fare un esercizio di autocoscienza perché solo ponendo il problema potremo affrontarlo.
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“Normalmente il conflitto fra le donne viene percepito come una faccenda privata e tacitamente accettato come condizione normale, senza un’analisi del momento storico, del tessuto politico-sociale, del paradigma della nostra società “civilizzata” in cui esso si manifesta.
Ci sono due principali contestazioni sollevate di frequente quando si parla del conflitto fra le donne, che poggiano su un pensiero generico – e non di genere –, come se non si fosse arrivate/i a comprendere fino in fondo il significato rivoluzionario del femminismo per la nostra società di oggi e di domani.
La prima dice: “Io non ho conflitti con le donne e non li conosco, non esistono nella mia vita”.
Senz’altro ci sono donne che non hanno esplosioni conflittuali in atto nella loro storia personale, lacerazioni aperte o sfuriate pubbliche e che stanno bene più o meno con tutte e con tutti, essendo bravissime diplomatiche, capaci di gestire situazioni precarie. Ciò però non vuol dire che non conoscano il conflitto, o che non ci sia. A volte si svela nell’irritata osservazione del comportamento conflittuale di amiche, incompreso come tale e considerato piuttosto una noiosa perdita di tempo e di energie. A volte si nasconde bene, come succede sovente anche tra le donne che subiscono violenza domestica. Bisogna aprire la scatola e spiegare cosa si intende per conflitto, come altrettanto bisogna spiegare come si articola la violenza – una botta di là, una denigrazione di qua – per cogliere la realtà del fenomeno. Soltanto riconoscendolo si può evitare l’applicazione del solito giudizio maschile, e spesso delle stesse donne sulle donne e le loro bizze, per aprire alla possibilità di accogliere e considerare una verità più ampia.
L’altra contestazione dice: “Non c’è differenza tra i conflitti fra le donne e i conflitti fra donne e uomini o fra uomini”.
C’è invece.
C’è differenza fra un conflitto con un oppressore o tra oppressi. Di fatto non esiste per le donne parità nella società attuale ed è indispensabile riconoscere questo come un aspetto determinante. Il campo in cui si svolge il contrasto definisce una disparità fra i sessi, e quindi le modalità e i limiti del rapporto, le speranze, le aspettative, le valutazioni sociali e il naturale accesso al potere personale.
Un altro elemento determinante è che le donne entrano subito in sintonia fra loro su un livello poco praticato, poco percepito coscientemente – se non proibito – nella cultura attuale. Vivono immediatamente un sapere disponibile e condiviso. Questa coesione tocca e attiva il “campo morfico” (di cui parleremo) femminile, in cui esistono contenuti non condivisibili con altre specie e neanche con gli uomini. Sebbene durante l’Inquisizione siano stati bruciati anche uomini, la maggior parte dei roghi è stata riservata alle donne quali rappresentanti della cultura pagana, matriarcale e del sapere femminile in collegamento con la Natura e la Terra. Questa eredità storica ricopre le donne di vergogna, umiliazione, terrore, sfiducia, negando le loro facoltà intrinseche. Impedisce di vivere serenamente nell’adempimento della pienezza e integrità e si riversa in modo differente, rispetto agli uomini, nel rapporto fra loro.
In seguito a questo sconvolgimento culturale la donna nasce, da diversi secoli oramai e ancora oggi, nella convinzione di essere colpevole, sporca, inferiore e incapace, appendice di un “qualcun altro”, il solo in grado di comprendere com’è fatta la vita e come bisogna fare. Sarebbe ingenuo credere che sia un fatto su cui è possibile sorvolare.
Bisogna scavare nel profondo per tematizzare il conflitto fra le donne come fenomeno e inventare un linguaggio adeguato per descrivere cosa sta davvero succedendo, quanto fa male, quanto occupa i nostri pensieri. Spesso rimane lì come un ulteriore avvenimento non definibile anche se ci fa soffrire, anche se limita le possibilità di realizzare progetti fra donne e lascia ferite che ci rendono caute e rassegnate, che ci incitano a rinunciare e a ignorare le vocine che cantano di altro”.
Le madri sono abituate a dare sostentamento gratis.
Da bambini infatti non possiamo dare alcun ritorno, perciò è compito della madre fare attenzione ai nostri bisogni e trovare il modo di soddisfarli.
Secondo l’autrice di “Le radicimaterne dell’economia del dono” è verso i 3-4 anni che iniziamo a capire che se diamo per primi qualcosa potremmo ricevere qualcos’altro in cambio. Una logica, spiega Genevieve Vaughan, molto diversa dal dono.
L’economia dello scambio, a differenza del dono, è infatti fondata sull’utilitarismo: do per avere qualcosa. Un sistema che conosciamo bene e che ha portato alla difficile situazione in cui ci ritroviamo oggi ossia un sistema parassitario che arricchisce i molti sulle spalle dei pochi e che trae profitto proprio dal dono.
Un’alternativa c’è ed è possibile per questo l’autrice condivide le esperienze dei popoli indigeni del Nord e del Sud del mondo dove i valori materni sono ancora al centro della società sia per gli uomini che per le donne.
Leggine un estratto…
“Siamo forse alla fine? Che cosa possiamo fare? Von Werlhof (2011) sottolinea come una reale alternativa al patriarcato capitalista debba necessariamente essere “profonda”, altrimenti è destinata a fallire. Per questo dobbiamo riconoscere le radici mortali di questo sistema a tutti i livelli della società, della storia, della vita individuale e del pianeta. L’alternativa deve essere non-capitalista e non-patriarcale, incentrata sui resti della cosiddetta “seconda cultura”, una cultura matriarcale e basata sul dono all’interno della società patriarcale senza la quale non potremmo sopravvivere (von Werlhof 2011).
Per quanto queste rimanenze siano state rese invisibili agli occhi della maggior parte di noi attraverso la violenza, possono ancora ritrovare visibilità ed essere riportate alla consapevolezza. Immaginate un mondo in cui non si diano e non si ricevano doni, in cui non ci siano cure materne o accudimento: un simile mondo crollerebbe all’istante, la sopravvivenza sarebbe impossibile. Per poter sopravvivere dobbiamo lasciarci alle spalle la mega-macchina e riconnetterci alle pratiche materne datrici di vita in ogni dimensione della vita: lasciare per vivere!”
Siamo sicure che la libertà che noi donne abbiamo conquistato sia nostra per sempre? O possiamo tornare indietro? O possiamo proprio perderla? A fronte della nostalgia per una società patriarcale che oggi una certa politica esprime e minaccia, si offrono pensieri ad alta voce.
“Cosa siamo disposte a fare per la nostra libertà” contiene due monologhi di Alessandra Bocchetti, figura autorevole del femminismo italiano, per riflettere su ciò che abbiamo conquistato, ciò che a volte diamo per scontato, ciò che rischiamo di perdere.
“Il 7 gennaio 2015 esce in Francia Sottomissione , un romanzo fantapolitico di Michel Houellebecq, dove si racconta come a poco a poco l’Islam avrebbe conquistato l’Occidente. Il libro suscita un forte scalpore. Lo stesso giorno a Parigi due uomini armati di mitra entrano nella redazione del giornale satirico “Charlie Hebdo” e uccidono dodici persone.
Sono due fratelli, i fratelli Kouachi, di religione islamica, cresciuti nella banlieue parigina, affiliati ad Al Qaeda. Con la loro azione volevano punire le vignette pubblicate dal giornale su Maometto.
L’11 gennaio, in risposta a quella carneficina, un’enorme manifestazione contro il terrorismo sfila per Parigi. Sono presenti quasi tutti i capi di Stato del mondo. Lo stesso giorno due bambine di circa dieci anni, imbottite di tritolo, vengono fatte saltare in un affollato mercato di Potiskum, in Nigeria. Alla notizia che appare sui giornali non viene prestata una grande attenzione. (Luce. Una donna davanti a un leggio)
Come tanti sono rimasta a guardare alla televisione la grande manifestazione di Parigi. Un po’ commossa, un po’ confusa, ma con la sensazione che stesse succedendo qualcosa di buono. C’erano tutti, sono sicura. Tutte le razze erano presenti, tutte le religioni e anche tutti i tipi di atei che possiamo immaginare. Ma qualcuno mancava. Anzi, qualcuna mancava. Sono stata attenta, ho cercato con intenzione in quel mare di gente almeno una donna che portasse il velo ma non l’ho trovata. Non dico il velo pesante, che non sarebbe stato possibile, ma quello che lascia scoperto tutto il viso. Delle donne con il velo. Sicuramente c’erano i loro mariti, i loro figli, i loro padri, ma loro no.
Eppure sono sicura che condividevano tutto: la commozione, la rabbia, la speranza di un mondo senza odio. Ma lì non c’erano. Erano a casa, perché “a casa” è il loro mondo, il loro posto. Ma perché le cercavo così ansiosamente in quella marea umana? Devo ora spiegare quella mia assoluta necessità. Non vorrei stare ora nei panni di Houellebecq. Certo guadagnerà un sacco di soldi, ma sono sicura che non avrebbe mai desiderato uno scenario simile per l’uscita del suo libro.
Il suo romanzo è una profezia di perdita, racconta come l’Occidente a poco a poco verrà guadagnato dall’Islam. Solo pochi anni e la Francia, dice, avrà un presidente della Repubblica islamico, sia pur moderato, e le donne di nuovo “a casa”, sottomesse alla volontà e alla padronanza degli uomini. Onestamente devo dire che non ho letto ancora il libro di Houellebecq, penso che lo farò, ma da quello che se ne racconta, e dal modo in cui se ne parla, che è anche già molto significativo, c’è una cosa che mi fa scandalo. Il fatto che le donne siano rimesse “a casa”.
Le donne occidentali. Dico noi perché di noi si parla a questo punto. Viene rappresentato come un fatto quasi meccanico, una deriva facile, senza grandi complicazioni, senza lacrime né maledizioni. Prima dentro, poi fuori, poi di nuovo dentro come fossimo corpi inerti, senza desideri, senza volontà. Corpi facilmente spostabili. È questa l’impressione che diamo? Come mai, oggi, si può ancora immaginare che si possa prescindere dalla volontà delle donne, dai nostri desideri, dal nostro amore per il mondo? La nostra immagine è ancora così debole? Le radici della nostra libertà sono ancora così corte?
Certo, la libertà delle donne è cosa nuova, una manciata di anni di fronte al peso della storia. Che le ragazze ascoltino, per favore!
Una donna francese, che oggi è lì, a place de la République, per la dignità di tutti, fino al 1968 ha avuto bisogno del permesso di suo marito per firmare un assegno. Sembra incredibile, no? Sembra incredibile che fosse cosa saggia picchiare una donna se questa donna magari saggia non sembrava.
Siamo state proprietà degli uomini per lunghi secoli della storia, nel nome e nei fatti. Abbiamo avuto anche noi i nostri califfi prima di poter viaggiare, votare, scegliere, decidere, leggere, scrivere e far di conto. La nostra libertà è stata guadagnata.
Ed ecco la domanda: saremo capaci di difenderla? O sarà facile riportarci “a casa”? Dove potremmo arrivare?
Saremmo capaci di uccidere per la libertà delle donne? Vi racconto quello che mi spaventa”.
Edito
per la prima volta nel 1990 il testo di Carol J. Adams è ancora
attuale per chi voglia confrontarsi con i temi di femminismo,
veganismo e antispecismo.
In
“Carne da macello”
l’autrice collega ed esplora le molteplici forme di oppressione che
si fondano su sesso, razza e specie. Secondo Adams riconoscere
che il consumo di carne è per gli animali non umani ciò che il
razzismo è per la popolazione nera e il sessismo per le donne
significa comprendere che queste forme di oppressione sono
interconnesse e sono l’espressione di un sistema che vede sia le
donne che gli animali in una posizione gerarchica inferiore rispetto
all’uomo.
Leggi
l’estratto…
“Cos’è
che rende la carne un simbolo e una celebrazione del dominio
maschile? Per molti aspetti, l’ineguaglianza di genere è integrata
all’ineguaglianza di specie che proclama il mangiar carne, perché
per la maggior parte delle culture la carne è procurata dagli
uomini. La carne era una derrata con valore economico e coloro che la
controllavano acquisivano potere. Se gli uomini erano cacciatori,
allora il controllo di questa risorsa economica era nelle loro mani.
Nelle società non tecnologiche lo status delle donne è inversamente
correlato all’importanza della carne: L’equazione è semplice:
più la carne è importante nelle loro vite, maggiore è la volontà
di dominio degli uomini […] Quando la carne diventa un elemento
importante in un sistema organizzato in modo prettamente economico,
per cui viene distribuita sulla base dei ruoli, gli uomini iniziano a
manovrare le leve del potere […] La posizione sociale delle donne
si avvicina a quella degli uomini solo quando la società non è
strutturata in ruoli per la distribuzione della carne.
Peggy
Sanday raccolse informazioni su oltre cento culture non tecnologiche
e trovò una correlazione tra le economie basate sui vegetali e il
potere delle donne, e le economie basate sugli animali e il potere
degli uomini: «Nelle società dipendenti dagli animali, raramente le
donne sono descritte come la fondamentale fonte di potere creativo».
Inoltre, «quando si caccia un grande numero di animali i padri sono
lontani, cioè non sono in costante o regolare contatto con i figli».
Le caratteristiche dell’economia dipendono principalmente dal
trattamento degli animali a fini alimentari, che comprendono:
la segregazione sessuale del lavoro, in cui le donne lavorano di più ma sono meno retribuite;
la responsabilità della cura dei figli a carico delle donne;
il culto di divinità maschili;
la patrilinearità.
Dall’altro
lato, le economie basate sui vegetali sono molto più egualitarie, e
ciò perché le donne erano raccoglitrici di alimenti vegetali e per
tale tipo di economia queste risorse sono incalcolabili. In queste
culture gli uomini, al pari delle donne, erano dipendenti dalle
attività femminili, ragione per cui le donne raggiungevano un alto
livello di autonomia e autosufficienza. Inoltre, dove le donne
raccolgono i vegetali e la dieta è vegetariana, le donne non
discriminano nel distribuire l’essenziale. Provvedendo a una gran
parte delle proteine alimentari per la società, le donne guadagnano
un ruolo sociale ed economico essenziale senza abusarne.”
Ti è piaciuto l’estratto? A “Feminism” la fiera dell’editoria delle donne, che si svolgerà dal 5 all’8 marzo 2020 a Roma presso la Casa Internazionale delle Donne, in via della Lungara 19 si terrà un incontro per presentare questo saggio.
Giovedì
5 marzo alle 17.00 in sala 2 Barbara
Balsamo, attivista femminista antispecista, redattrice della rivista
“Animal Studies” e “Asinus Novus”, insieme a Silvia Molè,
attivista antispecista, blogger di Fallacielogiche.it e insieme a
Flavia Fechete, attivista ecofemminista-antispecista e studiosa di
Carol J. Adams presenteranno: “Carne da macello”.
Ai bambini si dice che l’Uomo Nero non esiste. E poi si aggiunge che se ci fosse sarebbe là fuori, nelle strade. Per questo ci hanno
insegnato fin da piccole a non dare confidenza agli sconosciuti…
Ma
cosa accade quando l’Uomo Nero ha il volto di tuo padre? Quando il
pericolo non è in un indefinito “là fuori” ma all’interno
delle mura domestiche?
Questa è la storia di Katia, qui di seguito un brano
“In quell’anno, quello dei miei undici anni, mi sono venute le mestruazioni: ero diventata “signorina”. Mia madre mi aveva preparato tempo prima e una mattina mi sono svegliata con la sorpresa nelle mutandine. Ho chiamato la nonna che, senza tanti fronzoli o cerimonie, mi ha detto di mettermi l’assorbente e che ero diventata signorina. Quest’estate mia figlia ha avuto le sue prime mestruazioni e mi sono commossa quando me lo ha detto e l’ho abbracciata stretta stretta, perché in fondo resta sempre la mia cucciola, anche se cresce e diventa donna, e abbiamo festeggiato! Con lei mi trovo a condividere emozioni fortissime, mi regala una seconda possibilità di provare le gioie e le emozioni che accompagnano lo sviluppo di una bambina che diventa ragazzina e poi donna. Tornando ai miei undici anni, lui non aspettava altro: l’arrivo delle mestruazioni era il via libera per andare fino in fondo. Da tempo – non ricordo con esattezza quando – i miei genitori avevano trovato una casa più grande, con una camera in più; era in un tipico centro storico ligure, in pietra, attaccata ad altre case. Dentro era molto spartana ma carina, anche se all’epoca non me ne importava nulla di queste cose. Ciò nonostante continuavo a stare dai nonni, solo qualche sabato sera andavo a dormire da loro. Una di quelle sere – che, va da sé, mia madre aveva scelto per uscire con le amiche – lui era tutto contento, mi disse che aveva preparato una cosa speciale. Mi si rizzarono i capelli solo al pensiero, avevo una tale angoscia dentro… Aveva comprato uno di quei ditali di gomma, quelli che si usano per coprire le ferite alle dita – ancora oggi, se ne vedo uno, sto male! Disse che ormai ero diventata grande ed era ora che diventassi una donna a tutti gli effetti. Avrei dovuto essere orgogliosa, sentirmi “speciale”, sicuramente sarei stata la prima della mia classe…”
Ti è piaciuto l’estratto? Vieni a conoscere l’autrice. La potrai incontrare a “Feminism” la fiera dell’editoria delle donne, che si svolgerà dal 5 all’8 marzo 2020 a Roma presso la Casa Internazionale delle Donne, in via della Lungara 19. L’autrice, Katia M, insieme a Monica Lanfranco, giornalista e formatrice, presenterà il libro sabato 7 marzo alle 12.00 in sala 2.
Con Corrispondenze afghane Nico Piro, inviato speciale del TG3, si pone un solo, chiaro obiettivo: raccontare la complessità di un paese problematico come è quello dell’Afghanistan per il quale gli stereotipi cui ci affidiamo per comprenderlo rivelano, alla realtà dei fatti, tutta la loro inefficacia.
Quella che si combatte in Afghanistan è un tipo di guerra in cui “a morire, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono né i buoni né i cattivi, ma persone che non c’entrano nulla”. Le guerre non si combattono solo sui campi di battaglia, ma anche nelle case e nei villaggi. Attraversano la vita dei civili e la cambiano irreparabilmente.
Le condizioni di vita di tutti sono difficili ma quelle delle donne lo sono in particolare.
Leggi l’estratto che abbiamo selezionato per te da Corrisponde afghane di Nico Piro, pubblicato dal nostro marchio associato Poets & Sailors
ADDIO AL BURQA
di Nico Piro
Proprio non riesce a venderne più. Sulle pareti della sua bottega ce ne sono tanti, ormai ridotti a far tappezzeria. Ne afferra uno, se lo stende tra le braccia, e ce lo mostra. Sul viso, l’espressione di chi sa di avere in mano un prodotto di prima qualità e non si rassegna all’idea che nessuno lo compri.
Haji Abdul Sabur è uno storico produttore – l’ultimo di Kabul – di burqa sartoriali, altra roba rispetto a quelli fatti in Pakistan e venduti sulle bancarelle del mercato. La sua bottega è nel bazar lungo il fiume, il cuore della capitale che ne conserva l’antico fascino40. Per anni i suoi burqa si vendevano in automatico, oggi Abdul deve sperare nella visita di clienti che arrivano dalle campagne. Questa tunica che copre le donne dalla testa ai piedi, lasciando loro solo il varco di una finestrella retata per provare a guardarsi intorno, è stata per anni un’icona di Kabul.
Celeste nella capitale, di altri colori – nero e persino giallo sgargiante – nelle province, il burqa è stato anche uno dei simboli più strumentalizzati e agitati dalla politica occidentale per giustificare la presenza internazionale nel Paese.
Ogni volta che la politica ha tentato di sostenere quella missione poi rivelatasi “incompiuta” ha ripetuto lo slogan: “Liberare le donne dal burqa” forse ancor di più che “fermare la produzione di oppio” o “siamo lì per garantirci sicurezza qui, a casa”.
L’obiettivo, quasi due decenni dopo la caduta dei talebani, pare finalmente raggiunto: nelle strade di Kabul ormai di donne in burqa se ne vedono sempre di meno. Molte vanno in giro solo con il chador, il velo intorno alla testa che spesso passa solo intorno alla gola, senza coprire il viso dal naso in giù. A voler fare un paragone limitandosi solo al tema del velo, la situazione a Kabul assomiglia a quella del confinante Iran (ma senza le sanzioni di legge imposte alle donne che il velo non lo indossano) mentre le cose vanno molto meglio rispetto all’ Arabia Saudita, principale alleato occidentale e luogo dove l’estremismo si è fatto Stato. Un cambiamento ben testimoniato anche dai manifesti elettorali. Com’è potuto accadere tutto questo in una città dove fino a sei-sette anni fa le uniche donne coperte solo con il velo le trovavi negli uffici e in generale in luoghi chiusi al pubblico, dove per giunta ricoprivano ruoli importanti?
Non è merito della “democrazia” né del miglioramento della condizione delle donne, un miglioramento certo importante ma limitato e fragile come del resto dimostrano le mai cessate violenze domestiche e i matrimoni combinati, come da antica tradizione tribale.
Per capire cosa sia accaduto, dobbiamo andare sull’Airport Road. Alcune donne in burqa spiccano ai lati della strada, all’apparenza sono lì di passaggio, in attesa di qualcosa. In realtà sono prostitute che usano il burqa per non rendersi riconoscibili, lavorano su questa come su altre strade. Questo tipo di prostituzione – assieme a quella che impiega donne cinesi, cominciata sin dalla fine della prima decade del 2000 – è diventata sempre più una delle attrazioni di Kabul, almeno per gli uomini che vengono dalle province. Si parte da dieci dollari in su a seconda del rapporto ma se prima di pagare vuoi vedere il viso della donna che hai appena fatto salire in auto, devi versare un’altra somma – in moneta locale circa 500 afghani. A questo punto puoi decidere se quella donna va bene per te oppure se farla scendere.
Questa è la prostituzione di “livello” più basso offerta dalla capitale tanto che i clienti occasionali sono spesso bersaglio di furti, le prostitute li borseggiano sapendo che non andranno mai a denunciarle per vergogna, anzi per doppia vergogna: erano con una prostituta e si sono fatti fregare.
Lavorano su strade come la Airport Road, dove c’è meno traffico ed è facile per i clienti fermarsi e farle salire a bordo. Portano il burqa esattamente come quelle donne che trovi accovacciate sui marciapiedi oppure che vedi aggirarsi tra le auto nel traffico, sono poverissime e mendicano la “zakat”, l’elemosina che ogni buon credente ha il dovere di lasciare ai bisognosi.
Le mendicanti e le prostitute hanno in comune due cose: sono vedove di guerra o donne cacciate di casa dai mariti, diseredate di solito per “crimini morali”; nascondono la loro vergogna dietro il burqa.
Le altre donne che non vogliono essere prese né per mendicanti né per prostitute, il burqa l’hanno abbandonato forti anche di una giustificazione morale che ha reso il gesto più socialmente accettabile; fermo restando che è stata comunque una liberazione da quella prigione tessile.
“Le donne che vestono il burqa fanno cose brutte, io e le mie amiche non l’abbiamo mai indossato”. Farzanà avrà sedici, forse diciotto anni, vive a Kabul ma la sua famiglia viene dalla provincia di Logar, dove invece – racconta – indossare quella tunica oppressiva è obbligatorio, per la tradizione e per difendersi dai comportamenti aggressivi degli uomini. Ma, come sempre in Afghanistan, la spiegazione non è mai unica: “Il problema del burqa sono le esplosioni. Le donne hanno smesso di usarlo anche per i problemi che si creavano ai posti di blocco in città, dove c’è più controllo e dove comunque gli uomini hanno cambiato atteggiamento”.
In alcuni quartieri, come il PD22 dove vivono famiglie Pashtūn più conservatrici, al posto del burqa sta prendendo piede lo hijab41, il velo nero, integrale, che copre il viso della donna come in Arabia Saudita, scendendo poi fino ai piedi oppure è accompagnato da un camicione anch’esso nero. Fino a qualche anno fa, a Kabul non se ne vedeva nessuno, oggi lentamente cominciano a spuntare nelle strade ma ancora in maniera episodica visto che la stragrande maggioranza delle donne indossa solo il velo.
Poi ci sono donne come Samira che il burqa non lo indossano perché lei non lavora in strada, si prostituisce solo su “chiamata”, per quanto orribile sia questa definizione.
Ha ventotto anni, i capelli lunghi quasi fino ai fianchi e i tratti mongoli degli Hazāra. A guardarla non capisci se la sua bellezza sia già sfiorita come capita a tante donne afghane, già vecchie a quarant’anni, oppure se quella bellezza semplicemente non ci sia mai stata.
A nove anni, nel suo villaggio nella provincia di Bamyan, è andata a casa del suo vicino, che all’epoca aveva trenta-trentacinque anni. “Mi ha dato dei soldi in cambio di una cosa che non sapevo nemmeno cosa fosse, il sesso”. Quando l’uomo l’ha penetrata, lei è svenuta. “Ricordo solo che al risveglio, intorno a me c’era tutta la mia famiglia che piangeva”.
Una vita segnata sin dall’infanzia, continuata in un campo profughi iraniano dove Samira ha capito che l’unico modo per fare soldi era vendersi. Ha cominciato a prostituirsi a sedici anni per poi scoprire che non avrebbe mai potuto avere figli. Nel 2011 è tornata in Afghanistan ma non ha mai smesso di fare il “mestiere”.
“Io il burqa non lo uso perché ho i miei clienti, non devo andare in strada a cercarmeli. Loro mi chiamano e prendiamo un appuntamento”. “Mia mamma sa che lavoro faccio ma se non lavoro la mia famiglia non va avanti”.
Nell’industria della prostituzione a Kabul, Samira è un gradino sopra rispetto alle donne che vestono il burqa. Non è solo una questione di abito ma di consapevolezza, lei sa che può contrarre malattie sessuali gravissime (l’HIV è una delle nuove piaghe dell’Afghanistan)42 e quindi prova a tutelarsi.
Il mercato del sesso nella capitale è una delle amare novità del post-2001, figlia dell’economia di guerra e quindi di quattro decenni di violenza. E’ un mercato articolato e vario seppur invisibile. Oltre Samira e le altre “squillo”, per i ricchi afghani ci sono le bellezze esotiche in vendita a Dubai, a prezzi altissimi.
Nell’ipocrita Kabul lacerata dalle bombe, il burqa – prigione per il corpo delle donne – da simbolo dell’integralismo religioso è diventato uno strumento di quella che gli zeloti definirebbero corruzione morale.
Se il burqa è stato sconfitto dai miliardi di investimenti occidentali, quest’ultimi non sono riusciti nemmeno a garantire un’effettiva tutela delle donne: in quel baratro che è la giustizia afghana, la protezione delle donne è forse il recesso più recondito. Dal 2009 in Afghanistan è in vigore una legge contro la violenza sulle donne, la EVAW (Elimination of Violence against Women) ma in realtà è inapplicata. In generale, per svariati motivi, sono poche le donne che trovano il coraggio di denunciare violenze domestiche o matrimoni combinati e subiti. Il fenomeno viene quindi sottostimato dai dati ufficiali. Le poche che denunciano si trovano di fronte autorità che, al posto di occuparsi del caso come imporrebbe la legge, le spingono verso la tradizionale mediazione condotta dagli anziani del villaggio43; mediazione che può partire solo dopo aver formalmente ritirato la denuncia penale. Più della metà dei 237 casi vagliati dall’UNAMA tra il 2015 e il 2017 si sono conclusi con una mediazione, un atto che viola la legge ma che è incoraggiato da chi quella e altre leggi dovrebbe applicare. Il risultato è che gli uomini – anche in caso di reati gravissimi come l’omicidio – se la cavano con impegni del tipo “non lo farò più” assieme al pagamento di risarcimenti di sorta alla famiglia della vittima (e all’anziano che ha condotto la mediazione). Ci sono poi casi in cui il rimedio “concordato” altro non è che un ripetersi del crimine: per esempio, un matrimonio combinato salta per il rifiuto della sposa “designata”. I mediatori tacitano il marito “mancato” e la sua famiglia, stabilendo una nuova “baar”. Una sorella o un’altra donna della famiglia viene ceduta allo stesso uomo, al posto di quella “ribelle”. In generale da questa prassi la giustizia, lo Stato, l’autorità nazionale ne escono profondamente indebolite e delegittimate agli occhi delle vittime, presenti e future. Tra il 2016 e il 2017 dei 280 casi di femminicidio e delitti d’onore documentati dalle Nazioni Unite in Afghanistan, solo 50 sono andati avanti per via giudiziaria con la condanna finale del colpevole. Una giustizia che – attraverso ordini di giudici, procuratori e poliziotti – fa anche altro per allontanare le donne: continuando a sottoporle a test di verginità scientificamente inconsistenti oltre che umilianti, invasivi e – per giunta – vietati da un ordine del presidente Ghani del 2017 e da un provvedimento del Ministero della Sanità del 2018 44. Metà delle donne in carcere in Afghanistan (la percentuale arriva al 95% quando si tratta di detenute minorenni) sono dietro le sbarre per “crimini morali”, molti dei quali provati proprio con l’esame dell’imene45. L’altro paradosso che indebolisce la EVAW è che non tiene conto delle necessità economiche delle vittime: “Come evidenziato dalle donne in questo rapporto, un motivo pratico che influenza le vittime, nel rinunciare alla via giudiziaria a favore di una mediazione, è il fatto che l’EVAW ricorre esclusivamente a pene detentive. (…) La donna che ha denunciato e i suoi bimbi faticano a sopravvivere durante la detenzione del colpevole e quindi la stessa detenzione rappresenta un indesiderato e non sostenibile rimedio ai problemi iniziali. Inoltre, le «sopravvissute» (alle violenze denunciate) hanno paura dello stigma sociale e della marginalizzazione ad opera delle proprie famiglie e del villaggio dove vivono, una volta lasciate sole senza un marito”46. Insomma a queste condizioni perché denunciare? Senza considerare poi che anche quando l’iter giudiziario va avanti, il livello di corruzione nel sistema è tale che non c’è certezza né di una sentenza giusta né della pena. In sintesi, è come se in Afghanistan avessimo costruito un sistema che alimenta speranze nelle donne ma non garantisce l’incolumità di quelle donne che provano a trasformare speranze e sogni in realtà, né di quelle che si ribellano alla mafia della moschea in nome della loro radicata religiosità né di quelle che non riescono più a subire violenze domestiche e vanno dalla polizia.
In Siria la guerra continua. E Assad avanza! Il regime di Damasco, insieme all’alleato russo, prosegue la sua offensiva per la riconquista delle ultime aree del Paese ancora controllate dai ribelli. Tutt’altro che intimidito dall’attacco occidentale della scorsa settimana, il presidenteBashar al-Assad, come promesso, rimane fortemente determinato a riconquistare “ogni centimetro quadrato” della Siria.
Ma chi è Bashar al-Assad?
Chi è l’uomo Bashar?
Autore: Anna Momigliano Titolo: Il macellaio di Damasco Collana: VandA.Original Luogo e data di pubblicazione: Milano, novembre 2013 ISBN e-book: 9788898475117