Grazie a chi ci è venuto a trovare allo stand e ai numerosi che hanno partecipato all’evento su “Il corpo lesbico” di Monique Wittig.
BOOK PRIDE è stato splendido!
Grazie a chi ci è venuto a trovare allo stand e ai numerosi che hanno partecipato all’evento su “Il corpo lesbico” di Monique Wittig.
BOOK PRIDE è stato splendido!
Stefania Arcara insegna Letteratura inglese e Gender Studies all’Università di Catania ed è presidente del Centro Interdisciplinare Studi di Genere GENUS. Si occupa di traduzione letteraria, letteratura di viaggio, scrittura femminile, gay & lesbian studies, queer studies, pornografia e discorsi sulla sessualità nell’età vittoriana.
È curatrice e traduttrice per VandA Edizioni di Trilogia Scum di Valerie Solanas, di Aphra Behn, l’incomparabile Astrea di Vita Sackville-West e di Un anno e un giorno. Poesie e lettere di Elizabeth Siddal.
Recensione di Cristina Quochi, originariamente apparsa qui
Con il romanzo “Il mio nome è Aoise” Marta Correggia, magistrato della Procura di Santa Maria Capua Vetere che si occupa di sfruttamento della prostituzione, è riuscita a realizzare un piccolo, importante miracolo: raccontare l’orrore della tratta delle donne nigeriane coniugando realtà e finzione, muovendosi in perfetto equilibrio fra un realismo crudo e spietato e una delicatezza che rasenta la poesia.
Sin dalle prime pagine è chiaro al lettore che non si tratta semplicemente di una storia di fantasia, o meglio che nella potentissima figura della protagonista si condensano le storie di tante ragazze che hanno avuto lo stesso tragico destino. Aoise ha soltanto diciassette anni quando viene indotta a lasciare il suo villaggio in Nigeria per raggiungere l’Italia dove, le promettono, un’organizzazione di connazionali la farà lavorare come parrucchiera. In questo modo, saldato il debito con chi le ha pagato il viaggio, potrà avere un futuro e mandare soldi alla madre e i fratelli più giovani in Nigeria, visto che il padre è morto lasciando la famiglia in assoluta povertà.
La realtà, di cui un po’ abbiamo sentito parlare anche noi ma che l’autrice conosce benissimo in virtù del suo lavoro, è ben diversa: il giuramento ju-ju che Aoise è costretta a fare prima di partire, la vincola a una sorta di patto col diavolo che, per quanto a stento concepibile per noi occidentali, ha su di lei un potere assoluto ponendola alla completa mercé dell’organizzazione criminale che la destina al mercato della prostituzione a Castel Volturno all’interno di una Connection House.
Con un linguaggio scorrevole e alternando il racconto delle atrocità subite nel presente con le esperienze vissute nell’amata Nigeria, dove la povertà e la difficile situazione familiare non hanno impedito ad Aoise, nonostante la sofferenza, di sentirsi comunque amata e partecipe di un contesto culturale ricco di significato, l’autrice conduce con grazia il lettore all’interno di una realtà che ha il triste sapore dell’incubo: una pennellata dopo l’altra, il quadro che tratteggia appare terribilmente vero e fonte di vergogna per la nostra società che, di fronte all’impero economico costruito dalle organizzazioni criminali nigeriane, libiche e italiane, preferisce fingere di non sapere, abbandonando tante donne al loro destino. Ridotte in schiavitù e private persino del loro nome, a queste ragazze non resta nulla: chi tenta di resistere o di opporsi finisce con l’essere uccisa o col subire comunque violenze tali da scivolare nella pazzia.
Eppure anche in quell’inferno può aprirsi uno spiraglio di speranza, possono nascere affetti profondi, sentimenti di amicizia e complicità fra persone che, nonostante l’orrore, non rinunciano alla loro umanità e offrono, mettendosi in gioco e spesso anche in pericolo, una possibile via d’uscita.
Un romanzo la cui lettura consiglio assolutamente per comprendere “dall’interno” un fenomeno che troppo spesso ci lascia indifferenti e che potrebbe essere addirittura proposto in classe agli studenti delle scuole superiori, nonostante le scene crude e raccontate senza filtri. Oltre ad essere una storia emozionante, avvincente e ben scritta, offre infatti tantissimi preziosi spunti di riflessione su una realtà ancora troppo poco conosciuta o raccontata parzialmente, che merita invece di essere affrontata e approfondita con onestà e coraggio.
(Cristina Quochi)
Essere lesbiche non è fare sesso
È fare politica
Scomparsa vent’anni fa, Monique Wittig torna di grandissima attualità, e in libreria, con le sue opere fondamentali. Ecco perché va riscoperta
di Chiara Valerio (per leggere l’articolo integrale qui)
«Tu nel momento stesso in cui non sei altro che una pressione un’insistenza nel m/io corpo… i/o ti chiedo di lasciarti vedere, ti domando di lasciarti toccare».
È probabile che Monique Wittig scrittrice e teorica francese, lesbica, scomparsa venti anni or sono, il 3 gennaio del 2003 a Tucson, dove insegnava letteratura francese e studi di genere – abbia scritto ciò che ha scritto, troppo presto. Il suo primo romanzo L’opoponax – pubblicato per la prima volta nel 1966 (Einaudi, trad. C. Lusignoli), uscirà presto in una nuova traduzione di Ilaria Piperno per Luiss University Press – vince il Prix Médicis e racconta la storia d’amore tra due adolescenti. È il 1964 e, del romanzo, Marguerite Duras dirà che è un capolavoro, il New Yorker, quando il libro uscirà in America, ne sottolineerà le prodezze linguistiche e la New York Times Review of Books strillerà che la migliore definizione è «uno smagliante rientro nell’infanzia». Quando, insomma, Monique Wittig, nata nel 1935 in una famiglia modesta e conservatrice a Dannemarie, paesino nell’Alto Reno, irrompe sulla scena letteraria, se ne accorgono tutti. Nathalie Sarraute dira: «Probabilmente non sarò qui a testimoniarlo, ma vedrete tra venti o trenta anni che scrittrice abbiamo premiato oggi».
Monique Wittig voleva essere chiamata “scrittore”.
Amore, prodezze linguistiche e infanzia, dunque trasformazione, rimarranno caratteristiche fondanti e motrici di tutta l’opera di Wittig – sia letteraria che teorica, teorica perché letteraria – talmente presenti che quando nel 1973 esce Il corpo lesbico, non tutti – e, in questo tutto, la comunità lesbica – capiscono che per Wittig il lesbismo non è solo un orientamento sessuale ma una pratica politica. Wittig lavora sui pronomi, cerca la scomparsa dei generi, scrive all’impersonale, smantella i generi grammaticali per tentare di intaccare le gabbie di genere nella società. Forse è troppo presto, oggi aggettivi come fluido o queer sono componenti di una riflessione che non riguarda solo le comunità omosessuali e gli studiosi e le studiose di genere.
Corpi che mutano in nuove forme. Lavorare sui pronomi, in parole forse troppo povere, significa rifiutarsi che il maschile faccia funzione di neutro, si appropri dell’universale.
Il 26 agosto 1970 Wittig è nello sparuto drappello di militanti che depone una corona di fiori alla memoria della moglie del milite ignoto, sotto l’Arc de Triomphe a Parigi. Il gesto, la performance diremmo oggi, segna la nascita del movimento femminista francese.
Sei anni più tardi, Wittig lascia la Francia per gli Stati Uniti, in rotta con le compagne del movimento, o si mette in discussione l’eterosessualità come modello sociale, o non si va da nessuna parte, ribadisce che lesbismo è pratica politica e non solo orientamento sessuale.
Ci vediamo a Feminism dal 3 al 6 marzo! VandA parteciperà a una serie di tavole rotonde:
Cristina Pietrantonio, cantante, vocal coach esperta in vocalità femminile, docente nella formazione per educatrici alla mestrualità di Red School Italia, ha mixato queste esperienze professionali nel “womb’s voice coaching” per aiutare le donne ad attraversare le grandi trasformazioni del menarca, del ciclo mestruale, del ciclo materno, della menopausa. Ha pubblicato Le tre anime del suono, La voce tra mente e corpo (2016). Con VandA Edizioni ha pubblicato Lady V (2023).
Articolo di Margherita Francalanza, originariamente apparso qui.
L’ultimo romanzo di Pina Mandolfo, scrittrice e sceneggiatrice, intellettuale da anni impegnata nella difesa e promozione dei diritti internazionali delle donne e nel riscatto culturale della Sicilia, narra la storia vera e straordinaria di una donna, Anna Valdina, principessa palermitana che, nel 1600 a Palermo, fu monacata a forza quasi bambina.
La protagonista trascorse cinquant’anni della sua vita nel tentativo di ottenere un processo per lo scioglimento dei voti, fino a riuscirci. Con implacabile geometria narrativa, Pina Mandolfo racconta la volontà e le ragioni di Anna Valdina, un’autentica e coraggiosa combattente, vissuta in un’epoca in cui il potere patriarcale comprimeva ogni anelito di libertà femminile. La storia di Anna e della sua vita in convento si intreccia con i fatti più rilevanti e con i personaggi della Palermo spagnola, in un racconto affascinante e struggente, carico di tensione.
La Valdina è certamente una donna di cui difficilmente ci si dimentica, la sua sola voce risuona forte da un lontano passato , attraversa i secoli e giunge alla contemporaneità. Provoca nel lettore una naturale complicità partecipativa, di indignazione e insieme desiderio di battersi al suo fianco, camminare scandalosamente .passo dopo passo, verso il diritto alla felicità degno di ogni essere umano.
“Il mio racconto , scrive l’autrice, è carico di tutta la passione verso un personaggio femminile non comune di cui ho voluto narrare la grandezza, descrivendone l’esemplarità di donna assoggettata ma non soggetta.”
Il racconto trae spunto da alcuni documenti d’Archivio ritrovati casualmente da Pina Mandolfo, poche trame elaborate tra ricerca storica, eventi del tempo e molta invenzione narrativa. Ma forse il “ caso “ è la miglior guida nel far emergere dal silenzio storie di donne dimenticate o volutamente occultate dalla Storia ufficiale per ulteriormente mortificarne la grandezza.
Numerosi personaggi ruotano attorno alle continue e singolari azioni di Anna Valdina, irriducibile nella volontà di chiedere un processo per lo scioglimento dei voti monacali. La storia della protagonista e la sua strana vita in convento si intrecciano con i più importanti fatti e personaggi della Palermo spagnola secentesca, le cui tracce, da quel tempo particolare, sono giunte fino a noi in un emozionante “continuum narrativo “.
Tra tanti personaggi, ad esempio, emerge Eleonora di Mora, l’unica donna, taciuta dalla storia, che divenne viceré a Palermo per ventinove giorni e rivoluzionò la città, ma “ taciuta dalla storia ufficiale “ e tutta da esplorare.
“Lo scandalo della felicità, storia della principessa Valdina di Palermo” potrebbe rientrare nella categoria del romanzo storico, le tracce d’archivio, la ricerca degli accadimenti e della società del tempo sembrano ricondurci a tale definizione. Eppure il libro , nella sua originalità , ci appare libero da “recinti” temporali e di genere. L’autrice crea un ponte ben visibile tra passato e presente, trascina il lettore dentro la storia che , trascinato nel tempo e nello spazio di Anna Valdina , è costretto a farsene carico , a portarla con se’ , finalmente alla luce del sole, fuori dalle stanze buie conventuali ,a farla finalmente vivere libera e ri/conosciuta.
La prosa di Pina Mandolfo è agile e insieme ricercata l’ impianto narrativo ritmato e intenso, un romanzo degno della migliore tradizione narrativa italiana e insieme una scoperta dell’immensa ricchezza nascosta della nostra Isola ,metafora del viaggio esistenziale delle donne (e dell’umanità tutta) nell’incessante ricerca della “ felicità” come diritto e dovere , promotrici di “ scandalo” e di scomode vite , pronte ad essere distrutte , per divenire Seme generativo di libertà.
Articolo di Alessandra Macci originariamente apparso qui .
Basta lacrime – Storia politica di una femminista-1995-2020 Vanda Edizioni 2022 di Alessandra Bocchetti, figura autorevole del femminismo italiano e presidente per molti anni del Centro Culturale Virginia Woolf di cui è stata tra le fondatrici, è un libro di grande interesse che raccoglie interventi, lettere, articoli, saggi scritti dal 1995 al 2020, anni in cui il femminismo della differenza si afferma sempre più come filosofia, politica e pratica quotidiana. Basta lacrime è un invito, una “chiamata” che tiene insieme pratica politica e pensiero delle donne, a non lasciarsi considerare sempre oppresse, perseguitate, osteggiate e danneggiate dal sistema patriarcale. Basta lacrime dice Bocchetti è un invito a uscire dalla trappola del vittimismo e a far leva, a prendere coscienza della grande forza che hanno le donne. E’certamente spiazzante per la storia e per l’esperienza troppo a lungo inespressa anche dalle donne stesse. Ragiona su dualismi quali: violenza-forza; declinata anche come debolezza/forza; bisogni-desideri; potere-potenza; autorità-potere; ordine-disordine; civiltà degli uomini-civiltà delle donne. E racconta le parole del femminismo: il privato è politico; il partire da sé; il diritto alla felicità. Si sofferma sul perché è importante passare dalla civiltà dell’uno alla civiltà del due che rappresenterebbe un cambiamento epocale, il tanto auspicato cambio di civiltà. Pone criticamente il tema dell’utero in affitto affermando che si sta operando sul corpo delle donne uno sfruttamento peggiore di quello operato sulla classe operaia. Non dimentica la pandemia, la fragilità e il bisogno di attenzione, cura ed amore espressa dalle donne in quella tragica fase. Ai dualismi, alle parole del femminismo, alle critiche alla politica dei partiti e delle istituzioni l’autrice in e cerca di offrire un terreno di confronto e di lavoro politico. Lo fa percorrendo la storia del movimento delle donne, del femminismo della fine degli anni sessanta, a partire dalle lotte che hanno segnato il femminismo della differenza e quello di Stato. Ricorda la grande manifestazione del 13 febbraio 2011 quando il paese da spettacolo da basso impero e le prime pagine dei quotidiani sono piene delle performance sessuali del Presidente del Consiglio. Ma quel giorno le donne danno al Paese una grande lezione di civiltà. E la Bocchetti intervenendo alla manifestazione in Piazza del Popolo gremita, esordisce con un “Bentornate”. E conclude con: “Buona fortuna a tutte, perché anche la fortuna ci vuole!” Basta lacrime dunque.
13 gennaio
Collettivo Mama presenta ROSA SPIA
Biblioteca Auris (Vignola MO) ore 20:30
Con le autrici Anna Paragliola, musica e voce Ellen River
13 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Istituto Gramsci Siciliano (Palermo) ore 17:00
Con l’autrice Mariella Pasinati e Maria Concetta Sala
14 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Cavallotto Librerie (Catania) ore 17:30
Con l’autrice José Calabrò, Giovanna Crivelli, Anna di Salvo
15 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Biblioteca Comunale (Giarre CT) ore 17:30
Con l’autrice Teresa Sciacca, Gabriella Gullotta, Alessandra Nucifora, Tania Spitaleri
19 gennaio
Antonella Ortelli presenta SENZA AZIONE
Casa delle donne (Milano) ore 18:00
Azione teatrale di Irene Quartana
Con l’autrice Giulia Kimberly Colombo, Chiara Martucci, Giuliana Peyronel e Annamaria Teruzzi
23 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Spazio Sette Libreria (Roma) ore 18:30
Con l’autrice Nadia Fusini, Daniela Preziosi e Linda Laura Sabbadini
26 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Istituto studi filosofici (Napoli) ore 16:30
Con l’autrice Giovanna Borrello, Alessandra Macci e Stefania Tarantino
27 gennaio
Marta Correggia presenta IL MIO NOME È AOISE
Galleria d’Arte di Palazzo Candia (Aversa) ore 18:00
con l’autrice Dott. Nicola Graziano, Dott.ssa Caterina di Martino e Avv. Giovanni Puca
Riflessioni musicali del Mastero Edoardo Amirante, Reading a cura di Camilla Aiello
1 febbraio
Danielle Sassoon presenta A BEIRUT NON CI SONO PIÙ CANI
Verso Libri (Milano) ore 19:00
con l’autrice Moni Ovadia
2 febbraio
Pina Mandolfo presenta LO SCANDALO DELLA FELICITÀ
Cavallotto Librerie (Catania) ore 17:30
Con l’autrice Giovanna Giordano
8 febbraio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Manfredonia (FG)
9 febbraio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Biblioteca Magna Capitanata ore 17:00 (Viale Michelangelo 1 Foggia)
Con l’autrice Gabriella Berardi, Adele Longo, Mariagrazia Napolitano, Katia Ricci
10 febbraio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Palazzo dell’Acquedotto Pugliese Via Cognetti 38 Bari
Con l’autrice Chiara Divella e Giusi Giannelli
10 febbraio
Danielle Sassoon presenta A BEIRUT NON CI SONO PIÙ CANI
Libreria Ubik Ferrara ore 17:30
con l’autrice Moni Ovadia
21 febbraio
Danielle Sassoon presenta A BEIRUT NON CI SONO PIÙ CANI
Libreria degli Asinelli (Varese) ore 19:00
con l’autrice Moni Ovadia
24 febbraio
Pina Mandolfo presenta LO SCANDALO DELLA FELICITÀ
Belpasso, presso Biblioteca comunare Roberto Sava. Converseranno con l’autrice Margherita Francalanza e Luigi Calabrese. Agata Longo leggerà alcuni brani del romanzo. Introdurranno l’incontro gli assessori Fiorella Valadà alla Pubblica Istruzione e Tony di Mauro alla cultura- sarà presente il Sindaco Daniele Motta.
13 gennaio
Collettivo Mama presenta ROSA SPIA
Biblioteca Auris (Vignola MO) ore 20:30
Con le autrici Anna Paragliola, musica e voce Ellen River
13 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Istituto Gramsci Siciliano (Palermo) ore 17:00
Con l’autrice Mariella Pasinati e Maria Concetta Sala
14 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Cavallotto Librerie (Catania) ore 17:30
Con l’autrice José Calabrò, Giovanna Crivelli, Anna di Salvo
15 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Biblioteca Comunale (Giarre CT) ore 17:30
Con l’autrice Teresa Sciacca, Gabriella Gullotta, Alessandra Nucifora, Tania Spitaleri
19 gennaio
Antonella Ortelli presenta SENZA AZIONE
Casa delle donne (Milano) ore 18:00
Azione teatrale di Irene Quartana
Con l’autrice Giulia Kimberly Colombo, Chiara Martucci, Giuliana Peyronel e Annamaria Teruzzi
23 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Spazio Sette Libreria (Roma) ore 18:30
Con l’autrice Nadia Fusini, Daniela Preziosi e Linda Laura Sabbadini
26 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Istituto studi filosofici (Napoli) ore 16:30
Con l’autrice Giovanna Borrello, Alessandra Macci e Stefania Tarantino
27 gennaio
Marta Correggia presenta IL MIO NOME È AOISE
Galleria d’Arte di Palazzo Candia (Aversa) ore 18:00
con l’autrice Dott. Nicola Graziano, Dott.ssa Caterina di Martino e Avv. Giovanni Puca
Riflessioni musicali del Mastero Edoardo Amirante, Reading a cura di Camilla Aiello
1 febbraio
Danielle Sassoon presenta A BEIRUT NON CI SONO PIÙ CANI
Verso Libri (Milano) ore 19:00
con l’autrice Moni Ovadia
2 febbraio
Pina Mandolfo presenta LO SCANDALO DELLA FELICITÀ
Cavallotto Librerie (Catania) ore 17:30
Con l’autrice Giovanna Giordano
8 febbraio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Manfredonia (FG)
9 febbraio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Biblioteca Magna Capitanata ore 17:00 (Viale Michelangelo 1 Foggia)
Con l’autrice Gabriella Berardi, Adele Longo, Mariagrazia Napolitano, Katia Ricci
10 febbraio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Palazzo dell’Acquedotto Pugliese Via Cognetti 38 Bari
Con l’autrice Chiara Divella e Giusi Giannelli
10 febbraio
Danielle Sassoon presenta A BEIRUT NON CI SONO PIÙ CANI
Libreria Ubik Ferrara ore 17:30
con l’autrice Moni Ovadia
21 febbraio
Danielle Sassoon presenta A BEIRUT NON CI SONO PIÙ CANI
Libreria degli Asinelli (Varese) ore 19:00
con l’autrice Moni Ovadia
Articolo di Maria Concetta Sala originariamente apparso qui.
Nel contesto sconquassato e sgangherato in cui ci troviamo a vivere la lettura dell’ultimo libro di Alessandra Bocchetti Basta lacrime (VandA.edizioni, 2022) offre a donne e uomini, a ragazze e ragazzi – interessati a leggere il risvolto meno noto delle origini dello scardinamento in atto e delle aperture su idee e visioni in un orizzonte di autentica libertà grazie alla potenza di un’idea sovvertitrice dell’ordine millenario del patriarcato – la possibilità di ripercorrere, se non di scoprire, la storia politica dell’Italia nel venticinquennio 1995-2020 attraverso lo sguardo di una donna impegnata insieme ad altre donne nell’edificazione di una civiltà che metta al primo posto un nuovo senso dell’umano rivolto alla cura del vivente, all’attenzione materna, alla tensione verso la giustizia.
Si tratta di una storia politica che continua ad alimentare « principi ordinatori della società » totalmente diversi da quelli dominanti – quali il potere, il denaro, la violenza – e che contribuisce a diffondere « una cultura meno eroica, meno violenta, più radicata nel mondo » (p. 287), perché ancorata alla conoscenza e all’accettazione della fragilità umana e della condizione di interdipendenza alla quale tutti, donne e uomini, siamo sottoposti. Si tratta di una straordinaria reinvenzione dello stare al mondo e nel mondo a partire dal « lavoro oscuro » delle donne, « insomma, l’invisibile della storia », che è « oggi, un tesoro da spendere accumulato nel corso di secoli, che è il loro sapere materiale generato dall’aver visto l’umanità sempre da molto vicino, nel suo splendore e nella sua miseria, nei profumi e nelle puzze » (p. 78).
Alla femminista della differenza Alessandra Bocchetti, figura di spicco del Centro culturale Virginia Woolf di Roma, fondato nel 1979 insieme ad altre amiche, alla donna da sempre in dialogo con le istituzioni ma distante dal femminismo istituzionale o di Stato dobbiamo questa raccolta di scritti politici che pur precisamente datati in quel ventennio ruotano intorno a questioni ancor oggi decisive per il futuro dell’umanità tutta e sollecitano a un ulteriore dibattito – ne elenco alcune: violenza e identità, corpo e maternità, violenza e giustizia, diritti e desideri, libertà e liberazione, femminismo e femminismi, soggettività e governo delle donne… Questioni complesse che i documenti, le lettere, gli articoli di Bocchetti hanno il pregio di porgere con grande pacatezza e di formulare in un registro piano, scorrevole e chiaro.
Mi soffermo su alcuni aspetti in una certa misura sorprendenti e che più hanno destato la mia curiosità e suscitato interesse, primo fra tutti il riaffiorare in diversi scritti di un vocabolo quale « dignità umana », che vorrei reinterrogare tenendo presente la possibilità di stabilire dei nessi con la ricerca della felicità da parte di una donna.
Dignità è una parolina che ha una lunga storia: riguarda il valore unico e irripetibile che ogni individuo maschio o femmina possiede di per sé in quanto essere umano esistente su questa terra, nella sua qualità di essere umano, nel suo essere partecipe alla comune umanità. Simone Weil, molto amata da Alessandra Bocchetti, e il cui pensiero ricorre spesso in questa raccolta, è la prima a fare dell’affermazione della dignità umana un obbligo incondizionato, l’obbligo primario, agganciandola ai bisogni umani, al nutrimento del corpo e dell’anima di ogni essere umano:
L’oggetto dell’obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l’essere umano in quanto tale. C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia ad intervenire; e persino quando non gliene si riconoscesse alcuno.
Quest’obbligo non si fonda su nessuna situazione di fatto, né sulla giurisprudenza, né sui costumi, né sulla struttura sociale, né sui rapporti di forza, né sull’eredità del passato, né sul supposto orientamento della storia. Perché nessuna situazione di fatto può suscitare un obbligo.
Quest’obbligo non si fonda su alcuna convenzione. Perché tutte le convenzioni sono modificabili secondo la volontà dei contraenti, mentre in esso nessun cambiamento nella volontà degli uomini può nulla modificare (1) .
Si tratta, continua Simone Weil, di un obbligo fondamentale, eterno, incondizionato, che « non ha un fondamento, bensì una verifica nell’accordo della coscienza universale » (2) e che si trova espresso nei più antichi testi a partire dall’antico Egitto.
Per Alessandra Bocchetti dignità è una grande parola: « A pensarci bene, da sola basterebbe a fare un buon programma di governo. Se si pensasse alla dignità che a ciascun essere umano si deve in questa terra, che meravigliosi programmi si farebbero per il lavoro, per l’istruzione, per la salute! Sì, dignità è una parola che ci aiuta a fare bene » (p. 224). Gli esseri umani, donne e uomini, sostiene giustamente Bocchetti, sono uguali unicamente nella dignità, che « non è un bene da conquistare ma che ciascuno ha, malgrado se stesso, per il solo fatto di essere nato, per il solo fatto di condividere la condizione umana. Mi piacerebbe leggere nelle aule dei tribunali la scritta in bella vista: “La dignità è in ciascuno di noi”, sarebbe forse una frase profondamente più vera de “La giustizia è uguale per tutti”» (p. 245).
Il riconoscimento della dignità umana, lo sappiamo, è un pilastro della civiltà giuridica e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata nel 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e sappiamo anche quali e quante lotte le donne hanno dovuto sostenere perché questo principio si traducesse in realtà di fatto, ma, sottolinea con vigore Bocchetti, tutto quello che le donne hanno conquistato sulla carta, nei diritti, « può restare lettera morta se non viene animato da un soffio […] che dà energia» e questo soffio « è appunto un’idea nuova e forte, capace di cambiare le regole del gioco. […] È l’idea di diritto-aspettativa di felicità. Vedete, ho usato una doppia parola, “diritto-aspettativa”, in realtà né l’una né l’altra vanno bene, la parola diritto è troppo arrogante, la parola aspettativa è troppo debole. Ce ne vorrebbe una terza…» (p. 81).
Saggiamente viene sottolineato in un altro scritto che si tratta di un’idea nuova, di uno straordinario e rivoluzionario risultato, perché ha innescato un mutamento nell’ordine del discorso e nell’ordine dei fatti, ma qua e là affiora l’impazienza del “tutto e subito” che è a mio parere un errore, perché la rivoluzione delle donne è una rivoluzione simbolica, nella quale rientrano azione e contemplazione, e necessita di tempi lunghissimi E del resto lo ammette la stessa Bocchetti nel suo intervento nel corso di un convegno sugli anni Settanta svoltosi a Cinisi nel 2018: « La felicità di una donna ha dato sempre un certo scandalo nell’ordine dei padri, risultava sempre un po’ fuori posto, il dolore era il sentimento che più si addiceva alla donna, la sua icona. Adesso invece questa felicità possibile è nella testa di tutte noi » (p. 239); e questo «è stato un grandioso passo avanti verso la libertà » (p. 247), lo ribadisce in un discorso tenuto durante il convegno “Stereotipi e pregiudizi sulla violenza di genere” organizzato dall’ Area Democratica per la Giustizia in Senato nel 2019.
Un altro aspetto importante di questo libro è il rilievo dato al lavoro delle donne, quello in casa, quello fuori di casa, fino alla presa di posizione giustamente intransigente nei confronti di quel terribile contratto che regola la maternità per altri. Bocchetti è consapevole della visione statica della libertà delle donne che la politica tradizionale ha fatto propria e denuncia le armi a doppio taglio quali, ad esempio i congedi parentali e il part time, che mantengono le donne prigioniere e protette in gabbia; e si pronuncia contro le politiche di genere che hanno rafforzato e non eroso la miseria e la debolezza femminili in una sincera autocritica che è qualcosa di raro e di esemplare nella storia del movimento delle donne: « Abbiamo dato credito solo alla miseria delle donne, alla loro debolezza e abbiamo cercato di mettere a punto politiche di tutela, di riparo, di consolazione, non rendendoci conto che, così facendo, contribuiamo alla nostra imperfetta cittadinanza. […] La nostra cittadinanza diventa piena solo quando la nostra attenzione e tensione modificatrice va alla società intesa nella sua complessità », perché le donne sono « parte costituente della società stessa» (pp. 152-53). La sua riflessione sulla formula “forza-lavoro” è fondamentale ancora oggi : «Un padrone di fabbrica non compera l’operaio, compera la sua “forza-lavoro”. L’operaio non vende il suo corpo, vende la sua “forza-lavoro”. Simone Weil e altri ci hanno spiegato questo puro imbroglio. Weil, che ha voluto sperimentare la catena di montaggio alla Renault, ci racconta che è l’intera vita che se ne va, se ne va il poter pensare, il poter immaginare, la voglia di parlare, la salute, l’eros…» (pp. 217-18).
Alessandra Bocchetti fa bene a sottolineare l’importanza che potrebbe avere oggi una riflessione delle donne sul lavoro: « Nessuno ha mai difeso veramente il lavoro delle donne, né i partiti, né i sindacati. Il lavoro delle donne è stato sempre considerato aggiuntivo. […] È importante che il femminismo si assuma questo tema in questo momento, è un tema allo stesso tempo materiale e profondamente simbolico » (articolo apparso il 20 luglio 2020 sul supplemento La 27esima ora del «Corriere della Sera»). Sono d’accordo, bisogna riprendere le fila del discorso a partire dal «Sottosopra» del 2009, Immagina che il lavoro, un manifesto ben sintetizzato nella formula Primum vivere, che significa mettere al centro la vita ma non subordinando l’esperienza materiale del vivere alla riflessione teorica sul vivere o viceversa, bensì attribuendo valore a ciò che rende la vita degna di essere vissuta, a ciò che è vitale e non mortifero (3).
________________________
1) Simone Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, trad. di Franco Fortini, SE, Milano, 1990, p. 14.
2) Ibid., p. 15.
3) A questo proposito si vedano ulteriori considerazioni nell’articolo redatto per «pressenza. International Press Agency, redazione di Palermo: https://www.pressenza.com/it/2020/11/tutto-il-lavoro-indispensabile-alla-vita/
Articolo di Antonella Scandone (Repubblica.it) originariamente apparso qui.
Articolo di Alba Robustelli originariamente apparso qui
Agilissime, e pure senza numerazione sono le pagine di questo libretto di Antonella Ortelli, per sperdersi come dentro un bosco o nell’erba, un fanciullino ci vedrebbe interessanti cose reali: formiche, grilli, piccole cavallette e maggiolini, e persino al crepuscolo le lucciole.
E basta aprire la biografia, prime dieci pagine, poi una o due qui e là… qualsiasi parola o riga, ne resti incantata progressivamente, sempre di più, e ancora di più… Dovendo smettere, per un arrivederci, mi sono accorta che non lo volevo lasciare, e ne ho morso un pezzetto di copertina, in alto, a sinistra. Ha un aroma giapponese ed una carta soavissima.
Autocoscienza siamo in poche, ma tutte lo siamo con buona ragione – questo libro ci rappresenta tutte. Chi può, lo legga. Poi, se vuole, lo distribuisca: è snellissimo e scivola in tasca. In più: merita di trovare piccole e grandi lettrici, e soprattutto visibilità. Perfetto regalo ad amiche ed amici preziosi, ai familiari…, insegnanti, vicini di casa simpatici, all’infinito…Sinteticamente ecco la mia opinione personale: un piccolo inaspettato capolavoro. Qualcuna vi leggerà Antonella, altre se stesse o proprie sensazioni…
È poesia pura ed autocoscienza pura: ma con un particolare carattere; e ancora di più c’è da intravvedere…
Grazie oceanico a chi ha aiutato l’autrice in questo lungo travaglio (Anna Teruzzi che ne ha curato la grafica e Cosimo Quartana per il bel ritratto), lei che, come anguilla, si tutela da ogni forma di autoincensamento o autoinganno.
Lo proporrò a chiunque ne sia degno, è talmente poetico… e pochi leggono.
Ma la poesia è immortale. Chiudo e… ritorno al sonno soave, sto insieme alla mia bestia preferita di oggi. Una capra. E domani quale bestia? Onore a tutte, tutte. Me lo appoggio e dormo sulla pagina, beatamente sino all’alba. Mi bastano altre due ore di sonno, d’ogni sogno…
Senza azione (Milano, VandA edizioni, 2022) verrà presentato nello Spazio da Vivere della Casa delle Donne giovedì 19 gennaio 2023, alle ore 18:00.
Dialogheranno con l’autrice Annamaria Teruzzi, Chiara Martucci, Giulia Kimberly Colombo, Giuliana Peyronel.
Azione teatrale di Irene Quartana.
Siamo liete di presentarvi il podcast Movimentate di RadiOsa, la webradio della Casa Internazionale delle Donne!
Potete ascoltare qui la terza puntata: La liberazione delle donne e Delphy.
Buon ascolto!
Riportiamo di seguito l’articolo di Francesca Vitelli su Aphra Behn, l’incomparabile Astrea, comparso originariamente qui.
Riuscire a far sì che non vi sia distinzione nel mondo del lavoro tra uomini e donne è una battaglia, iniziata secoli fa, ancora in corso. Alcune donne, con coraggio e tenacia, hanno aperto la strada sfidando le regole sociali che ne impedivano l’accesso alla sfera pubblica e a un qualsiasi impegno remunerato.
Aphra Behn (1640-1689) fu una di loro. La sua storia, raccontata nel 1927 dalla scrittrice Vita Sackville-West, è da poco stata pubblicata da VandA edizioni con la curatela di Stefania Arcara.
A voler consegnare ai posteri la storia di una artista dimenticata nelle pieghe del tempo sono – come spesso accade – altre donne. Arcara introduce la lettura del testo di Sackville-West illustrando l’importanza delle scelte compiute dalla protagonista: «Quando nel 1927, Vita Sackville-West celebra Aphra Behn come la prima scrittrice inglese professionista inaugura una storia letteraria femminista che, attraverso Virginia Woolf, arriva fino a noi. Aphra Behn. L’incomparabile Astrea è una biografia dai toni leggeri che illumina di luce nuova la maggiore scrittrice del Seicento inglese e la sua vita straordinaria, ma è anche un primo tentativo di analisi del rapporto tra donne, scrittura e professione letteraria, nonché fonte di ispirazione per il celebre saggio “Una stanza tutta per sé” che Virgina Woolf pubblicherà nel 1929».
Chi era Aphra Behn? Una donna fuori dal comune che visse esperienze precluse alle sue contemporanee: compì un viaggio in un lontano luogo esotico, il Suriname, fu una spia internazionale, visse la drammatica esperienza del carcere a causa dei debiti insoluti e scrisse apprezzate commedie per il teatro, contribuì alla definizione del canone letterario del romanzo moderno, compose poesie, tradusse testi e si occupò di propaganda politica.
Con lo pseudonimo di Astrea, scelto per il ruolo di agente segreto, si affermò sulla scena letteraria inglese del periodo della Restaurazione conquistando la fama. Suscitò curiosità e pettegolezzi attirando gli strali maschili per la scelta dei temi trattati e per il linguaggio usato: scriveva di sesso senza reticenze, era avvenente, intelligente, brillante e voleva divertirsi.
Per il suo essere e comportarsi come una libertina fu più nota come persona che come autrice, osava agire come gli uomini poiché non si negava né il piacere né il gusto di raccontarlo. Non solo scriveva non per passatempo ma per procurarsi da vivere, cosa già di per sé esecrabile ma, di più, scelse la drammaturgia, un’arte che si praticava in un luogo licenzioso e peccaminoso, un luogo dove le attrici erano assimilate alle prostitute: il teatro.
Dopo il claustrofobico periodo del puritanesimo con la Restaurazione si affermava la voglia di assaporare la sensualità della vita e i ruoli femminili sulle scene non erano più interpretati da ragazzi imberbi ma da donne.
Astrea costruiva i testi in modo diverso dagli altri autori, con lei il punto di vista diventa quello femminile, una donna padroneggia i canoni della commedia al pari dei colleghi e ha l’ardire di innovarli. Con il prologo e l’epilogo, formule in voga, si rivolgeva direttamente al pubblico per commentare il lavoro che presentava, le interessava la possibilità di indagare e affermare una prospettiva femminile per il libertinaggio: una donna, soprattutto non sposata, poteva scegliere di vivere come una libertina?
«Sono certa che nessuna commedia sia mai stata scritta con quell’intento (riformare la moralità ndr)[…]; di certo le commedie si scrivono per esercitare le passioni umane, non per comprenderle».
Scrivere con un intento pedagogico, moralistico o di indirizzo non era cosa che suscitasse il suo interesse, la possibilità di esprimersi essendo sé stessa senza limitazioni per il solo fatto di essere una donna era l’intento che perseguiva. Consapevole del doppiopesismo nell’attribuzione dei codici di comportamento tra i due sessi affrontò il tema smascherando la trappola nella sua commedia più nota “The Rover” (1677) ambientata a Napoli durante il carnevale.
La festa carnevalesca è il contesto adatto per mostrare lo scambio dei ruoli in cui le dame si comportano da prostitute e viceversa poiché il destino delle donne è segnato dalla dipendenza economica che le incatena ad un uomo. Nei testi portati in scena la realtà predomina, per le donne non c’è possibilità di scelta al di fuori del matrimonio.
Sackville-West analizza lo stile letterario facendo emergere le contaminazioni francesi e spagnoli di moda per i romanzi di cappa e spada che fiaccavano la sua bravura inserendo manierismi che smorzavano le brillanti sferzate delle battute.
«L’importanza del fatto che una donna borghese come Aphra Behn si sia guadagnata da vivere con il proprio ingegno – osserva Woolf sulla scia di Sackville-West – è maggiore di qualunque cosa ella abbia scritto». Allargando la visione, Woolf aggiunge che con Aphra Behn comincia per le donne la “libertà della mente”, attribuendole non semplicemente la capacità di guadagnare denaro, ma il merito di avere dimostrato la possibilità per le donne di una libertà di pensiero e di parola, una volta conquistata la propria autonomia.
Woolf, dunque, distingue accuratamente il successo professionale di Behn dalla qualità estetica della sua scrittura, ritenuta irrilevante, proprio come prima di lei aveva fatto Sackville-West. Le donne che ci presentano Aphra Behn concordano su questo aspetto e Virginia Woolf in “Una stanza tutta per sé” aggiunge: «Tutte le donne insieme dovrebbero cospargere di fiori la tomba di Aphra Behn». Il testo pubblicato da VandA edizioni è interessante sotto diversi aspetti e chiavi di lettura: l’analisi letteraria, la ricostruzione storica, la visione femminista. Donne che, attraverso un passaggio di testimone nei secoli, scrivono di letteratura, sociologia, politica, spionaggio e altro perché non esistono lavori da uomini e lavori da donne. Esistono il talento, il coraggio e la tenacia.
Riportiamo di seguito l’intervista a Robin Morgan a cura di Margerita Giacobino, comparso originariamente su Erbacce. Illustrazione di Anna Ciammitti
È stato recentemente ripubblicato Il demone amante. Sessualità della violenza, di Robin Morgan (a cura di Maria Nadotti, Vanda Edizioni) apparso per la prima volta nel 1989, e poi con una nuova prefazione nel 2001 dopo l’attacco alle Torri Gemelle. In questo testo allo stesso tempo vasto e personalissimo Morgan smaschera la cultura della violenza insita nel pensiero patriarcale a tutti i livelli, dalla religione alla filosofia all’estetica all’immaginario sessuale, e denuncia la mistica del terrorismo anche alla luce del proprio vissuto di ex appartenente a gruppi armati di estrema sinistra e poi di femminista disarmata, riportando anche la sua esperienza con donne dei campi profughi in Medio Oriente.
In questa occasione Margherita Giacobino ha intervistato Robin Morgan sul tema della “normalità” della violenza e del terrore oggi. (NdR)
Nel tuo libro inizi mettendo in evidenza il nesso tra terrorismo e mascolinità.
Il terrorista… è l’idolo sessuale per eccellenza di una tradizione culturale maschilista che si estende dai tempi pre-biblici a oggi: è la logica estensione dell’eroe/martire patriarcale. È l’amante del demone e la società ne è (segretamente o apertamente) affascinata.
Cosa è cambiato da quando l’hai scritto?
Troppo poco, temo! Questo tipo di cambiamento profondo richiede molto tempo. Nella maggior parte degli ambiti – lo Stato costituito (di destra o di sinistra) così come le forze insurrezionali (di destra o di sinistra), la religione, la filosofia, l’estetica, nella sfera personale come in quella politica – siamo ancora impregnati di violenza maschile, dell’euforia del terrore, della democratizzazione e della normalizzazione della sofferenza. Guardate l’Ucraina. È vero che le donne hanno fatto breccia nel potere, e ne hanno perfino in parte cambiato il concetto. Ma le forze schierate contro di noi sono passate al contrattacco (attualmente, si tratta della destra violenta). Vedo la rivolta delle donne in Iran come nettamente diversa, nelle tattiche, nella leadership e nel tono – meno spavalderia, più sostanza – con gli uomini che finora si sono uniti ma non hanno cercato di prendere il sopravvento, il che di per sé è un enorme progresso. In questa rivolta, oltre a rabbia e dolore, risuona anche una nota di vera gioia. Ricordo in particolare un video di una giovane donna che balla e volteggia per strada, facendo roteare la sciarpa sopra la testa e scuotendo i lunghi capelli al sole – e ridendo. Credo che questa possa essere la prima rivoluzione delle donne in epoca contemporanea.
C’è ancora la tendenza a isolare il femminicidio come un crimine radicato nella psiche dell’individuo e/o in un contesto degradato, mentre tu sottolinei la stretta relazione che esiste tra la violenza dell’individuo e la violenza dello Stato, e ci dici che il femminicidio e la violenza domestica sono atti di terrorismo patriarcale.
In che modo il recente femminismo, e in particolare MeToo, ha contribuito alla consapevolezza di questa relazione?
Ha contribuito notevolmente ad aiutare le persone a cogliere il continuum, a capire le connessioni. Per esempio, in quasi tutti i casi di uccisioni di massa tramite sparatorie – non solo negli Stati Uniti, dove il tasso di armi è deplorevolmente alto e dove accadono quasi ogni giorno, ma in tutto il mondo – chi ha sparato ha iniziato accanendosi contro le donne. Non è un’esagerazione. È un dato statistico facilmente reperibile con una ricerca minima, ed è presente nel 99% dei casi, il che ci invita a pensare a cosa significhi veramente. Aumentare la consapevolezza è sempre salutare.
Per controllare la popolazione, bisogna controllare il corpo delle donne. Da lì si passa al controllo della sessualità di tutti: omofobia, mutilazioni genitali femminili, matrimoni combinati, matrimoni infantili, purdah, ecc.
Il tuo libro è per molti versi profetico, vista l’attuale virulenza in varie parti del mondo occidentale degli attacchi anti-aborto, omofobici, ecc.
Sì, purtroppo è profetico. L’ascesa delle destre etremiste in molti Paesi, compresi gli Stati Uniti con Trump, è stata parte di un contraccolpo violento e tossico contro le donne, contro le loro anche minime conquiste, per non parlare degli uomini di colore, degli omosessuali, dei profughi, degli ebrei, delle persone diversamente abili e così via. Sospettavamo che ciò potesse accadere. Ma non ci fermeremo, anche se certi giorni sembra che quello che chiudi fuori dalla porta entri dalla finestra. Sì, era previsto, eppure sembra ancora irreale come un incubo.
In opposizione al pensiero patriarcale, assolutista e binario, tu invochi le virtù (femminili) dell’ambivalenza: pazienza, compassione, consapevolezza, complessità.
L’ambivalenza come superamento della violenza istintuale – le donne, che sono più ambivalenti, sanno che non si vince con la forza, mai, quindi cercano di risolvere i problemi in altri modi – non si tratta né di ingenuità né di utopia, ma di senso pratico.
Abbiamo fin troppo sotto gli occhi le donne della destra populista e le sostenitrici di Trump. Dove vedi invece operare l’ambivalenza salvifica delle donne?
In Iran, per fare un esempio, è l’intelligenza, non l’essenzialismo, che sta emergendo… in modo imperfetto ma chiaro. Il 12 luglio 2022 è stata proclamata la “giornata nazionale dell’hijab e della castità”, istituita dal presidente iraniano Ebrahim Raisi che ha introdotto una serie di regole ancora più draconiane per far rispettare i codici di abbigliamento delle donne.È sempre una questione di controllo, e inizia sempre con il controllo delle donne. È stato annunciato che i funzionari governativi inizieranno a utilizzare tecnologie di riconoscimento facciale sui mezzi di trasporto pubblico per identificare chi trasgredisce. Inoltre, il ministro di gabinetto del “quartier generale iraniano per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio” ha annunciato che le impiegate del governo saranno licenziate se le loro foto sui social media non risulteranno conformi alle nuove regole. Dal 2015 il governo iraniano ha introdotto gradualmente le carte d’identità biometriche. Un’ampia fetta della popolazione è ora presente in questa banca dati.
Poco dopo il ritorno dall’esilio dell’Ayatollah Khomeini nel 1979, le prime a scendere in piazza furono le donne che protestavano contro l’obbligo dell’hijab. E non dimentichiamo che molte figure cosiddette liberali, che in seguito furono disilluse dal “governo rivoluzionario”, si rifiutarono di criticare l’hijab obbligatorio, osservando sprezzantemente: “Non parliamo di un pezzo di stoffa sulla testa delle donne. Non è questo il problema”. Dissero che il problema era lo scià e l’economia e fecero appello all’unità. Ma come ci ricorda la studiosa Fatemeh Shams, una volta fermate le proteste, le donne hanno dovuto indossare l’hijab. Nessuno dei partiti politici che hanno preso il potere, compresi i riformisti della metà degli anni ’90, ha posto come priorità la lotta o l’abolizione dell’hijab obbligatorio.
Inoltre, il nuovo presidente Raisi ha inasprito il codice di abbigliamento e altre restrizioni: tre donne sono state arrestate per aver ballato in pubblico e condannate a un anno di prigione e 91 frustate, 33 saloni di parrucchieri sono stati chiusi e 1700 persone sono state convocate presso i centri di polizia per questioni legate all’hijab. Raisi, molto più integralista del suo predecessore Rouhani, ha intensificato il programma di islamizzazione della nazione e il movimento delle donne rappresentava una minaccia alla sicurezza nazionale, in quanto rappresentava una violazione delle norme sociali. La “legge sulla popolazione” introdotta nel novembre 2021 limita l’accesso all’aborto e alla contraccezione allo scopo di aumentare la natalità in calo in Iran – parte di un processo politico che mira a riportare le donne a casa. Le confessioni forzate, nel frattempo, sono in aumento.
Shams, che insegna letteratura persiana all’Università della Pennsylvania, osserva che “si può farsi un’ idea di un episodio o movimento rivoluzionario dai suoi slogan. Qui lo slogan principale è Donne, vita, libertà, mentre il movimento rivoluzionario del 1979 proclamava soprattutto Pane, lavoro, libertà, lo slogan centrale del Partito Comunista del Lavoro, ispirato al movimento rivoluzionario in Russia”. (È interessante notare che, a differenza del 1979, questa rivolta è trasversale a diverse classi, un fatto notevole in una società classista come l’Iran. La stessa Mahsa Zhina Amini proveniva da famiglia modesta e da una città curda di confine). Shams prosegue affermando che il fulcro di questo movimento è la rivendicazione della libertà del corpo delle donne, e lo slogan deriva dal movimento di liberazione curda ed è il frutto di decenni di impegno delle donne curde in una delle regioni economicamente più svantaggiate dell’Iran. Come sottolinea Shams,questa rivoluzione è senza leader: le persone nelle strade non aspettano che qualcuno prenda il comando. Sono loro i leader. È un punto di forza che questo movimento non si sia coalizzato dietro un leader o un partito politico, il che ha reso molto difficile per le forze di sicurezza reprimerlo. E ci hanno provato! Hanno effettuato arresti di massa di giornalisti e di potenziali leader. I numeri crescono di giorno in giorno, ma al 5 dicembre sappiamo che almeno 244 persone sono state uccise e 125.000 sono state arrestate, tra cui 29 giornalisti, 20 attivisti e 19 insegnanti, secondo i rapporti del governo.
Tutto questo, oltre alla cronica e grave oppressione della popolazione curda e alla repressione dei giovani, ha finito per sfociare in un’esplosione. Oggi vediamo stazioni di polizia, autopompe e fermate degli autobus in fiamme; gruppi di studenti che occupano più di 110 facoltà e centri educativi, uno sciopero nazionale nelle università; i campus delle università di Teheran, di Tabriz e di Sharif invasi da centinaia di poliziotti anti-sommossa che arrestano o tengono in ostaggio i manifestanti. Ma si tratta soprattutto di violenza contro la proprietà. I video continuano ad arrivare, ma anche i proiettili. Le ragazze adolescenti sono in prima linea: Nika Shakarami e Sarina Esmailzadeh, entrambe sedicenni, sono morte dopo aver partecipato alle proteste.
Nassrin Sotoudeh, l’avvocata per i diritti umani che ha rappresentato molte donne processate o condannate per non aver osservato l’hijab obbligatorio, ha dichiarato di recente: “Questo movimento senza leader è guidato da donne che compiono un unico atto rivoluzionario: non portano armi. La sola cosa che fanno è togliersi qualcosa dalla testa e camminare per le strade dell’Iran. L’immagine di questa rivoluzione è il corpo di queste donne senza veli che camminano per strada senza fare del male a nessuno. E questo non ha precedenti”.
Negli anni Sessanta tu hai fatto parte di gruppi di sinistra coinvolti anche in azioni violente, e in seguito sei stata tra i fondatori di W.I.T.C.H. (Women International Terrorist Conspiracy from Hell), che ha inscenato proteste contro Wall Street, contro Nixon, ecc. In che modo il “terrorismo” delle streghe femministe è profondamente diverso da quello dei gruppi politici maschili?
Be’, per prima cosa, avevamo – e abbiamo ancora – il senso dell’umorismo! Lo humor purtroppo spesso scarseggia a sinistra – e di sicuro non lo si trova a destra! Quindi il nostro tono scanzonato e il nostro teatrino di guerriglia ci hanno aiutato in questo senso, e sono serviti anche a coprire aspetti di altre nostre azioni – come spruzzare colla industriale nelle serrature della Borsa di Wall Street nel bel mezzo della notte, per poi “lanciare un incantesimo” per non far aprire le porte. Che ovviamente non si aprirono. Credo che questo – la nostra cattiveria trionfante, la nostra sfida – sia il motivo per cui W.I.T.C.H persiste come fenomeno popolare ancora oggi; a distanza di 50 anni, le giovani donne vogliono ancora farne parte. Sembrano sapere che, se la retorica marxista ti annoia fino al coma, il W.I.T.C.H. ti darà respiro! Non è stata Emma Goldman a dire: “Se non posso farla ballando, non è la mia rivoluzione”?
Andrea Dworkin (1946-2005), scrittrice americana, è un’esponente di punta del femminismo radicale della seconda ondata. Ha scritto una dozzina di libri sulla teoria e la pratica del femminismo radicale ed è famosa soprattutto per una dura critica della pornografia.
VandA tra i suoi scritti ha pubblicato Donne di destra.
Liz Prince è nata a Boston nel 1981 ed è cresciuta a Santa Fe, nel New Mexico. Frequenta la scuola del Museum of Fine Arts a Boston, dove si è diplomata. Autrice e illustratrice di magazine underground, vive poco fuori Boston con i suoi gatti, Wolfman e Dracula. Ama il caffè, il pop punk, Gossip Girl e i documentari naturalistici.
Il suo primo libro, Will You Still Love Me If I Wet the Bed?, candidato a diversi premi, ha ricevuto l’Ignatz come Miglior Esordio nel 2005 ed è stato tradotto in francese e spagnolo. Liz Prince ha disegnato fumetti per diverse antologie e minialbum (autopubblicati e per riviste indipendenti), e ha lavorato come freelance per vari fumetti della Cartoon Network, quali Adventure Time, Regular Show e Clarence. Ha inoltre pubblicato Delayed Replays (2008) e Alone Forever (2014). Tomboy: A Graphic Memoir (2014) ha ottenuto un grande successo di critica ed è stato subito tradotto in francese, adesso anche in italiano. Attualmente Liz collabora con la rivista punk Razorcake e disegna le copertine degli album per diverse band.
Al direttore – Gentile ministra Roccella, affrontiamo prima i due argomenti che di questi tempi sembrano al centro del mondo. Primo: come vede la chiamo ministra. Che di una donna voglia usare per sé il maschile è solo segno di quella miseria che si attacca tristemente alla pelle delle donne quando sentono di non avere storia. Un gesto ai miei occhi drammatico e triste. Secondo: sono proprio d’accordo con lei, l’aborto è il lato oscuro della maternità. Ma non è il solo. La maternità può essere oscura in sé quando non è desiderata. Può essere un abisso. Disgraziato chi viene al mondo senza il desiderio della madre.
Per questo considero l’aborto una necessità prima che un diritto. L’autorizzazione ogni donna l’ha presa dalla storia delle donne a fronte di ogni interno promesso o prigione minacciata e questo sarà sempre così. Ho letto che ha accettato il suo incarico volentieri perché il ministero delle pari Opportunita e stato un ministero voluto dal movimento femminista. Mi permetto di correggerla. Non è stato così.
Noi femministe non abbiamo mai chiesto un ministero delle Pari Opportunità. Dal primo momento in cui fu costituito lo abbiamo considerato un luogo pericoloso e ambiguo. Si dava alle donne l’idea che finalmente avessero una “stanza tutta per sé” e di questo avrebbero dovuto essere contente e soddisfatte. In realtà si voleva creare un mondo a parte delle donne, metterle in un angolo. Non era un’apertura, era un recinto. Le pari opportunità sono state la risposta delle istituzioni alla grande creatività del femminismo, il modo di arginare la sua grande potenza. Io lo chiamo femminismo di Stato.
Le donne non sono una categoria, una minoranza, sono fondanti della società, che infatti senza donne non esisterebbe, a loro, in quanto cittadine libere e contribuenti, spettano tutti i ministeri, quello del lavoro, quello della sanità, quello dell’economia, quello dell’istruzione…insomma tutti. Così scrivevo nel 1996 alla ministra Finocchiaro, parlando di questo imbroglio. Da allora a oggi questo Ministero, che non ha fatto cose da ricordare, è stato sempre senza portafoglio e questo la dice lunga. La Ministra sempre si deve arrabattare a elemosinare fondi di qua e di là. Così i progetti diventavano progettini, convegni convegnucci e le ambizioni si fanno piccole piccole. Per lei ministra Roccella mi sembra anche che il carico si sia appesantito perché alle pari opportunità sono state aggiunte natalità e famiglia, due carichi pesanti.
Quindi la mia raccomandazione vale anche per lei: non si arrenda all’imbroglio del “mondo a parte”, per di più povero in canna, le donne non lo meritano. Anche perché adesso le donne sono cambiate e non si chiedono più se sono capaci di fare quello che fanno gli uomini ma cominciano a pensare di saperlo fare meglio.
Siamo oltre le pari opportunità. Si avvicina il 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza alle donne. Si celebra dappertutto, soprattutto nelle scuole. Lei vedrà giovani ragazze truccate con occhi neri, bocche cucite da filo di ferro, teste spaccate, sangue e anche manifesti per la città, con immagini orrende.
Difficile camminare quel giorno con una bambina per mano, ma anche con un bambino, che possono chiederti cosa significa e tu non vuol rispondere, perché il messaggio che è sotteso a tutto questo è “Potrebbe succedere anche a te”. Perversamente sta diventando una festa, io lo chiamo il nostro Halloween. È la grande giornata del soggetto per eccellenza del femminismo di Stato: la vittima. Quel giorno tutte le donne diventano vittime, di chi non si dice.
Possibile non ci si accorga dell’ambiguità di tutto questo? La violenza alle donne è una tragica realtà a cui si deve porre rimedio ma non è un tema politico. Eppure tutti i partiti non sanno fare che questo, il perché è chiarissimo a chi lo sa vedere: la donna vittima, in realtà, rassicura tutti che nulla sta cambiando veramente e che l’ordine patriarcale della società non corre ancora alcun pericolo. La politica celebra proprio questo, anche se non lo sa. Io potrei suggerirle di istituire un minuto di silenzio da osservare nelle scuole, negli uffici pubblici, contro la violenza degli uomini sulle donne. Ma avrebbe difficoltà a fare passare questa proposta. Passerebbe invece la versione alleggerita, un minuto contro la violenza alle donne. Violenza anonima. Sono molto contenta che lei si dichiari femminista perché allora si accorgerà della falsa politica e lavorerà non sulla debolezza delle donne, non sulla loro vulnerabilità – siamo tutti vulnerabili – ma sulla loro forza che è immensa. Poche femministe sono entrate nei palazzi e debbo dire che non hanno fatto granché, presto prese in una logica estranea, costumi e usi che toglievano loro la parola piuttosto che darla. Spero non sarà così per lei. Comunque sarà difficile. Sa perché?
Perché le donne non hanno bisogno di pari opportunità ma di opportunità in più. Bisogna saper fare delle ingiustizie per loro, uscire dall’idea di risarcire le donne ed entrare nell’idea di investire su di loro per una vita dignitosa per tutti. Ma le difficolta sono due, molto grandi. La prima è che gli uomini sono vecchi e non sono pronti alla libertà delle donne e sono attaccati al potere, magari non per cattiveria, ma per abitudine. Qualsiasi obbrobrio della storia, e ce ne sono stati tanti tutti prodotti dalle loro decisioni, non li ha mai disautorizzati al potere. La seconda è riuscire a far guardare alle donne l’umanità, come un contadino guarda un campo al grano, come a una loro opera. Se le donne non trovano in se stesse il senso grande di essere al mondo, poco potrà cambiare. Questo significa riuscire a superare fatti i secoli di negazione, di emarginazione, umiliazione, ignoranza che hanno fatto credere alle donne di essere meno, di essere umanità minore e che le ha fatto pensare, come unica via per fuggire da un destino pesante, di volere essere uguale agli uomini, perdendo il senso prezioso della loro differenza e la loro storia e la loro forza. Ministra Roccella si metta all’ascolto delle giovani donne che per vivere fanno tre o quattro lavori contemporaneamente, che Dio sembrerebbe averle abbandonate, che la Patria con loro è più che avara e che la Famiglia per loro è un sogno impossibile. E sia così brava da riuscire a capire quello che le donne stanno dicendo senza parole. Tra i suoi mandati c’è la natalità. Le donne fanno meno figli, è un fatto.
Questo mette in pericolo la società tutta, la sua sopravvivenza. Se da femminista guarda a questo, saprà capire che non fare figli è il giudizio più severo che le donne danno a questa società, alla sua organizzazione, alle scelte delle sue priorità. Fare figli per le donne non è più un destino, è una scelta e la sentenza è amara per tutti. Questa è la guerra delle donne, che non è come quella degli uomini che fa morti. La guerra delle donne non fa più vivi. Quindi c’è da mettere mano a tutto, lavoro, sanità, scuola, casa, imprese, organizzazione della vita… Sarà così coraggiosa da mettere bocca dove non è prevista la sua voce? Da presentarsi dove non è aspettata? Perché questo deve fare, uscire dall’angoletto che le hanno riservato e trasformare il suo ministero in un laboratorio operoso al lavoro per una diversa visione della società senza servi né serve, lavoro che sicuramente gli altri ministeri non si sognano di fare, né ne sarebbero capaci.
Le auguro buon lavoro.
Alessandra Bocchetti, scrittrice
Monique Wittig poetessa, saggista, teorica femminista e docente universitaria. È stata una delle fondatrici del “Mouvement de Libération des Femmes” (FML), ha collaborato con la rivista «Questions Féministes».
Nel 1976 si trasferisce in America dove ha insegnato all’Università lingua francese e women studies.
VandA ha pubblicato il suo saggio “Il corpo lesbico“.
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