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Eventi – VandA a “Feminism”, prima Fiera dell’editoria delle donne

Roma, 8 – 11 Marzo 2018


È proprio l’8 marzo la data scelta per dare inizio alla prima fiera dedicata all’editoria delle donne, un festoso evento gratuito che – nel corso di quattro giorni di incontri, presentazioni e performance – animerà la Casa Internazionale delle Donne di Roma, luogo storico nel cuore di Trastevere.

Con la partecipazione di circa settanta case editrici, la Fiera offre uno sguardo sulla produzione culturale contemporanea delle donne e, con la mostra documentaria curata da Archivia,  uno sguardo sull’editoria del secolo scorso.

L’intento principale è quello di mettere in evidenza tutti i passaggi della “Filiera del libro d’Autrice”: le scelte editoriali, la stesura del testo, la produzione, la promozione, la distribuzione e l’attività critica e divulgativa di testate specifiche, sia cartacee che on-line, avvalendosi di testimonianze e dibattiti con direttore di case editrici, collane, librerie, biblioteche e traduttrici.


VandA parteciperà con due presentazioni:

  • venerdì 9 marzo, ore 17:00 (Sala Trust): Luisa Vicinelli,  attivista femminista, specializzata in studi matriarcali moderni, presenterà insieme all’autrice l’ultimo saggio di Daniela Pellegrini, madre del femminismo radicale italiano, intitolato La materia sapiente del relativo plurale. Ovvero il luogo terzo delle parzialità.
  • sabato 10 marzo, ore 12:00 (Sala UDI): Valeria Ribeiro Corossacz (docente di antropologia di genere presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e attivista del movimento Non Una Di Meno) e le curatrici Stefania Arcara (ricercatrice in Letteratura inglese e Gender Studies all’Università di Catania e presidente del Centro Interdisciplinare Studi di Genere GENUS) e Deborah Ardilli (dottore di ricerca in Filosofia Politica, traduttrice e studiosa di teoria politica e storia dei movimenti femministi) presentano Trilogia SCUM. Tutti gli scritti di Valerie Solanas.

Inoltre, al “focus” di apertura (giovedì 8 marzo, ore 17:30 – Sala Tosi) dedicato alla Filiera del libro d’Autrice  (Fare libri è un mestiere di cura) parteciperà Angela Di Luciano, fondatrice di VandA.


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Il debito pubblico? Buttiamo il cuore oltre l’ostacolo


di Davidia Zucchelli (Munera, febbraio 2018)


– Ieri sera ho partecipato alla presentazione del nuovo libro di Pierangelo DacremaLa buona moneta. Come azzerare il debito pubblico e vivere felici (o solo un po’ meglio)”, Ed. Allaround, 2018, al Fopponino, a cui hanno preso parte Renato Mannheimer (sociologo), Giuliano Castagneto (Giornalista di MF Milano Finanza) ed Alfredo Costa (Sindacalista).

È stato un incontro molto interessante e vivace, come deve essere quando si affrontano problemi rilevanti, e gli spunti di riflessione non solo e non tanto dal punto di vista economico, ma soprattutto sociale sono stati davvero molti. Non è stato un incontro per gli “addetti ai lavori”, ma per i cittadini.

Conosco Pierangelo da molti anni e non mi ha stupito la sua vivacità intellettuale; so che il suo libro è frutto di una profonda riflessione e della consapevolezza della necessità di trovare tempestivamente una soluzione ad un problema che pesa come un macigno sul nostro paese, sebbene pochi ne parlino. Soprattutto in campagna elettorale, quando dovrebbe essere invece uno dei temi principali di discussione. Evidentemente la gravità del problema non è percepita. Non ancora.

L’autore propone una soluzione drastica, ovvero la creazione di una moneta parallela all’euro, assegnata ai sottoscrittori dei titoli di Stato italiani alla loro scadenza e spendibile, forzosamente, solo nel nostro paese. Da un punto di vista prettamente tecnico, le obiezioni sono – come l’autore ha ben presente – molteplici. Occorre pensare all’effetto “fuga degli investitori esteri “ dall’Italia, che si vedrebbero consegnare una moneta per così dire parziale, alle possibili conseguenze di una eventuale ma probabile imitazione da parte di altri paesi (più o meno sgangherati dell’Italia), all’inflazione che potrebbe derivarne, agli effetti negativi sull’euro per il “quasi” abbandono da parte di uno dei principali paesi europei, solo per citarne alcuni. Non saprei ovviamente quantificare tali effetti e dare una risposta immediata a questi interrogativi. Occorre riflettere, alcuni aspetti non mi sono chiari. E mi riprometto di farlo. Peraltro, come per ogni innovazione, gli effetti non sono mai perfettamente prevedibili.

Ma quello che vorrei ora richiamare sono gli elementi che costituiscono il punto di partenza della riflessione di Pierangelo e che meritano di essere ripresi. Innanzitutto il debito pubblico italiano, della cui gravità come dicevo ormai pochi sembrano avere consapevolezza, soprattutto se – come ha sottolineato Pierangelo – a Mario Draghi succederà Jens Weidmann alla guida della Banca Centrale Europea nel 2019. Perché è nota la diffidenza di Weidmann, attualmente presidente della Bundesbank, nei confronti del nostro paese, tale da fargli dire in sostanza che “l’Italia deve salvarsi da sola”, e che quindi non avrà nessuna intenzione di acquistare titoli italiani in quantità massiccia come ha fatto Draghi negli ultimi tempi con effetti positivi sia per l’Italia sia per l’Europa intera.

La diminuzione del debito, propone Pierangelo, potrebbe essere raggiunta usando una moneta parallela all’euro, che egli non chiama lira ovviamente per evitare l’equivoco di pensare alla completa sostituzione dell’euro, ma VALEX al cambio di 1 a 1 contro l’euro, al quale si affiancherebbe, poiché – ed è questo il fulcro della riflessione di Dacrema – la nostra attenzione deve essere rivolta non alla moneta, ma ai cittadini. La moneta/denaro è diventato negli ultimi decenni il centro di ogni obiettivo economico/politico, il fine da raggiungere, a scapito di tutto il resto. Il valore della moneta è divenuto più prezioso del bene dei cittadini. Si legge a pagina 40, “La stabilità del valore della moneta – l’oggetto sociale prezioso al punto da essere quasi divinizzato – non è stato presupposto di alcunché di socialmente interessante, almeno per quella cospicua parte dell’Europa che è stata penalizzata in termini di reddito, occupazione, benessere … quanto è accaduto nel sistema dell’Eurozona racconta che la salute della moneta è stata considerata più importante di quella della cittadinanza. Racconta e spiega in modo inequivocabile che il denaro è diventato più importante degli uomini”.

I politici dicono che “non si possono sostenere gli investimenti con la spesa pubblica”, perché mancano le risorse finanziarie, mentre invece bisognerebbe invertire il ragionamento: “si deve sostenere la spesa, sfruttare le immense risorse di cui disponiamo, poiché essa poi genererà le risorse finanziarie”. Un po’ come è successo con il New Deal, che è al centro del pensiero di Keynes, più volte ricordato da Pierangelo.

Occorre cioè cercare di valorizzare tutte le risorse, soprattutto umane, di cui disponiamo, di cui il nostro paese dispone. Una disoccupazione inaccettabile, pari al 12% complessivamente, ma con punte assurde prossime al 50% fra i giovani nel sud, è la prova dell’esistenza di tante risorse sprecate.

La moneta deve cioè tornare ad essere uno strumento, non il fine. Così come Keynes suggeriva alle massaie inglesi di spendere i risparmi e di investirli in consumi (gli investimenti sono consumi protratti nel tempo!) così ora è necessario che le risorse – che ci sono, la liquidità non è ora un problema – vengano utilizzate, vengano messe in circolazione, non accumulate. Ma cosa è divenuta la moneta? Lo stesso bitcoin sembra stare a dimostrare il suo non essere moneta (cioè con corso legale che consente un qualunque scambio di beni/servizi) per essere piuttosto strumento di speculazione. Perché tanto interesse per il bitcoin? Per ottenere un vantaggio di prezzo/valore, non uno strumento di scambio (che è, di fatto, limitato solo a certi beni che rientrano nel circuito). Ed è proprio questa una caratteristica che potrebbe anche sostenere la fattibilità della imposizione di limitazioni alla nuova moneta VALEX (di carattere geografico, limitandola all’Italia, o anche merceologico, prevedendo il suo utilizzo in determinati mercati/beni). Se si ammette per il bitcoin, può essere – almeno – immaginata per una moneta parallela?!

La storia della finanza ci insegna che le grandi innovazioni in materia finanziaria e monetaria sono avvenute, ovunque, in Europa e in America sulla spinta della necessità di trovare soluzione a problemi gravi/urgenti (guerre, pestilenze, gravissime crisi….). La ripresa economica, pur significativa, attualmente in corso nel nostro paese, ci distrae ed oscura quello che deve rimanere un obiettivo centrale: appunto la riduzione del debito pubblico. Alcuni potrebbero obiettare che il Belgio è riuscito a ridurre il debito drasticamente nel giro di qualche anno, ma è anche vero che il Belgio ha una dimensione ben più piccola dell’Italia.

Gli esempi di successo nella storia non mancano. Dacrema ricorda Schacht, il presidente della Bundesbank e Ministro dell’Economia di Hitler, che è riuscito in soli 4 anni ad annullare la disoccupazione dal 25%, e a fare della Germania un paese forte (fin troppo, perché poi arrivò alla guerra, ma – ad ulteriore dimostrazione della sua statura professionale ed umana – egli si dimise quando la storia prese la via che tutti conosciamo).

Oppure il caso di Helmut Kohl, il Cancelliere della riunificazione tedesca, che contro il parere di tutti gli economisti decise la conversione del marco uno a uno con i tedeschi dell’est, che si videro in poche ore moltiplicare lo stipendio. Fu un atto di grande coraggio, contro ogni regola economica, ma che risollevò lo spirito di un paese, o meglio di una nazione, che riunificò la sua gente, prima ancora dei confini. E il suo successo è sotto gli occhi di tutti, ancora oggi. Lo stesso Kohl che ha poi attribuito alla Cancelliera Merkel l’errore di porre la Germania davanti all’Europa, quando invece l’Europa avrebbe dovuto guidare/indirizzare la Germania.

Certo la moneta parallela potrebbe finire per scacciare la moneta buona, secondo la nota legge di Gresham, ma se il fine è il benessere dei cittadini, la graduale riduzione delle disparità/disuguaglianze e la riduzione della concentrazione del reddito, essa merita una riflessione. È questo un altro importante obiettivo a cui tendere che Pierangelo sottolinea, ricordando una battuta di Checco Zalone: “Uno su 1000 ce la fa, e gli altri 999?”.

E’ stato proposto da più parti e in varie occasioni di sostenere il consumo di prodotti italiani, a chilometro zero, certamente per sostenere l’ambiente limitando l’inquinamento – anche questo uno degli obiettivi principali a cui tendere – ma evidentemente anche per sostenere la produzione interna. Analogamente, si può credere in una moneta nazionale, specificamente dedicata alle negoziazioni nazionali, senza escludere gli scambi internazionali (le nostre esportazioni superano le importazioni, non lo dimentichiamo), attuati con la moneta accettata all’estero, ma limitandoli al necessario.

Come vedete gli spunti sono molti. Non so, come dicevo, dare una valutazione esauriente alla provocazione di Dacrema, che merita di essere oggetto di un più approfondito esame, ma ho apprezzato molto il coraggio, la voglia di cercare una soluzione per il bene di tutti. Questo è uno di quei momenti in cui occorre buttare il cuore oltre l’ostacolo, superare il pensiero ragionieristico del “sì, si può fare se ho il denaro oppure no, non si può fare se non ce l’ho”, senza considerare piuttosto le altre enormi risorse e in particolare quelle umane di cui disponiamo.

Ma non vi viene in mente il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci (che secondo le più moderne interpretazioni è stato un brillante esempio di condivisione e redistribuzione)?


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Abbattere il debito pubblico? «Missione impossibile con le attuali politiche monetarie e le ipocrisie pre-elettorali»


di Renato Passerini (Il Piacenza, 18 febbraio 2018)


– La creazione di una inedita moneta parallela proposta dal professor Pierangelo Dacrema. Presente anche Renato Mannheimer: alle Elezioni Politiche il 30% dell’elettorato sceglie negli ultimi 15 giorni.

Al tavolo della saletta della Libreria Internazionale Romagnosi, dalle pareti foderate di libri di ogni genere, vi sono due figure talentuose quali il prof. Pierangelo Dacrema, economista piacentino (è nato a Castelsangiovanni) – saggista e intellettuale, professore ordinario all’Università della Calabria, è autore di numerosi articoli, saggi e libri alcuni dei quali presentati nei mesi scorsi a Palazzo Galli, Banca di Piacenza – e il sociologo prof. Renato Mannheimer, tra i più noti sondaggisti italiani, certamente quello che più “buca il video”. La loro presenza è motivata dalla presentazione del saggio “La buona moneta”, sottotitolo: Come azzerare il debito pubblico e vivere felici (o solo un po’ meglio), pubblicato da VandA.ePublishing, in libreria da pochi giorni, di cui è autore Dacrema. Niente previsioni elettorali, ma a domanda Mannheimer conferma la supremazia del centro destra e tra i partiti quella dei cinque stelle; l’affluenza dovrebbe avvicinarsi al 70%, la situazione è molto fluida, anche perché, nel complesso, abbiamo poco meno del 40% di persone indecise, che non dichiarano il proprio voto. Inoltre, grosso modo il 30% dell’elettorato sceglie negli ultimi 15 giorni. E anche i mercati sono alla finestra in attesa di capire come si disporranno le forze in campo “fuori campo”.

Pierangelo Dacrema, Robert Gionelli e Renato Mannheimer alla Libreria Internazionale Romagnosi

Con loro è Robert Gionelli  in veste di moderatore tra le enunciazioni di Dacrema, i dubbi  e le domande ben calibrate  di Mannheimer e del pubblico. Trascorrono così quasi due ore con i presenti sempre più interessati al tema portante del libro: la creazione di una moneta parallela all’euro finalizzata all’abbattimento (fino all’azzeramento) dello stock del debito pubblico italiano e il contestuale rilancio dell’economia nazionale. Una proposta forte su un tema di grande interesse, che dovrebbe trovare un posto nel dibattito politico, se questo non fosse monopolizzato dall’ “io ti darò di più” dai protagonisti della campagna elettorale.

I PRESUPPOSTI – Le dimensioni, sempre crescenti, del debito pubblico italiano sono un problema annoso.  L’Italia si è impegnata, per il prossimo ventennio, a ridurre di una cinquantina di miliardi l’anno il proprio debito pubblico: per molti aspetti una missione impossibile. Sono sempre meno numerosi i sostenitori di una politica dell’austerità; però è anche difficile coniugare una politica di rilancio dell’economia (di non austerità), con il rispetto dei parametri europei (massimo 3% del rapporto deficit/PIL, massimo 60% del rapporto debito pubblico /PIL). Grillo e Salvini, notoriamente poco europeisti, non puntano più a un abbandono dell’Euro, obiettivo giudicato troppo complicato. Sia Lega che M5S hanno aderito all’idea della creazione di una moneta parallela, circolante solo in Italia, per favorire il rilancio economico del nostro Paese senza comprometterne la permanenza nell’Eurozona. Tale moneta, denominata CCF (Certificati di Credito Fiscale), verrebbe emessa dallo Stato e distribuita gratuitamente a imprese e lavoratori, in quantità e modalità predeterminate. L’idea, benché di per sé interessante – afferma Dacrema – presenta difetti vistosi e si prospetta d’altra parte, nella migliore delle ipotesi, come una soluzione destinata a produrre effetti piuttosto limitati che  Dacrema spiega nelle pagine del libro lanciando una sua  più incisiva proposta:

Il VALEX, (Valuta derivante dall’EX debito pubblico), nuova moneta “locale”, in circolazione a fianco dell’Euro, creata attraverso il graduale rimborso dei titoli del debito pubblico (BOT; CCT; BTP) effettuato non in Euro bensì nella nuova valuta.  La nuova moneta avrebbe le  caratteristiche di corso forzoso in Italia (ogni cittadino italiano sarebbe tenuto ad accettarla in pagamento di qualunque bene o prestazione);  parità con l’Euro (un VALEX uguale a un Euro); circolazione solo bancaria, anche attraverso carte di credito, senza emissione di banconote o moneta metallica. Altre caratteristiche  divieto di investire la nuova valuta in altri strumenti finanziari a eccezione dell’Euro;  divieto al sistema bancario di remunerare i depositi ed erogare prestiti denominati nella nuova valuta. Il caso della creazione di una moneta parallela accanto a quella ufficiale, non costituisce una soluzione inedita, mentre nuova è l’ipotesi dell’utilizzo della nuova valuta per il pagamento di un debito sovrano.

Con l’emissione dei VALEX – è la tesi sviluppata nelle pagine del libro  – si  darebbe impulso a consumi e investimenti, attestandosi così come strumento efficace per un’azione di risanamento dell’economia nazionale in tempi brevi. La proposta rappresenterebbe, anche in relazione al beneficio collettivo, una soluzione negoziabile, e alla fine accettabile, in sede europea anche perché non creerebbe i presupposti per pressioni inflazionistiche sull’Euro, né  verrebbe interpretata e vissuta come una manifestazione d’insolvenza dello Stato. Costituirebbe una soluzione “flessibile” (si tratterebbe di scegliere se “accontentarsi” di scendere al 60% del rapporto debito pubblico/PIL, o di continuare nel rimborso, senza escludere di spingersi fino all’azzeramento del debito). Il nostro Paese si libererebbe di una zavorra il cui peso gli tarpa le ali,e si uscirebbe dall’ipocrisia di fingere di credere che, senza il ricorso a strumenti eccezionali, l’Italia possa rispettare i suoi impegni con l’Europa: il rispetto del Fiscal Compact non sarebbe più una mera utopia.


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Novità – La buona moneta

Le dimensioni del debito pubblico italiano sono un fattore di rischio che ostacola qualunque politica di sviluppo della nostra economia. Un problema annoso, tema di dibattito e di scontro a ogni vigilia del voto. Le politiche di austerità volte ad arginare il debito si sono rivelate inefficaci, oltre che dolorose. In un’Italia afflitta da disoccupazione e vaste sacche di indigenza occorrono provvedimenti adatti a promuovere consumi, investimenti, occupazione e reddito. E il loro ineludibile presupposto è la disponibilità di moneta. Ma come procurarsela in presenza di un debito pubblico abnorme e di regole europee che ne impongono il drastico ridimensionamento?

L’unica risposta a esigenze così contrastanti è che il nostro debito pubblico venga rimborsato con una nuova moneta nazionale a corso forzoso. In più occasioni, Lega e M5S hanno preso le distanze dall’euro e caldeggiato la creazione di una moneta italiana. La posizione di Pierangelo Dacrema è radicalmente diversa. In modo chiaro, asciutto e convincente, questo libro mostra che il benessere della nostra nazione non sta nell’uscita dall’euro. E che un’Italia alleggerita dal debito e dotata di una propria moneta diventerebbe più forte, a tutto vantaggio dell’euro e dell’Europa.

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Il femminismo folle della ragazza che sparò ad Andy Warhol


di Melania Mazzucco (La Repubblica, 8 febbraio 2018)


– Trent’anni fa moriva Valerie Solanas, l’attivista che nel 1968 tentò di uccidere il re della Pop Art. I suoi scritti, ora tradotti in Italia, immaginano un mondo alternativo che può fare a meno del sesso debole: quello maschile.

Il 25 aprile 1988 nella stanza 420 del Bristol Hotel viene ritrovato il cadavere di una delle tante randagie del Tenderloin, il quartiere più sordido di San Francisco. Brulica di vermi ed è in decomposizione, ma si tratta di Valerie Solanas. Era stata una scrittrice, un’attivista politica, una propagandista sociale e una protagonista della controcultura americana degli anni ’60, ma da tempo nessuno aveva notizie di lei.

Era stata risucchiata nel gorgo di un’esistenza maledetta, marginale e “abietta” – l’unica del resto congeniale a una donna che, pur dotata di un’intelligenza superiore e di una laurea, aveva vissuto sempre senza tetto né legge, aveva rifiutato sesso (“rifugio dei mentecatti”), figli, amore e famiglia, e la possibilità di affermarsi come autrice (non scrisse mai il romanzo che le aveva chiesto Maurice Girodias di Olympia Press, l’editore di Nabokov e Borroughs), nonché teorizzato (e praticato) il sabotaggio del sistema e lo s-lavoro. Feccia – in inglese scum – era la sua parola feticcio e l’unica condizione umana cui riconoscesse dignità. E come feccia – “Stravagante, sporca, stracciona” – era morta.

Rigettata nella “fogna”, dannata all’oblio al punto che Lou Reed protesto contro la sopravvivenza del suo ricordo nella canzone I believe. Eppure Valerie Solanas era stata qualcuno. Doveva la celebrità ai tre colpi di rivoltella tirati, il3 giugno del 1968, contro un bersaglio clamoroso: il re della Pop Art, e di New York. Ho sparato ad Andy Warhol, si intitolava il film di Mary Harron (1995), nel quale l’ottima Lily Taylor offriva all’attentatrice il proprio volto impertinente e la voce alle sue teorie (i dialoghi sono quasi tutte frasi di Solanas). Warhol sopravvisse ai proiettili, e Solanas al carcere, alla condanna e all’internamento in manicomio. Ma nessuno dei due fu più lo stesso.

3 giugno 1968: Valerie Solanas spara ad Andy Warhol, ferendolo. Qui Valerie Solanas in arresto.

 

La prima pagina del Daily News del 4 giugno 1968 con la notizia del tentato omicidio.

Se la singolare figura di Solanas rimaneva un riferimento nel sommerso mondo antagonista, col tempo si è risvegliato anche l’interesse della cultura ufficiale – e le sono stati dedicati studi universitari, biografie, romanzi, spettacoli. Ma la radicalità del suo pensiero (e del suo comportamento), l’estremismo e l’estetica terrorista hanno favorito una minimizzazione patologizzante (anche se lei aveva sempre rivendicato: «sono una rivoluzionaria, non una pazza»).

Solanas, bianca proletaria che derideva i sovversivi borghesi igli di papà, accattona non eterosessuale, “superfemminista” che praticava la prostituzione, era fuori da ogni regola, logica, gruppo. Non si conformava al discorso rispettabile della conquista dei diritti e della parità dei generi: la liberazione delle donne non sarebbe venuta dalla mediazione, ma dalla rivolta e dalla violenza. Insomma: un’imperdonabile. Saluto perciò con piacerela pubblicazione di Trilogia SCUM. Tutti gli scritti (Morellini editore / VandA epublishing). Le curatrici, Stefania Arcarae Deborah Ardilli, non solo offrono la traduzione integrale delle (pochissime) opere di Solanas, il Manifesto SCUM, la commedia In culo a te, e ilracconto Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle (inediti in Italia), ma la corredano con due saggi (Chi ha paura di Valerie Solanas e Effetto SCUM Valerie Solanas e il femminismo radicale) fondamentali per inquadrare la vicenda della scrittrice e il suo (problematico) rapporto col pensiero femminista.

Il racconto, del 1966, è un bozzetto satirico, una brillante anticipazione delle opere successive. La commedia, Solanas la offrì a Andy Warhol nel 1967, sperando che la Factory la producesse. Ma il turpiloquio, le teorie eversive della protagonista (la sboccata mendicante Bongi, maschera dell’autrice), l’oscenità di alcune sequenze (una ragazza organizza una cena in cui servirà in tavola un escremento), e l’infanticidio finale la rendevano non rappresentabile nemmeno nel clima libertario del teatro off-Broadway. Warhol tuttavia utilizzò alcune battute di Solanas e la inserì come comparsa nel suo I, a man. Del 1967 è pure lo SCUM Manifesto, che Solanas diffuse smerciandone in strada copie auto-stampate.«Per bene che ci vada, la vita in questa società è di una noia sconfinata» – è il fulminante inizio. «E poiché non esiste aspetto di questa società che abbia la minima rilevanza per le donne, alle femmine dotate di spirito civico, responsabili e avventurose, non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione completa e distruggere il sesso maschile». È violento come tutti i manifestidelle avanguardie, paradossale come i saggi pseudoscientifici sull’inferiorità mentale della donna di cui è insieme una confutazione e una parodia. Ma è soprattutto un ritratto corrosivo ed esilarante degli uomini. «Il maschio è completamente egocentrico, intrappolato in se stesso, incapace di empatizzare con gli altri o di identificarsi con loro, incapace di amor, amicizia, affetto, tenerezza (…) Le sue reazioni sono interamente viscerali, non cerebrali; la sua intelligenza è un mero strumento al servizio dei suoi istinti e dei suoi bisogni (…) non è in grado di interessarsi a nulla, fuorché alle proprie sensazioni fisiche». L’io del maschio in effetti consiste nel suo uccello. La tesi di fondo è che il maschio sia una femmina incompleta, che rivendica come proprie le caratteristiche femminili (forza, indipendenza emotiva, energia, dinamismo, coraggio, vitalità, etc.) per mascherare la propria angoscia, debolezza, invidia: poicé con la tecnologia non è iù necessario nemmeno per la riproduzione, oltre che nocivo è diventato superfluo, e deve essere eliminato (oppure sottomesso).

Non è la rabbia femminista ma l’”umorismo apocalittico” la cifra di Solanas, e il pregio della sua scrittura. Il Manifesto fu pubblicato da Girodias mentre lei era in carcere. Ma gli spari contro Andy Warhol ne imponevano una lettura letterale, sinistra. Mentre la forza di queste pagine è, ancora oggi, la loro allegra, scatenata utopia. Le femmine che Solanas sognava, «dominatrici, determinate, sicre di sé, cattive, violente, egoiste, indipendenti, orgogliose, avventurose, sciolte, insolenti», adatte a governare il mondo, però, faticano ancora a liberare se stesse.


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Donne in Arabia Saudita: io sono ottimista


di Michela Fontana (La 27esima Ora, 7 febbraio 2018)


Cosa cambia davvero per le donne in Arabia Saudita finalmente libere di guidare? Le recenti decisioni del giovane erede al trono Mohammed bin Salman (MBS) che agisce con l’avallo del padre re Salman consentiranno l’emancipazione femminile che molti auspicano? Si può essere ottimisti? O si tratta soltanto di una delle innovazioni «cosmetiche» per compiacere le opinioni pubbliche dei paesi occidentali, primo fra tutti gli stati uniti di Trump che con l’Arabia Saudita ha rinsaldato gli storici legami?

Quando solo pochi anni fa le amiche che frequentavo a Riad organizzavano campagne per il diritto alla guida, nessuna di loro avrebbe potuto prevedere quando il divieto sarebbe caduto. O quando i cinema sarebbero stati riaperti, avrebbero potuto assistere ad una partita di calcio o entrare in un ufficio senza un accompagnatore maschile. Il cambiamento è stato sempre lento in Arabia Saudita, soprattutto agli occhi di un occidentale. La società che io ho conosciuto dal 2010 al 2013, ai tempi del precedente re Abdullah, appariva per la maggior parte conservatrice, anche se si percepivano segnali di fermento e si coglieva l’anelito della parte femminile, la più vivace e pronta al cambiamento. Ma le donne saudite hanno sempre avuto chiaro che quanto ottengono è una concessione dall’alto e mai la conquista di un diritto, in un paese dominato da una monarca assoluto. E — tranne pochi casi, come quello di Manal Al Sharif, l’animatrice della campagna per la guida del 2011, che ora vive fuori dal Paese — non hanno mai spinto le loro rivendicazioni fino a rischiare davvero l’incarcerazione prolungata. Nulla di paragonabile alle lotte delle suffragette inglesi di cento anni fa, pronte a morire. Anche se non si possono paragonare culture e paesi profondamente lontani come Inghilterra e Arabia Saudita.

Re Abdullah era visto dalla donne come un padre benevolo che aveva concesso loro il diritto di sedere nello Shura council, la possibilità di votare ed essere elette alle elezioni municipali, di accedere alle borse di studio per l’estero, purché accompagnate da un parente maschio e aveva consentito loro di lavorare come commesse nei negozi di profumeria e biancheria intima. Aveva anche aperto la più grande università femminile del mondo che ospita 60 mila studentesse. E dove gli uomini — anche docenti — non sono ammessi. Le concessioni di casa Saud alle donne di ieri e di oggi sono un dato positivo innegabile, e tutte le mie amiche saudite ne sono felici, ma il regno Saudita resta ancora un paese paternalista dove la sottomissione della donna è parte integrante del patto tra casa Saud e religiosi wahhabiti, basato sull’adesione ad un islam puro e privo di concessioni sociali. Un rigoroso «nazionalismo religioso» , come lo chiama Madawi al Rasheed la studiosa saudita che vive e insegna a Londra nel suo libro («A most masculine state gender politics and Religion in Saudi Arabia», Uno stato molto maschile: genere politica e religione in arabia saudita) . La stessa studiosa che ha chiamato «femminismo di stato» la vetrina di donne saudite che hanno successo nella professione spesso esibita sulla scena internazionale dalla casa reale.

La rivoluzione dinastica del giugno dello scorso anno ha certamente cambiato la fisionomia del Paese. Dare il potere ad un 32enne rappresenta un salto generazionale rivoluzionario dopo che sul trono del regno saudita si erano soltanto succeduti figli Ibn Saud, (fondatore del regno nel 1932), fratelli sempre più anziani, che hanno guidato un paese dove il 70 per cento degli abitanti ha meno di trent’anni. E dove erano in attesa di arrivare al potere tutti i cugini più anziani di MBS. Mohammed BS oltre che giovane, e’ deciso, spregiudicato, pronto alla guerra, al ridimensionamento della polizia religiosa, e alla resa dei conti all’interno della famiglia reale, come dimostra la sua recente campagna contro la corruzione.

Nel documento Vision 2030 ha tracciato insieme al padre il profilo di una paese più moderno, che non dipende interamente dai proventi del petrolio, che vuole ridurre l’impiego dei lavoratori stranieri. Un regno che avrà bisogno di donne che lavorano. Che guidano, fanno la spesa e portano i figli a scuola. E che saranno anche in grado — almeno teoricamente— di uscire di casa e fuggire da un padre o un marito violento, alla guida di un automobile. Sarà capace il futuro re di cambiare la cultura paternalista profonda , fino ad abolire totalmente la segregazione di genere e la figura del guardiano ( padre, marito, fratello, figlio maschio) che ha ancora sulle donne potere assoluto e le rende eterne minorenni.? E impedisce loro di viaggiare senza la sua autorizzazione , di ottenere la custodia dei figli dopo il divorzio, di sposarsi con uno straniero? Oppure tutto sembra cambiare per le donne perché non cambi davvero nulla? Avendo frequentato a lungo le donne saudite sono ottimista. Nonostante il velo, ce la faranno.

Michela Fontana è l’autrice di «Nonostante il velo» (VandA ePublishing-Morellini Editore) in libreria da maggio 2018.


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Il debito pubblico? Ecco come azzerarlo


di Lorenzo Maria Alvaro (Vita, 6 febbraio 2018)


– La politica italiana parla esclusivamente di argomenti mediaticamente di impatto dimenticando i problemi strutturali che il Paese non riesce a superare: disoccupazione, povertà e immobilismo economico. Tutti problemi che derivano dal gigantesco debito pubblico italiano. Un problema irrisolvibile? Forse no. Ma bisogna stampare moneta.

La campagna elettorale ha acuito il problema. Ma che la politica raramente si occupi dei problemi strutturali del Paese per inseguire argomenti su cui è più facile lucrare consenso politico è un dato di fatto. Per cui continuiamo a dedicare ampio spazio ai migranti e al tema dell’accoglienza, inseguendo ogni fatto di cronaca, più o meno rilevante, dimenticando indicatori elementari e fondamentali per misurare la saulte di un Paese come la disoccupazione, l’economia o la povertà. Tutte voci che rispondo ad un macro problema più grande: il debito pubblico. Su questo non esistono ricette, proposte o progetti. Non se ne parla e basta. C’è invece esclusivamente su queste crede si giochino le sorti dell’Italia e in qualche misure dell’Europa e così ha deciso di dedicare loro un intero libro. Pieangelo Dacrema, economista e scrittore, ha appena pubblicato “La buona moneta – Come azzerare il debito e vivere felici (o solo un po’ meglio)” edito da VandA.ePublishing.

Lei collega il debito a fattori come la disoccupazione, la povertà o la crescita. Perché?
Sono fortemente collegate. Le dimensioni enormi del nostro debito pubblico impediscono, sono l’ostacolo fondamentale, al varo di politiche economiche di sviluppo. Le condizioni del nostro debito pubblico impediscono una politica monetaria espansiva e di una politica economica di sviluppo. Sullo sfondo ci sono la salvaguardia dell’Euro e della nostra partecipazione all’Europa, che per me, lo premetto sono capitali. Abbiamo bisogno di un’Italia sana e forte all’interno di un’Europa sana e forte.

Allora aveva ragione Mario Monti, la strada del rigore era quella più giusta…
Non è così semplice. In Italia accade, come in altri paesi d’Europa, che solo uno shock monetario possa rilanciare significativo la nostra economia. L’esistenza dell’Euro in questo momento impedisce che questo avvenga.

Quindi ha ragione Salvini?
No, calma (sorride ndr). L’Italia sta già violando in modo molto pesante le due regole fondamentali dell’Euro. In primo luogo il non superamento del 60% del rapporto tra debito e Pil. In questo senso in Europa con il nostro 130%, inferiore sono a quello greco, siamo visti come un caso patologico e malato. Siamo considerati un Paese a rischio perché i nostri titoli sul debito pubblico, dai Bot ai Cct, sono visti come viziosi. Ecco il motivo per cui è sempre sotto controllo il famigerato spread. L’altra regola fondamentale è il rispetto del 3% del deficit sul pil. Il deficit corrente misura quello che su base annua segnala le differenze tra incassi e spese dello stato mentre si parla di debito pubblico nel senso dell’intero ammontare del debito accumulato negli anni. Naturalmente i deficit annuali contribuiscono ad aumentare il debito storico. Questa regola siamo in grado di rispettarla. Ma immaginare che il nostro debito possa un giorno rientrare sotto il tetto del 60% è una vera e propria utopia. Un’utopia disegnata dal fiscal compact. Noi lo abbiamo sottoscritto e accolto nella nostra Costituzione. Ma significherebbe per l’Italia abbattere di una cinquantina di miliardi l’anno il debito. Impossibile.

Siamo in campagna elettorale e si sa che le logiche che la muovono non sempre rispondono ai reali interessi dell’elettorato. Stupisce che il tema economica sia pressoché inesistente dal dibattito…
Diciamo che la campagna elettorale ha toccato i temi dell’Europa e del debito pubblico. Ma senza approfondirli. Occuparsi di questo significa occuparsi dei più gravi problemi che affliggono il sistema economico italiano, in primis quello della disoccupazione, in particolare giovanile. È strano che la campagna elettorale trascuri un tema così forte e dirimente. Nel senso che potrebbe spostare molte preferenze.

E qui si torna a Mario Monti. Neanche con il rigore sarebbe possibile?
Certo, significherebbe affidarsi a politiche monetarie di fortissima austerità, alla Monti appunto, designate a ridurre ulteriormente consumi e investimenti aggravando il problema di disoccupazione e di crescita scarsa che potrebbe addirittura sfociare nella recessione. Ma c’è un problema, un dato ormai acclarato: ovunque siano state applicate non solo si sono rivelate dolorose ma anche inutili. Il debito, nonostante la cura Monti, ha continuato a crescere in modo significativo, allontanandoci, a conti fatti, dall’obbiettivo.

Sta dicendo, in soldoni, che siamo spacciati?
No, a mio avviso un’alternativa c’è. Dobbiamo guardare il passato e imparare qualche lezione. Nella storia ci sono state politiche economiche aggressive e forti che in breve tempo hanno dato grandi risultati. Penso ad Hjalmar Schacht, il banchiere di Hitler (presidente della Banca Centrale Tedesca e Ministro dell’economia) che tra il 1933 e il 1936 ha abbattuto la disoccupazione dal 25% a zero, senza inflazione e promuovendo una doppia circolazione di moneta. Questo è il caso più significativo anche se purtroppo evidentemente poco spendibile. Un altro esempio, anche se meno dirimente ma più presentabile, è il new deal di Roosevelt con cui gli Usa sono usciti dalle secche della stagnazione grazie ad una politica economica espansiva.

Queste esperienze sono alla base del suo ultimo libro. Di cosa si tratta?
L’idea è quella della necessita di uno shock monetario. Si tratterebbe di rimborsare i titoli del debito pubblico in scadenza con una nuova moneta, nulla a che fare con la lira sia chiaro. Una moneta che avrebbe bisogno di una nuova denominazione. Moneta a corso forzoso solo in Italia. Il primo obbiettivo è quello di abbattere in modo significativo il debito in breve tempo. Si raggiungerebbe, secondo le mie stime, la quota fatidica quota del 60% in sei anni.

Perché a questo punto non azzerarlo direttamente?
Domanda lecita la cui risposta può essere solo politica. È la politica che dovrebbe stabilire se fosse il caso di continuare il regime per i 50 anni necessari, fino al 2067. Ma se anche ci si limitasse a rimborsarli fino alla soglia critica del rispetto della regole europea i risultati sarebbero molto significativi.

Ma come funzionerebbe questa doppia moneta concretamente?
Il signor Rossi ha dei Btp in scadenza 2019. È un risparmiatore importante, ha un milione di euro di Btp. A scadenza lui riceverebbe non più euro ma nuova moneta italiana. Ricevendo nuova moneta italiana in cambio dei suoi titoli lo Stato non sarebbe costretto ad emettere nuovi Btp per ripagare quelli in scadenza. Questo perché lo Stato oggi per rimborsare il milione al sig. Rossi deve emettere un milioni di nuovi titoli da vendere sul mercato. È questo il motivo per cui il debito tende ad aumentare e non può diminuire. Con una nuova moneta lo Stato si limiterebbe tramite la Banca Centrale nazionale a stampare moneta senza dover emettere nuovi titoli.

E quale sarebbe l’impatto?
Significherebbe che saremmo in Europa rispettando le famose due regole fondamentali. Non saremmo più un economia malata, almeno secondo quelle regole. Significherebbe poi mettere in circolazione moneta che alimenterebbe l’economia reale e quindi andrebbe ad abbattere disoccupazione e povertà.

Possibile che non ci siano criticità?
Si alcune ci sono. Principalmente sarà molto difficile far accettare all’Europa delle deroga rispetto alla centralità e unicità dell’Euro come moneta in Europa. La Bce e la Germania sarebbero profondamente contrarie. Ma su questo si può negoziare. L’Italia potrebbe facilmente dimostrare la bontà della scelta sopratutto in favore dell’Europa.

Continua a sottolineare la centralità e l’importanza dell’Europa. Quindi il suo è un progetto che non solletica sogni di uscita dall’unione?
Il discorso è abbastanza delicato. Se si andasse a creare i presupposti di un negoziato così importante, anche feroce, sulla possibilità di stampare moneta italiana ovviamente non potrebbe trattarsi di un bluff. Se un negoziato del genere fallisse noi dovremmo andarcene. E molti partiti e fazioni politiche sarebbero felici. Io no perché l’obbiettivo primario sarebbe rimanere in Europa con regole diverse.

Perché?
L’Europa è un grande progetto di cui l’Euro è solo la bandiera, non piccola me ne rendo conto. È però solo un primo passo di un’unione politica che continua a mancare perché è un’unione sorda alle esigenze locale. Anche qui ci sono grandi esempi del passato. L’Impero Romano, il più grande impero di sempre, era molto rispettoso delle singolarità e delle peculiarità dei popoli governati. Un altro esempio, per quanto molto diverso, che considero significativo è l’inglese, che è diventata lingua dominante a livello globale. Ma le lingue locale esistono e guai se venissero soppresse. Ci sarebbe la rivoluzione, giustamente. Nel caso delle monete è ancora più facile, perché raramente le si identificano a una cultura o una tradizione. Che fatica si farebbe a continuare a considerare l’Euro moneta principe con accanto monete locali che avrebbero il pregio di funzionare da motore dello sviluppo locale? Sarebbe anche un modo di contrastare il fenomeno della divinizzazione e della moneta. Tornerebbe ad essere uno strumento per il bene comune e non più un obbiettivo da raggiungere e salvaguardare. Le colpe che l’Euro oggi si prende sono dovute sostanzialmente a questa logica malata.


 

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Valerie Solanas, la seriale odiatrice di uomini prima dell’avvento di #metoo


di Pietrangelo Buttafuoco (Il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2018)


– Pubblicati gli scritti della femminista e provocatrice che passò alla storia per aver tentato di uccidere Andy Warhol.

La ragazza con la pistola è Valerie Solanas. È quella che di sé dice “sono una rivoluzionaria, non una pazza”. La scena contemporanea è tutta di #MeToo, ovvero la campagna di mobilitazione contro gli abusi sulle donne, ma la ragazza che aspetta, punta e spara resta lei: Valerie Solanas che il 3 giugno 1968, e dunque nell’apoteosi del 1968, scarica tre colpi di pistola sul petto di Andy Warhol portandolo sulla soglia della morte. Un fatto, questo, di un’era fa.

Il femminismo bussa oggi alle estreme conseguenze –fare del fatto naturale un fatto culturale – e l’epica della dialettica borghese si consuma nella guerra delle femmine contro i maschi: Woody Allen, probabilmente, in conseguenze delle accuse di molestie che gli arrivano non potrà più presentarsi in pubblico e nel solco di Harvey Weinstein – il produttore predatore – già tutto il monolite ideologico derivato da Hollywood va a franare, un po’ come quando ebbe a svanire l’Impero Sovietico.

Una dittatura che non ci sarà mai più, quella dell’immaginario fabbricato –e qui si capovolge l’esito, tutto di meravigliose pedagogie –nel vapoforno del melodramma liberal, con le faccine di Weinstein e Allen perfette a ricalcare, recuperando Warhol, i medaglioni da parata di memoria bolscevica. Erano quelli con i faccioni di Marx, Lenin e Stalin sulla Piazza Rossa.

La ragazza con cui la coscienza contemporanea non ha mai fatto i conti è comunque Valerie Solanas (Ventnor 1936-San Francisco 1988). Presente nel presepe di Greenwich Village e della stessa Factory di Warhol, Solanas – lesbica, teorica dell’automazione radicale – è innanzitutto l’autrice di Scum.

È il “famigerato manifesto superfemminista”, scrive Stefania Arcara nel saggio introduttivo di Trilogia, tutti gli scritti di Valerie Solanas (Morellini editore), l’opera di una mascolina odiatrice di uomini che “ha subìto un ostracismo permanente attraverso la patologizzazione del discorso psichiatrico e della retorica liberale che ne hanno delegittimato il ruolo di scrittrice e polemista”.

Manifesto Scum non è l’acronimo di Society for cutting up men, ossia Società per la cancellazione dell’uomo (“straordinariamente di cattivo gusto”, dirà la stessa Solanas di questa esegesi della sigla) ma è comunque il marchio custodito nelle genuine che fa da innesco a un capitombolo tutto interno alle dinamiche “della parte giusta”. La guerra delle femmine contro i maschi (ricchi) è la contraddizione in seno alle rivendicazioni dell’autocompiacimento liberale e borghese dove l’uomo –tra le grinfie di Solanas – è il Conformismo. Ecco la prosa: “Il maschio che si avventura più lontano è la drag queen; ha un’identità, è una femmina, ma non ha un’individualità; si conforma in maniera coatta allo stereotipo femminile creato dal maschio, riducendosi a nient’altro che a un fascio di manierismi stilizzati”. Ed ecco la poesia: pum, pum!


 

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Deborah Ardilli: “Valerie Solanas. Trilogia Scum”


di Livio Partiti (Il posto delle parole, 27 gennaio 2018)


– Per la prima volta in un unico libro tutti gli scritti di Valerie Solanas, femminista e provocatrice che passò alla storia per aver tentato di uccidere Andy Wharol.

Assurta alle cronache mondiali come la pazza che sparò ad Andy Warhol – tanto che nel 1996 ne venne tratto un film (I Shot Andy Wharol) -, Valerie Solanas fu invece una figura cruciale della controcultura degli anni Sessanta. Frequentatrice del Greenwich Village e della Factory, lesbica dichiarata, icona del femminismo radicale, è l’autrice del celebre Manifesto SCUM. Oggi ritorna alla ribalta, oggetto di rinnovato interesse da parte dei nuovi femminismi radicali e dei queer studies.
La sua opera, riscoperta nel mondo anglosassone da più di un decennio, resta invece ancora poco nota al pubblico italiano. Trilogia SCUM colma questa lacuna, presentando per la prima volta nel mondo tutti gli scritti di Solanas – Manifesto SCUM in una nuova traduzione e due inediti a livello mondiale In culo a te, Prontuario per fanciulle – in un unico volume arricchito da due introduzioni critiche.
Composta prima del risveglio della seconda ondata femminista degli anni Settanta, a cui ha fornito un impulso decisivo, l’opera di Solanas rivela tutta la sua straordinaria attualità. Con la sua verve polemica e provocatoria, cinica e incendiaria, anticipa temi politici e sociali dibattuti ancora oggi, tra i quali l’uso della tecnologia riproduttiva, l’esclusione delle donne dalla cultura, dall’arte, dalla scienza e dalle risorse economiche, il lavoro domestico non retribuito delle donne, il sessismo psichiatrico e la critica radicale all’eterosessualità obbligatoria.

Valerie Solanas (Ventnor, New Jersey 1936 – San Francisco 1988), scrittrice e commediografa.
Piú volte vittima di abusi sessuali, fin dall’infanzia, visse dall’età di 15 anni per le strade di New York sostenendosi con l’elemosina e la prostituzione. Nel 1965 scrisse il dramma teatrale Up your Ass (In culo a te).
Nel 1967 scrisse “SCUM Manifesto”, dapprima autoprodotto e venduto da lei stessa per la strada a 25 cent alle donne e 50 agli uomini, e poi pubblicato da Olimpya Press. Nel 1968 sparò a Warhol, che si era rifiutato di produrre Up your Ass e fu condannata a tre anni di detenzione. Passò il resto dei suoi giorni fra la strada e vari ospedali psichiatrici, morì a San Francisco all’età di 52 anni.

Deborah Ardilli ha conseguito un dottorato di ricerca in Filosofia Politica presso l’Università di Trieste, è traduttrice e studiosa di teoria politica e storia dei movimenti femministi. Attualmente collabora con il “Laboratorio Anni Settanta” dell’Istituto Storico di Modena.

Stefania Arcara insegna Letteratura inglese e Gender Studies all’Università di Catania ed è presidente del Centro Interdisciplinare Studi di Genere GENUS. Si occupa di traduzione letteraria, letteratura di viaggio, scrittura femminile, gay & lesbian studies, queer studies, pornografia e discorsi sulla sessualità nell’età vittoriana.


 

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Le universitarie tifano per l’eliminazione totale del maschio


di Alessandro Rico (La verità, 12 gennaio 2018)


– Ripubblicata in Italia l’opera omnia di Valerie Solaris, l’attivista radicale che sparò a Andy Warhol e che teorizzò la supremazia delle donne. Su Facebook le sue fan danno vita a una pagina celebrativa.

È una pagina Facebook con circa 500 fan, quella che celebra la pubblicazione in lingua italiana della «trilogia Scum» della controversa scrittrice americana Valerie Solanas, femminista radicale e teorica dell’eliminazione del maschio, che nel 1968 attentò alla vita di Andy Warhol.

Nel 2018, sessant’anni dopo il tentato omicidio di uno dei più grandi artisti del Novecento, arriveranno in libreria i tre titoli più celebri della fondatrice del movimento femminista «feccia» («scum», in inglese): Manifesto Scum, In culo a te e Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle. Il volume, edito da Marellini, è curato da Stefania Arcara, titolare della cattedra di «studi di genere» all’Università di Catania e deborah Ardilli, dell’Istituto storico di Modena.

Nulla da dire, ovviamente, sulla legittimità dell’opera editoriale. A differenza delle femministe stesse, spesso animate da un certo fanatismo censorio, noi riteniamo che tutte le idee, per quanto assurde, possano essere presentate al pubblico. Ma come è lecite esprimerle, è lecito criticarle. Non soltanto perchè l’autrice incensata dal drappello di femministe da social network ne professava alcune oltremodo discutibili, ma anche perchè, dalle curatrici della trilogia, non sembra provenire alcuna esplicita dissociazione dagli esiti violenti cui quelle teorie minacciano di condurre.

La Solanas, nata nel New Jersey nel 1936 e morta a San Francisco nel 1988, da bambina fu vittima di abusi sessuali da parte del padre, esperienza drammatica che deve aver contribuito a quell’odio viscerale nei confronti dei maschi che caratterizzerà tutta la sua parossistica invettiva letteraria. negli anni in cui i figli dei fiori andavano proclamando l’amore libero, infatti, la Solanas, emarginata persino dal movimento hippie, diede alla luce quelle opere, come il Manifesto Scum, in cui definiva il maschio un essere inferiore.

C’è chi addirittura ritiene che la parola Scum, in realtà, fosse l’acronimo di Society for cutting up men, «Società per l’eliminazione degli uomini», che in effetti la Solanas evocava esplicitamente nell’incipit del libro: «Alle donne responsabili, civilmente impegnate e in cerca di emozioni sconvolgenti, non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione globale e distruggere il sesso maschile». Altri interpreti considerano il Manifesto un’opera prettamente satirica, che ribalta provocatoriamente tutti i presunti dogmi della società patriarcale, additando l’uomo come una «femmina mancata» (allusione alla tesi del filosofo greco Aristotele), o trasformando la freudiana «invidia del pene» in «invidia della vagina». Ma se, da un lato, la stessa Solanas confermò che il suo intento era «dannatamente serio», è la sua condotta a dimostrare le finalità tutt’altro che pacifiche.

La Solanas chiese invano a Andy Worhol di realizzare un film basato sulla sua opera Up in Your Ass (In culo a te). L’artista perse la copia che lei gli aveva prestato e, pare, non retribuì il piccolo ruolo della scrittrice nel film da lui diretto, I, A Man. Per vendicarsi, il 3 giugno 1968 la Solanas gli sparò tre colpi di pistola. Giudicata schizofrenica paranoide, scontò tre anni in prigione; Warhol, invece, salvato  per miracolo con un delicato intervento chirurgico, soffrì le gravi conseguenze fisiche e psicologiche di quell’attentato. Il suo amico e collaboratore Billy Name commentò:  «Fu tanto scosso da quell’evento che non gli si poteva mettere la mano sulla spalla senza che saltasse».

Dell’eventuale legame tra le tesi estremiste della Solanas e il tentato omicidio, o del fatto che proprio quelle teorie potessero in parte essere il frutto di una mente malata, non sembra però esserci traccia nè nell’analisi delle curatrici italiane nè nella recensione apparsa il mese scorso su Il Manifesto. In un’intervista comparsa sul blog del collettivo femminista Effimera, anzi, Deborah Ardilli spiega: «È bene chiarire subito che l’obiettivo non era quello di far sparire sotto il tappeto le possibilità violente di Solanas a vantaggio di un’immagine “ripulita” e rassicurante. Ci premeva invece inquadrare quelle possibilità violente all’interno di un orizzonte più largo, sottrarle alle astrazioni del verdetto morale e della schedatura psichiatrica e collegarle a un’intenzione significante indissociabile dal processo intentato da Solanas alla società etero-patriarcale». Insomma, una potenziale omicida diventa quasi un genio incompreso; guai a emettere un «verdetto morale» o una «schedatura psichiatrica». Sarà per questo che, secondo Il Manifesto, è «davvero una bella notizia quella della pubblicazione degli scritti di Valentina Solanas», la cui «fama», si legge genericamente nella recensione, «si intreccia in modi contraddittori con ciò che l’ha resa celebre», ovvero il tentativo di assassinare Warhol.

Lungi davvero dal proposito di ridurre tutto a moralismi o psicologismi, ci resta però un quesito: cosa sarebbe successo se, sessant’anni dopo un tentato «femminicidio», un editore avesse ripubblicato un saggio che esorta alla distruzione del genere femminile? E quante boldrinate sull’hate speech in rete ci saremmo sorbiti, se una pagina Facebook avesse sponsorizzato quell’opera?


 

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Scopri l’autore: Federico Nanut

Federico Nanut ha quarant’anni, una laurea in lingue e letterature straniere, e tanti lavori nel curriculum (copywriter, responsabile di una scuola d’inglese…). Nel 2008 ha pubblicato con  Excelsior 1881 il suo primo romanzo “In Africa saremmo già morti”.

Ecco come il nostro Autore ha risposto al celebre questionario di Proust, qui riadattato per VandA.

Il tratto principale del tuo carattere?
La focosità.

La qualità che preferisci in un uomo?
La bellezza.

E in una donna?
L’ironia.

Il tuo migliore amico?
Il Moment.

La tua occupazione preferita?
Fare politica.

Il tuo sogno di felicità?
Avere un Rolex.

Quel che vorresti essere?
Astronauta.

Il Paese dove vorresti vivere?
Cina.

Quello che detesti più di tutto?
I balletti in televisione.

Il primo libro che hai letto?
Yo, brothers and sisters: siamo o non siamo un bel movimento? (Jovanotti)

Il libro che vorresti vedere pubblicato?
Un inedito di Rimbaud.

Il libro che ha cambiato la tua vita?
Tutti quelli di Coelho.

Cartaceo o digitale?
Entrambi.

Il tuo motto?
Uccidere e spalare la neve sono fatica sprecata: ci pensa il tempo

 

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Scopri l’autore: Maurizio Campisi

Maurizio Campisi (Rivoli, 1962) è stato collaboratore e corrispondente di varie riviste italiane ed estere (Diario, Narcomafie, D di Repubblica, Peacereporter, La Juventud di Montevideo , Liberación e altre). Freelance, attualmente è collaboratore dall’America Centrale per la Radio Televisione Svizzera e per l’agenzia di stampa Pangea News. Ha pubblicato due libri, “Centroamerica. Reportages” e “Sandino. Il generale degli uomini liberi” (entrambi per Fratelli Frilli Editori, Genova), e l’e-book “Pelle di Serpente. Lo sfruttamento infinito delle risorse dell’America Latina” (Editorial Intangible, Valencia), pubblicato anche in spagnolo e in edizione cartacea per Marcovalerio, Torino. Nel 2013 è uscito per VandA ePublishing “Il segreto di Julia”, il primo di una serie di romanzi gialli che hanno come protagonista l’intendente Rodrigo Navarra. Vive in Costa Rica.

Ecco come il nostro Autore ha riposto al celebre questionario di Proust, qui riadattato per VandA.

Il tratto principale del tuo carattere?
La pazienza.

La qualità che preferisci in un uomo?
La lealtà.

E in una donna?
La complicità.

Il tuo migliore amico?
Mia moglie.

La tua occupazione preferita?
Scrivere.

Il tuo sogno di felicità?
Peace and Love.

Quel che vorrei essere?
Un’aquila.

Il Paese dove vorresti vivere?
È quello in cui vivo, la Costa Rica.

Quello che detesti più di tutto?
Arroganza, ipocrisia e ignoranza.

Il primo libro che hai letto?
Da bimbo, Zanna Bianca, di Jack London.

Il libro che vorresti vedere pubblicato?
Il libro degli esclusi.

Il libro che ha cambiato la tua vita?
Sulla strada, di Jack Kerouac.

Cartaceo o digitale?
Quasi sempre e solo digitale.

Il tuo motto?
Ottimista, sempre.

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Una seriale odiatrice di uomini


di Giovanna Zapperi (Il Manifesto, 12 dicembre 2017)


«Trilogia SCUM. Scritti di Valerie Solanas»: un libro a cura di Stefania Arcara e Deborah Ardilli (Vanda e-publishing / Morellini editore) che raccoglie in un’edizione integrale i testi della femminista radicale che sparò a Andy Warhol.

Valerie Solanas è una figura centrale quanto controversa nelle storie del femminismo. Autrice nel 1967 del celebre Manifesto SCUM – il manifesto della «Società per l’eliminazione del maschio», di cui era fondatrice e unica affiliata – Solanas, pur considerandosi una rivoluzionaria, non si è mai identificata con il movimento delle donne, né con nessun movimento di liberazione, incarnando così un’esteriorità che non ha mai smesso di interpellare la critica femminista. La sua fama si intreccia inoltre in modi contraddittori con ciò che l’ha resa celebre, ovvero il tentativo di assassinare Andy Warhol nel giugno del 1968.

LA FORTUNA DEL MANIFESTO è infatti legata a questo evento e alla dubbia operazione editoriale che di fatto espropriò l’autrice della sua opera, divenuta poi in pochi anni un testo fondamentale per il nascente movimento femminista.

È davvero una bella notizia quella della pubblicazione degli scritti di Valerie Solanas, finalmente presentati integralmente in una nuova traduzione accompagnata da un approfondito apparato critico a cura di Stefania Arcara e Deborah Ardilli (Vanda e-publishing / Morellini editore). Accanto al Manifesto SCUM sono infatti tradotti per la prima volta l’atto unico In culo a te del 1965, l’esilarante Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle, scritto nel 1966, e infine L’Ospedale psichiatrico di Belleview è gli Stati Uniti del Caazzoo (1970), poesia scritta da Solanas mentre si trovava rinchiusa nella struttura, nello stato di New York tra il 1969 e il 1970. Probabilmente, spiegano le curatrici, altri testi sono andati perduti dopo la morte dell’autrice nel 1988, la cui vicenda è stata caratterizzata dalla marginalità e dall’isolamento che permeano tanto la sua biografia quanto il rapporto con i movimenti rivoluzionari a lei contemporanei.

Stefania Arcara afferma nell’introduzione che «Valerie Solanas ha rappresentato l’epitome della lesbica mascolina, odiatrice di uomini, quindi pazza, una figura scomoda e imbarazzante per il femminismo liberale e, al tempo stesso, bersaglio perfetto per qualsiasi discorso antifemmista».

SE IL FEMMINISMO LESBICO e radicale degli anni settanta ha permesso di leggere politicamente la dissidenza di Solanas, la questione del rapporto tra l’autrice del Manifesto SCUM e il femminismo americano e internazionale è piuttosto complessa, come spiega Deborah Ardilli nel suo saggio che ricostruisce le vicende alterne della ricezione dello scritto, indicando anche l’attualità di una lettura «politica» di Solanas. È infatti innegabile che i suoi scritti continuino a trovare risonanza in un presente ancora segnato dalla violenza maschile e in cui sessualità, riproduzione e lavoro sono più che mai al centro dell’agenda femminista.

Nel Manifesto SCUM, tali questioni sono affrontate in chiave distopica attraverso una scrittura che si appropria della radicalità di stampo avanguardista, combinandola con la fantascienza e il tono da trattato teorico-politico, che però diventa qui definitivo e senza concessioni, anche se non privo di umorismo.

L’INCIPIT DEL MANIFESTO rimane emblematico di quello che è stato definito come un «femminismo terrorista», ossia l’ambizione di portare la lotta per la liberazione femminile al suo limite più terrificante e conflittuale, quello dell’eliminazione pura e semplice dei maschi: «Per bene

che ci vada, la vita in questa società è una noia sconfinata. E perché non esiste aspetto di questa società che abbia la minima rilevanza per le donne, alle femmine dotate di spirito civico, responsabili e avventurose non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione completa e distruggere il sesso maschile».

LEGGERE O RILEGGERE i testi di Solanas in questa fase di ripresa del movimento femminista è un’esperienza particolarmente stimolante e senz’altro la pubblicazione di questo volume partecipa del rinnovato interesse per la radicalità del femminismo degli anni settanta, proprio nel suo porsi come movimento rivoluzionario capace di resistere all’integrazione culturale, puntando su una riconfigurazione globale dei rapporti sociali.

Carla Lonzi, che si era in qualche modo riconosciuta nel carattere «non recuperabile» (né come arte, né come cultura, né tanto meno come avanguardia) del Manifesto SCUM, scrive che Valerie Solanas «si è presa l’incomodo di odiare gli uomini, è da questo stress che le deriva la lucidità su di loro». L’arte e la cultura sono non a caso tra i bersagli del testo di Solanas, che ravvisa proprio nella figura del grande artista l’incapacità maschile di entrare in relazione e nell’arte la grande truffa ai danni delle donne nel fabbricare un mondo totalmente artificiale e privo di senso. «Un ‘artista maschio’ – scrive Solanas è una contraddizione in termini», proprio perché intrappolato nelle menzogne che gli impediscono di creare qualcosa di autentico.

IL TESTO DI SOLANAS è costruito su un ribaltamento di significati, in cui le caratteristiche tradizionalmente assegnate alle donne, come passività e debolezza, vengono ora addossate agli uomini. In questo contrappunto, in cui gli uomini occupano adesso la posizione disumanizzante che il patriarcato è solito attribuire alle donne, l’antagonista per eccellenza non è tanto il maschio, quanto quelle che Solanas chiama «le figlie di papà», le donne «per bene» che si fanno complici della propria oppressione.

Se questo rappresenta uno dei nessi che collegano tra di loro i diversi scritti dell’autrice, è forse anche il punto che più facilmente rischia di non essere compreso se letto attraverso le lenti di un femminismo liberale. Ciò che è in questione infatti è la necessità di combattere l’oppressione ancora più che l’oppressore, in particolare quando questa è stata interiorizzata al punto da suscitare adesione entusiastica e incondizionata, facendo dell’oppressione l’unica forma di vita ammissibile per le donne. Il femminismo di Solanas insomma punta dritto alla violenza delle strutture patriarcali. Il suo carattere eccedente, distopico e irrimediabile rappresenta, in questo senso, esattamente il suo punto di forza.


© 2018 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE

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Novità – Milano nei miei occhi

 

Raccolti nel catalogo Milano nei miei occhi, i dipinti di Adriana Luperto presentano con un linguaggio unico il suo mondo interiore. Pur recuperando la semplicità e l’innocenza dell’infanzia, le sue opere non sono sdolcinate, anzi da esse traspare una grande energia. Tutto questo per dichiarare l’amore per una città, Milano, in cui l’artista ha vissuto e da cui è stata catturata. Nelle sue tele, i protagonisti sono gli “ultimi“, dai clochard ai “drogatini”. Milano appare come una metropoli svuotata da altri personaggi: i borghesi diventano solo passanti, silhouette nere senza volto e senza individualità. Non mancano tributi alla città della moda e alla poetessa maledetta dei Navigli, Alda Merini, con l’immancabile sigaretta. E ancora, è rappresentata la vita milanese e i suoi punti di ritrovo:  il locale Le Scimmie (Musica a Milano), dove si suona il jazz, il bar Magenta (L’attesa) e il bar delle ragazze Cicipciciap.

Adriana Luperto ha sempre esposto le sue opere in luoghi estranei al sistema ufficiale dell’arte per rimarcare la sua identità di outsider. Nata a Lecce l’8 dicembre 1963, disegna e dipinge da quando aveva 11 anni. A 13 anni vince il suo primo premio, Monumenti della Puglia, con disegni a china e acquarello che usa per raccontare la sua terra. A 21 anni si trasferisce a Milano e all’inizio degli anni Novanta lavora con continuità a scenografie, murales e allestimenti per la discoteca Morandi di Lugano. Negli anni ha continuato ad esporre le sue opere in diverse città, tra cui Bologna, Venezia e Lecce. Nel 2017 VandA.ePublishing ha pubblicato il catalogo La solitudine dell’amore.  

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Novità – La materia sapiente del relativo plurale

 

La materia sapiente del relativo plurale ha un importante compito: liberarci dal grande bluff del patriarcato. Con queste pagine Daniela Pellegrini ha voluto condividere con i suoi lettori il percorso reale della materia dei suoi pensieri, per tener conto dei fatti e dei misfatti che li hanno generati.

Pellegrini prevede per il futuro una nuova organizzazione sociale. Di questa nuova elaborazione il movimento delle donne si deve far carico e diventare punto di riferimento non per femminilizzare, ma per depatriarcalizzare la politica e le vite di tutta la specie.

Tendiamo a pensare che il patriarcato sia l’unico tipo di società esistito ed esistente, ma in realtà non è così. Le donne hanno sofferto l’essere chiuse fuori, tanto da indurle a desiderare di essere dentro, partecipare, chiedere stessi diritti, parità, uguaglianza. Ma peggio è essere chiuse dentro, e non solo chiuse dentro gli stereotipi del femminile forzati e imposti dal potere del maschile, ma dentro la sua cultura, quella del possesso, dell’abuso e della liceità. Il presupposto è scegliere il fuori come punto di avvistamento ed elaborare la sua costruzione finalmente sapiens. Quindi ora è di nuovo tempo di parlar chiaro, di rinfrescarsi la vista: per troppo tempo non lo si è più fatto e ora se ne vedono le conseguenze.

Classe 1937, Daniela Pellegrini è sempre stata una femminista radicale attiva. Nel 1964 ha ideato il primo gruppo politico italiano di donne, Dacapo, divenuto poi Demau, perorando il “separatismo” come vera autonomia dal patriarcato. Nel 1981 ha fondato a Milano, insieme a Nadia Riva, Cicip & Ciciap, primo circolo culturale e politico femminista, che rappresenta un’opportunità unica per tutte le donne che desiderino parlare, parlarsi, scambiarsi pensieri e punti di vista su se stesse e sul proprio rapporto con il mondo. Sempre con Nadia Riva ha creato la rivista Fluttuaria, segni di autonomia nell’esperienza delle donne, attiva dal 1987 al 1994, su cui sono apparsi molti suoi scritti.

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Novità – Io abito, sono abitato

Filosofi spazzini per abbattere luoghi comuni, un Airone cinerino per iniziare un viaggio migrante, Pianoforti per una dolce armonia, la Pace depressa in cura dallo psicanalista. Io abito, sono abitato è un collage di storie e metafore per entrare nel cuore e nella parte migrante di ciascuno di noi, grande e piccola. L’ospitalità è al centro del discorso. L’accoglienza è vista come la prima apertura da cui deriva un rapporto umanamente ricco basato sulla solidarietà. Dare e ricevere non possono essere contrapposti, al contrario, sono necessariamente uniti. «Il diverso non è mai esotico ma “diversamente familiare” e soprattutto facile da “addomesticare”, come ci insegna Il Piccolo Principe». L’obiettivo di questo libro è spingere i bambini a riconoscere l’altro-come-se-stesso, anche se ha la pelle di un colore diverso, un diverso modo di vivere, abitare, mangiare e giocare.

Agnese Bizzarri ci ha abituati alle sue storie profonde ma raccontate con parole dolci per rivolgersi ai più piccoli.  Con VandA.ePublishing, infatti,  ha pubblicato gli ebook C’era una volta… anzi no! (2015), Dentisti, dinosauri e altre strane creature (2016, adottato in tutte le scuole dell’infanzia e primarie di Parma come progetto educativo) e 12 case, tanti pianeti (2016). Si occupa anche di progetti educativi e culturali presso fondazioni, enti, pubbliche amministrazioni, università e associazioni non profit e per il sito Che Forte.it cura la rubrica La mitologia spiegata ai bambini.

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La materia sapiente del relativo plurale: una teoria vecchia di vent’anni


di Luisa Vicinelli (lematriarcali.org, 28 novembre 2017)


– In un’epoca in cui tutto ciò che ci circonda diventa obsoleto in men che non si dica, il testo di Daniela Pellegrini  sancisce la superiorità della riflessione puntuale e profonda sulla modernità. Un pensiero di donna ancorato in un corpo che osserva e ragiona, e non si lascia sedurre dall’onanismo delle filosofie maschili e anche da quello di alcune filosofie che si dicono femministe.

Il legame indissolubile che inchioda la teoria alla pratica non fa sconti nemmeno a quel simbolico così caro al femminismo italiano. La voce della materia donna non subisce fascinazioni, ma affascina chi ritiene che quella dell’autenticità sia la strada da seguire se vogliamo “liberarci della bestia” e “uscire da una cultura del cazzo”, come l’autrice ci esortava a fare nel suo libro precedente. Ma se qui la denuncia del disastro patriarcale la faceva da padrona, ne La materia sapiente è l’analisi che prende il sopravvento e ci consegna uno dei trattati femministi più significativi degli ultimi anni. Il discorso su una possibile alternativa al Due imposto dal patriarcato si dipana in un’esposizione dal ritmo serrato che spazia dalla preistoria all’oggi, prendendo in esame  i fattori sociali, psichici, storici che hanno determinato la supremazia di un ordine maschile a discapito non solo delle donne, ma della specie tutta. I meccanismi che mantengono indissolubilmente legati  i due sessi  nella disastrosa corsa verso la catastrofe assumono una sorta di tangibilità e acquistano dimensione di realtà, sembra quasi di poterli spazzar via con una mano. Le ragioni profonde della situazione che in primis le donne e a seguire tutti gli esseri viventi subiscono da quando si è affermato il patriarcato ti entrano nella carne: come per incanto spariscono gli interrogativi e le incertezze che ci hanno ammorbato dopo lo sfilacciamento del  movimento delle donne (che Pellegrini esorta a tornare a chiamare in questo modo perché di più ampio respiro e plurale perfino dei “tanti” femminismi esistenti ). Riconsegnando alla materia, che per Pellegrini  è la donnità che accomuna tutti, il suo ruolo di guida razionale della vita tutta ci conduce senza tentennamenti al luogo terzo, indiscutibilmente altro dal due patriarcale, come indiscutibilmente Altro sono le donne, soprattutto quando insieme riprendono quel percorso di autenticità iniziato negli anni ’70 con l’autocoscienza. Perché, dice Pellegrini, è ancora oggi lo strumento più potente che abbiamo, insieme al separatismo. Allora la materia si incastra, si separa e si dispiega come un frattale, che è sia essenza che funzionamento: è la matrice che si rivela in tutta la sua potenza liberandosi dalle pietre sedimentate in secoli di dominio maschile. Il potere e il denaro che tanto la fanno da padrone perdono la loro forza e permettono la nascita di una specie sapiens di pratiche e pensiero.

Questa  teoria vecchia di vent’anni  cui la sola cosa che è mancata è stato l’ascolto, nonostante le tante prese di parola dell’autrice sui pericoli che il movimento delle donne e il suo pensiero ha corso dalla sua nascita a oggi, prorompe in tutta la sua forza, consegnandoci in un sol colpo le pratiche, le discussioni, le riflessioni che l’hanno determinata, perché il pensiero stesso è materia fuori dal bluff patriarcale che lo annebbia e lo complica. Diversi paragrafi sono dedicati allo svelamento di come funziona il bluff, perché è necessario agli uomini e quali sono i trabocchetti in cui cadiamo e perché. Il libro, fondamentale per la proposta/teoria che espone, ci regala anche una lettura del presente, delle “nuove” correnti di pensiero, mostrando come siano in realtà l’ennesima vecchia mossa patriarcale a favore della sua stessa sopravvivenza. È la consapevolezza di sé che fa da guida nei meandri delle proposte più bizzarre dal sapore innovativo, consapevolezza del limite e responsabilità verso la vita. La fascinazione del maschile è sempre in agguato sulla strada della nostra centratura, ma se in Liberiamoci della bestia  questa veniva addotta come causa della non totale consapevolezza femminile, nella Materia sapiente l’autrice ci accompagna passo passo a vedere come si dispiega in ciascuna e tutte noi, perché è difficile individuarla legata com’è al nostro essere materia accudente. Capitoli interessantissimi sono anche quelli che prendono in esame la riproduzione della specie, sollecitando tutte a non lasciare che un episodio circoscritto nella nostra vita diventi il veicolo per imporre la dualità a ogni espressione del nostro esistere. L’apertura al maschio è un atto dovuto, ma non necessario, per una materia/donnità che vede e si assume la responsabilità della vita su questo pianeta: testimonia della lucidità di vedere quello saprà fare per discostarsi dal sistema necrofilo che ha messo in atto. E dopo 4000 anni passati a guardare, con questo libro ci viene offerta di nuovo la possibilità di vedere e un invito a farlo insieme. Non perdiamola.


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Scopri l’autrice: Emanuela Torri

Emanuela Torri. La sua vita scorre senza un attimo di inattività, ama la scrittura ma non disdegna una corsetta e una chiacchierata con le amiche, che la definiscono “un litro di vino frizzante contenuto in una tazzina di caffè”. Classe 1977, vive in provincia di Frosinone con il marito e le due figlie. Ha pubblicato con VandA “The babymaker” (2015) e “Toy Boy” (2016).

Ecco come la nostra Autrice ha riposto al celebre questionario di Proust, qui riadattato per VandA.

Il tratto principale del tuo carattere?
Credo che la caratteristica principale del mio carattere sia l’ironia. Più che il bicchiere mezzo pieno tendente ad un perenne ottimismo, tento di ricercare un particolare che possa rendere qualsiasi situazione ironica e divertente.

La qualità che preferisci in un uomo?
Amo la decisione, quella dose di carattere e determinazione che mi affascinano nel sesso opposto e di cui ho assoluto bisogno in un rapporto a due… inoltre amo la velocità di pensiero, quella scaltrezza che una persona dimostra nella vita di tutti i giorni.

E in una donna?
Forse in una donna preferisco la capacità di comprendere qualcuno al primo sguardo, quell’innata alchimia che con qualcuna nasce istantaneamente. L’ironia è un’altra dota che apprezzo, come la sincerità.

Il tuo migliore amico?
Gioie e dolori… perché le amicizie sono così per la sottoscritta. Diciamo che mi fido di poche persone e che le esperienze negative mi hanno fortificato parecchio. A quelle poche amiche che ho, do tutto… non serve essere sempre costantemente presenti nella mia concezione di amicizia, ma serve esserlo quando è necessario. Negli ultimi anni, per via della scrittura, ho conosciuto, non solo virtualmente, persone splendide che reputo fondamentali ormai nella mia vita.

La tua occupazione preferita?
Amo la televisione e sono una divoratrice di serie tv americane, che seguo anche in streaming se necessario. Mi piace leggere e trovo nella scrittura una sorta di relax fisico oltre che emotivo, ma avendo due bambine ed un lavoro, non sempre posso dedicarmi a queste occupazioni, ahimè!

Il tuo sogno di felicità?
Quando chiudo gli occhi, vedo la mia famiglia e se dovessi pensare alla felicità, penserei sicuramente a quella che proviene da loro, dalla loro presenza e dalla loro serenità… poi se a questo, ci fosse anche un conto in banca da centomila zeri, una casa in ogni luogo fiabesco del mondo e l’immortalità, allora non avrei certo nulla da ridire!

“Vorrei essere…”
Bella domanda… a volte me lo domando ancora. Posso dire che tutto quello che avrei voluto essere nella mia vita, lo sono già. Donna, moglie, madre e lavoratrice professionalmente soddisfatta. Il fato, continuerò sempre a dirlo, è stato benevolo con me e se a questo aggiungiamo anche l’aver pubblicato un mio lavoro, allora non posso proprio volere di più al momento.

Il paese in cui vorresti vivere?
Domanda a cui rispondo in un nanosecondo: l’America. Amo il loro patriottismo, la loro dedizione, il loro orgoglio e anche la loro grandiosità. Vado spesso a New York ed ogni volta, è come se la vedessi per la prima volta.

Quello che detesti più di tutto?
Diciamo che ci sono un mix di cose a cui davvero la mia mente non sa sottomettersi. La maleducazione, il poco rispetto e le macchinazioni sono sicuramente tra queste. Non sono una che pensa molto, agisco d’istinto il più delle volte e pago la mia impulsività, scontrandomi con chi invece è machiavellico. Per il resto, allontanate da me tutti gli horror e sono una persona felice.

Il primo libro che hai letto?
Che bei ricordi… non considerando Topolino e Gli almanacchi delle giovani marmotte, di cui ho ancora collezioni a iosa, dico sicuramente Il ritratto di Dorian Grey di Oscar Wilde. Libro che mi ha iniziato alla letteratura classica e che ha segnato il passaggio dalla letteratura leggera a quella di spessore.

Il libro che ha cambiato la tua vita?
Pensandoci per bene e a fondo, dico L’allievo di Redmond. Non sicuramente un capolavoro letterario né un classico da tenere rigorosamente sullo scaffale di ogni libreria, ma un libro che mi ha aperto gli occhi sull’animo umano e sul buio che ognuno di noi ha dentro. Quel tipo di libro che una volta terminato, ti lascia a pensare, e pensare, e pensare.

Cartaceo o digitale?
Oh, c’è una risposta da lettrice e una da scrittrice. Quella da lettrice direbbe sicuramente entrambi. Nella maggior parte delle volte, prendo l’e-book e se reputo il lavoro letto entusiasmante, allora lo prendo anche cartaceo. Per alcune scrittrici, abolisco il primo passaggio e prendo direttamente il cartaceo, perché sono certa del loro stile e del loro valore. Per quanto riguarda la riposta da scrittrice, direi assolutamente cartaceo, perché è un punto di svolta, una sorta di affermazione, un “Santo Graal” a cui tutti vorrebbero arrivare!

Il tuo motto?
Non ho un motto o una frase a cui rifarmi che riassuma la mia filosofia di vita, ma mi piace pensare che tutto quello che ho ottenuto fino ad ora nella mia vita, sia sola una piccola parte di quello che mi aspetta.

 

 

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Novità – Trilogia SCUM

Tenetevi forte! A 50 anni dalla prima edizione di SCUM Manifesto, VandA ePublishing pubblica tutti gli scritti di Valerie Solanas in un’opera unica.

Trilogia SCUM è un volume unico al mondo: raccoglie il celebre Manifesto SCUM in una nuova traduzione italiana basata sul testo integrale rivisto dall’autrice nel 1977 e due inediti, l’atto unico Up Your Ass (In culo a te) e il racconto Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle. Il tutto condito da un apparato critico ricco e solido, a cura di Stefania Arcara e Deborah Ardilli.

Solanas si rivela un’autrice sempre in anticipo sui tempi, mettendo al centro della sua riflessione temi molto dibattuti ancora oggi. L’uso della tecnologia riproduttiva, l’esclusione delle donne dalla cultura, dall’arte, dalla scienza e dalle risorse economiche sono solo alcuni dei concetti a cui l’autrice dedica la sua attenzione.

Ma chi era Valerie Solanas? Conoscete la sua storia e la sua vita? O per voi è solo la donna che sparò ad Andy Warhol?

Scrittrice e commediografa, icona del femminismo radicale, Valerie è stata una figura cruciale della controcultura degli anni ‘60. Gli abusi sessuali da parte del patrigno fin dall’infanzia e l’allontanamento forzato dai suoi due figli hanno alimentato in lei l’odio nei confronti del genere maschile. Nonostante ciò è riuscita a terminare brillantemente gli studi liceali e quelli universitari in psicologia. Spesso non capìta, Valerie ha passato gran parte della sua esistenza tra carceri e ospedali psichiatrici. Ricordata soprattutto per aver sparato ad Andy Warhol, che si era rifiutato di produrre Up Your Ass e che aveva addirittura perso il manoscritto, la nostra femminista rivoluzionaria ha passato  il resto dei suoi giorni per le strade di New York sostenendosi con l’elemosina e la prostituzione. È morta a San Francisco all’età di 52 anni, sola e abbandonata e i suoi effetti personali sono stati distrutti dalla madre.

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Trilogia SCUM di Valerie Solanas: un dialogo con le curatrici


di Michela Pusterla (Effimera, 24 novembre 2017)


– Presentiamo la prima edizione italiana degli scritti di Valerie Solanas, icona del femminismo radicale statunitense e oggetto di rinnovato interesse da parte dei queer studies. La raccolta, intitolata Trilogia SCUM (Milano VandA 2017), contiene il Manifesto SCUM in una nuova traduzione italiana, l’atto unico In culo a te e il racconto Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle (gli ultimi due, finora inediti, tradotti da Nicoleugenia Prezzavento), introdotti da due saggi critici delle curatrici, Stefania Arcara e Deborah Ardilli, e seguiti da una biografia di Solanas e da una rassegna di tributi, riscritture e opere ispirate all’autrice. Qui un estratto da Come conquistare la classe agiata e di seguito l’intervista alle due curatrici, a cura di Michela Pusterla.

 

Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle

Nel luglio del 1966 Valerie Solanas pubblicò un racconto, Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle, sul periodico Cavalier, nello stesso numero della rivista che conteneva scritti di autori quali Ray Bradbury e Timothy Leary. 

Il Prontuario per fanciulle, palesemente autobiografico, narra la tipica giornata di una ragazza scaltra e sagace che vive di accattonaggio e prostituzione, dando il suo contributo «alla causa socialista» mantenendosi «al di fuori del mercato occupazionale». A parlare di conquistare la «classe agiata» del titolo è, ironicamente, un soggetto sociale tragicamente svantaggiato, una giovane donna sola e senza un soldo in un mondo egemonizzato dagli uomini. Come avverrà per il Manifesto SCUM con l’editore Girodias, anche i direttori responsabili del Cavalier manipolarono l’opera di Solanas. Per solleticare la curiosità erotica dei lettori aggiunsero, con una delle tipiche delegittimazioni sessiste alle quali fu sempre sottoposta la scrittura di Solanas, il sottotitolo: «Come una signorina giovane e carina riesca a sopravvivere in città: il modo più facile per stare comoda è distesa sulla schiena».[1] Di seguito, riportiamo un’anticipazione del testo. 

Appena uscita dal college, ho dovuto misurarmi con un tipico dilemma femminile: riuscire a ritagliarmi, in un mondo di uomini, uno spazio e uno stile di vita degni di una fanciulla con i miei gusti, la mia cultura e la mia sensibilità. Nulla di volgare come il lavoro, dunque. Una fanciulla, però, deve pur sopravvivere. Pertanto, dopo aver attentamente preso in esame ciò che la scena sociale aveva da offrirmi, ho finalmente trovato un’occupazione estremamente remunerativa, dai grandi stimoli creativi e fortemente incentrata sulle relazioni interpersonali, in grado di garantire flessibilità, indipendenza, stabilità e, cosa ancor più fondamentale, una grande quantità di tempo libero; un’occupazione, dunque, perfetta per la sensibilità femminile. Contemplando la mia fortuna, mi accingo a intraprendere la mia giornata di lavoro.
«Scusi signore, avrebbe per caso quindici cent?»
«Come no, tesoro, ecco qui» Dev’essere il mio magnetismo animale: nessuno riesce a resistere.
«Scusi, signore, avrebbe per caso quindici cent?»
«No.»
«Un decino?» Non bisogna dargli tregua.
«No!»
«Un nichelino?»
«NO!»
«Una banconota da un dollaro?» Bisogna sempre pensare in grande.
«Tieni, eccoti venticinque centesimi.»
Si accumulano in fretta. Quattro e cinquanta in un’ora. Altre due ore e posso staccare e andarmene a scrivere.
«Scusi, signore, avrebbe per caso quindici cent?» (Non dico mai che sono per il biglietto dell’autobus, a meno che non me lo chiedano; il mio tempo è prezioso ed esige brevità.)
«E cosa mi dai per 15 cent?»
«Che ne direbbe di una parolaccia?»
«Non è un cattivo affare. Ok, prendi. Adesso sentiamo la parolaccia.»
«Uomini.»

(Tratto da Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle, trad. it. di Nicoleugenia Prezzavento, in Trilogia SCUM. Scritti di Valerie Solanas, a cura di Stefania Arcara e Deborah Ardilli, VandA, Milano 2017).

 

Dialogo con Stefania Arcara e Deborah Ardilli, a cura di Michela Pusterla

MP: Scrivete: «per quanto, in generale, sia possibile problematizzare con dovizia di argomenti la questione del riflesso della vita nell’opera, nel caso di Solanas è semplicemente impensabile metterla a tacere» (p. 38). Una narrazione distorta e strumentale della sua biografia, del resto, ha accompagnato per decenni la pubblicazione rimaneggiata del Manifesto. Mi pare che la vostra scelta etica (e politica) di una traduzione rigorosa dal punto di vista filologico si accompagna inevitabilmente a quella di una ri-narrazione non distorta della biografia di Solanas. Inevitabilmente, quindi, chi è Valerie Solanas? E come la sua vita è indissolubile da questi testi?

DA: Quella del rapporto tra vita e scrittura è una questione che abbiamo tenuto ben presente in tutte le fasi del lavoro, incluso quello dedicato al vaglio del repertorio iconografico. Vorrei iniziare a risponderti proprio a partire da qui. Per la copertina di Trilogia SCUM abbiamo selezionato, in accordo con le editrici, una fotografia che ritrae Valerie Solanas nell’atto di scrivere. È bene chiarire subito che l’obiettivo non era quello di far sparire sotto il tappeto le possibilità violente di Solanas a vantaggio di un’immagine “ripulita” e rassicurante. Ci premeva invece inquadrare quelle possibilità violente all’interno di un orizzonte più largo, sottrarle alle astrazioni del verdetto morale e della schedatura psichiatrica e collegarle a un’intenzione significante indissociabile dal processo intentato da Solanas alla società etero-patriarcale. Di conseguenza ci è sembrato importante, anche in relazione alla scelta della foto di copertina, sforzarci di invertire la tendenza a congelare la figura di Solanas nel gesto muto che la inchioda al ruolo della pazza che ha sparato a Andy Warhol. È ora di leggere Solanas: uso un’espressione volutamente dimessa per far valere una pretesa esorbitante.

La restituzione della parola, d’altronde, può riservare qualche sorpresa. Studiando la biografia di Solanas, una delle cose che mi hanno maggiormente colpita è l’affiorare di momenti di ingenuità davvero disarmante, ai limiti del candore, in questa scrittrice che pure non perde mai occasione per avvertirci della «merda che bisogna ingoiare a questo mondo per poter semplicemente sopravvivere». Potrei richiamare una quantità di esempi, alcuni dei quali anche irresistibilmente tragicomici, ma qui penso soprattutto al momento in cui, nel giugno del 1968, dopo essersi costituita alla polizia, Solanas rinuncia all’assistenza degli avvocati allertati dal suo editore Maurice Girodias e comunica a Florynce Kennedy che Manifesto Scum sarebbe stata la sua unica difesa in tribunale. A cinquant’anni di distanza sappiamo benissimo quanto, invece di proteggerla, quel testo abbia contribuito a moltiplicare le condanne e a silenziare la questione che poni.

Alla domanda “chi è Valerie Solanas?” credo si possa rispondere soltanto rinunciando a fissare un nucleo immobile di identità. Occorre ripercorrere la sua storia — fermo restando che, pur potendo contare su un lavoro pionieristico come la biografia del 2014 di Breanne Fahs, della sua vita non conosciamo tutto e forse non rischiareremo mai quelle zone d’ombra in cui le tracce della sua esistenza sembrano perdersi nel nulla. Ne sappiamo comunque abbastanza per poter seguire la traiettoria di una radicalizzazione politica che, nelle sue tappe salienti, coincide con quella della sua progressiva disassimilazione sociale.  Per accidentato e contorto che possa essere il percorso dalla vita alla pagina scritta, dall’essere sociale alla coscienza di sé, arriva pur sempre il momento in cui ci si deve pronunciare in merito alla rilevanza di tale relazione. Quello che rende plausibile, per lo meno ai mei occhi, la radicalità di Solanas non è la suggestione delle frasi oltraggiose e sovversive che pronuncia: è la possibilità di connettere in maniera significativa il contenuto degli enunciati all’esistenza del soggetto dell’enunciazione, di esporle alla prova del “praticamente vero”. La persona che firma Come conquistare la classe agiata, In culo a te e Manifesto SCUM ha subìto abusi sessuali in famiglia, ha partorito da adolescente due figli dati in adozione, ha visto sfumare la speranza del riscatto nel campo della ricerca scientifica, ha conosciuto l’indigenza estrema e l’abbandono, le vessazioni lesbofobe, il rigetto persino da parte dei circoli dell’underground newyorkese. La persona che scrive «per bene che ci vada, la vita in questa società è una noia sconfinata», «non esiste aspetto di questa società che abbia la minima rilevanza per le donne», è una persona che legge ad alta voce il libro della propria esperienza, ne coglie gli elementi generalizzabili e dichiara intollerabile il sacrificio imposto alle donne.

Volendo arrischiare una sintesi, potrei dire che Solanas è una donna che arriva a sperimentare il genere non già come differenza componibile, aperta a una dialettica di scambio con la controparte maschile, ma come classe di sesso, con tutto il portato antagonistico che questa definizione comporta. L’introduzione di Christiane Rochefort alla traduzione francese di Manifesto Scum, intitolata Définition de l’opprimé, coglie perfettamente la ricaduta principale della questione sul piano simbolico: «l’oppressore non intende ciò che dice il suo oppresso come un linguaggio, ma come un rumore». Al centro di questa rottura, ancora oggi assolutamente scandalosa se commisurata agli standard correnti di comprensione delle categorie di genere, c’è l’investimento di Solanas nella parola scritta, che se da un lato registra umoristicamente la perdita di ogni illusione di integrazione sociale, dall’altro alimenta, quasi per autocombustione, il fuoco della rabbia per le umiliazioni patite anche sul versante del riconoscimento artistico. Warhol usava complimentarsi con lei per le sue doti di dattilografa

MP: Quando Solanas scrive i suoi testi, sta appropriandosi della letteratura come pratica femminista radicale, in opposizione iconoclasta alla «Grande Arte» maschile nella quale identifica un’espressione del privilegio. Se oggi il linguaggio femminista è spesso accademico e i testi femministi sono spesso teorici, quali sono le implicazioni politiche della scelta della letteratura (e di questo specifico «fare letteratura») per la presa di parola?

SA: Innanzi tutto, ricollegandomi al discorso di Deborah, vorrei partire dalle condizioni materiali nelle quali Valerie Solanas sceglie la scrittura come presa di parola: tra il ’65 e il ’68, quando compone i suoi testi (non uso appositamente la terminologia della critica letteraria chiamandoli “opere”), Solanas si trova al Greenwich Village di New York, è sola, non ha un soldo, viene continuamente sfrattata per morosità, buttata fuori anche dal Chelsea Hotel (quel luogo mitico dell’avanguardia artistica e musicale della controcultura statunitense, dal cui pantheon la sua figura viene a tutt’oggi rimossa). A un certo punto si accampa sul tetto del Chelsea, portandosi dietro la sua inseparabile macchina da scrivere, come ben rievoca una scena del film di Mary Harron, Ho sparato a Andy Warhol (1996). Vive di elemosina per strada, sfrutta le sue doti umoristiche per “vendere conversazione” ai passanti, si prostituisce per comprarsi il cibo e per poter disporre autonomamente di quel tempo da dedicare alla scrittura che un impiego regolare non le avrebbe lasciato. In queste condizioni “il fare letteratura” di Solanas è necessariamente e apertamente politico.

È vero che gli scritti di Solanas sono femministi, ma non sono “teorici” nel senso in cui lo intendiamo oggi. E sono certamente lontani dal linguaggio accademico: Solanas infatti muove una critica feroce all’istituzione universitaria, sessista, classista, elitaria. È anche vero che in certi passaggi di Manifesto SCUM lei si appropria dell’autorevolezza del discorso teorico-scientifico – della genetica, della psicologia – presumibilmente “oggettivo”, quindi inattaccabile, per sovvertirne i presupposti misogini mantenendo la polarizzazione estrema dei generi, ma invertendo il valore dei segni («gli uomini sono donne e le donne sono uomini»). A mio avviso però è difficile definire gli scritti di Solanas puramente “letterari” in senso canonico (sono, piuttosto, anti-canonici), poiché possiedono una forte carica performativa: la scrittura, per Solanas, è azione. Il Manifesto è un testo ibrido, non classificabile secondo le categorie dei generi letterari. C’è dentro di tutto, tranne la pretenziosità del documento teorico-politico tradizionalmente prodotto da uomini intellettuali, così come quella dell’oggetto estetico-culturale della letteratura “alta” – letteratura da cui le donne sono state escluse per secoli: vi si intrecciano la comicità del linguaggio disfemico e l’urgenza del desiderio politico, sarcasmo e denuncia sociale, utopia e basso corporeo, invettiva e farsa situazionista. Credo che la potenza della scrittura solanasiana più immediatamente percepibile da qualsiasi lettrice – anche se digiuna di teoria femminista – stia nella capacità di suscitare la rabbia di una presa di coscienza mista a una risata liberatoria. In certi punti il Manifesto è esilarante (forse un po’ meno se a leggere è un uomo eterosessuale). Ricordo la folgorazione che ne ebbi quando da giovanissima lessi Manifesto SCUM per la prima volta, nelle mitiche Edizioni Millelire… Sapevo ben poco di femminismo, ma da adolescente che subiva le pressioni sociali dell’eteropatriarcato mi si aprirono gli occhi e risi moltissimo leggendo frasi come: «il maschio ha (…) l’ossessione di scopare; attraverserà a nuoto un fiume di muco, passerà a guado un miglio di vomito immerso fino alle narici, se si convince che ci sarà una figa accogliente ad attenderlo. Scoperà una donna che disprezza…».

Il Manifesto ha una forte vocazione alla performatività, si presta a essere letto ad alta voce, infatti Solanas organizzava eventi-scum che prevedevano proprio la lettura performativa del testo. Quando, nell’atto unico In culo a te, Solanas mette in scena tabù intollerabili e atti scabrosi quali la sodomizzazione del “maritino” da parte di una moglie o l’uccisione di un bambino pestifero da parte di una madre, compie una sovversione radicale, quel “rovesciamento delle prospettive” di cui parla Colette Guillaumin, la quale, fornendo proprio l’esempio di SCUM, nota come sia impossibile fare una distinzione rigorosa tra un testo “teorico” e un testo “militante”. Nel caso della scrittura di Solanas, aggiungo io, è impossibile una distinzione tra testo teorico, militante e letterario.

Mi spiego meglio contestualizzando storicamente: il linguaggio del femminismo radicale, cioè quello che alla fine degli anni Sessanta nasce in opposizione all’emancipazionismo della “parità nella differenza” (allora rappresentato dalla NOW di Betty Friedan, oggi dal cosiddetto “femminismo” liberale/mainstream in stile Hillary Clinton) trova espressione nella scrittura militante, più che nella letteratura intesa puramente come oggetto estetico. La miriade di piccoli gruppi femministi che si formarono negli anni Settanta, dopo la pubblicazione di Manifesto SCUM, mettono in circolazione testi pensati e scritti come pratica di liberazione: manifesti, dichiarazioni, guide dall’autocoscienza, spesso composti e distribuiti collettivamente, grazie al ciclostile e al lavoro volontario. Contemporaneamente nasce un importante movimento di poesia femminista pubblicata informalmente, in antologie con testi e disegni e in raccolte collettive oggi introvabili. Negli stessi anni prolifera il “sottogenere” letterario dell’utopia e della fantascienza femminista con forti connotazioni politiche (per esempio, in molte pagine di The Female Man di Joanna Russ, attenta lettrice e ammiratrice di Solanas, si sente distintamente l’eco della “teoria” prodotta da Solanas, come da Shulamith Firestone).

Si produce, cioè, nella scrittura letteraria come in quella militante (non nettamente distinguibili), quel discorso apertamente antagonista per la liberazione delle donne poi messo a tacere in favore del discorso rispettabile dei diritti e della parità (oggi diventato “educazione alle differenze”, “lotta agli stereotipi”, ecc.). Tutta questa produzione testuale informale di testi militanti del femminismo radicale, oggi difficilissima da rintracciare (un buon archivio è quello della Women’s Liberation Print Culture della Duke University), servì a rendere il discorso femminista di trasformazione sociale una presenza pubblica, manifesta. Manifesto SCUM però, composto prima del femminismo radicale da una donna non eterosessuale che si identifica come scrittrice, non ha alle spalle una tradizione di scrittura militante femminista. Da una parte Solanas è una scrittrice, e come tale tenta di essere riconosciuta, cercando di pubblicare i suoi testi e produrre la sua commedia, dall’altra rifiuta di essere paragonata a Jean Genet, affermando che mentre lui si limita a «riportare», lei è una «social propagandist». Era perfettamente consapevole, dunque, che la propria scrittura era al tempo stesso artistica, politica, militante. E che nessuna arte (o prodotto estetico) è al di fuori della politica: «Sappiamo che la ‘Grande Arte’ è grande perché così ci hanno detto le autorità maschili» (Manifesto SCUM).

DA: La critica della cultura e della «Grande Arte» è un tema cruciale di Manifesto SCUM, direi una delle sue ragioni fondanti. Le implicazioni di questa critica, tuttavia, possono essere — e, di fatto, sono state — oggetto di valutazioni differenziate. Mi spiego meglio con un paio di esempi. Nelle sua biografia, la poeta e attivista lesbofemminista Judy Grahn (un nome semisconosciuto in Italia, ma di rilievo primario nel movimento statunitense degli anni Settanta) rievoca l’entusiasmo suscitato dalla pubblicazione di Manifesto SCUM tra le donne della sua generazione, collegandolo direttamente alla messa in questione del monopolio patriarcale della creatività artistica e alle energie liberate dalla contestazione di quel monopolio. Non per nulla estratti del manifesto finirono in Woman to Woman, una delle prime antologie di poesia femminista degli anni Settanta. Abbiamo, in questo caso, una ricezione della critica formulata da Solanas che storicamente si traduce in un allargamento delle frontiere, delle forme e degli usi possibili della letteratura, dovuto all’immissione di voci precedentemente escluse.

La mia impressione, tuttavia, è che in Solanas ci sia qualcosa di sostanzialmente diverso da un appello alla democrazia estetica. E, a ben vedere, Solanas non predica nemmeno l’avvento di un divenire-donna, o di un divenire-minore della letteratura. Non è un caso che il Manifesto si proponga di mobilitare, ai fini del sabotaggio del sistema, commesse-scum, operaie-scum, impiegate-scum, centraliniste-scum, mentre non si parla mai di scrittrici-scum o di artiste-scum. Stefania giustamente ricordava che Solanas respingeva il confronto con altri scrittori, sia pure dei bassifondi. In effetti, penso che avesse in mente un unico esempio, provvisorio e non replicabile, di letteratura-scum: se stessa. Il suo disinteresse per la scum-izzazione delle istituzioni letterarie, e più in generale cultu-rali, dovrebbe aiutarci a vedere che il nocciolo della sua sfida al mito patriarcale della creatività non consiste nell’allargamento dei diritti di cittadinanza artistica. Qui credo possa essere davvero illuminante il parallelo con la Carla Lonzi che riflette sul senso del suo ritiro da un mondo, quello della critica d’arte, che condanna le donne al ruolo alienante di spettatrici dell’impresa maschile. Quelle pagine andrebbero confrontate con ciò che afferma Solanas in Manifesto SCUM, quando scrive che in una società compiutamente post-patriarcale «l’unica arte, l’unica cultura sarà l’esistenza di femmine insolenti, stravaganti, scatenate, capaci di ricavare piacere l’una dall’altra e da qualsiasi altra cosa nell’universo». Per Solanas non è universale né inalterabile, ma inscindibilmente connessa alle condizioni del dominio maschile, l’esigenza di istituire un rapporto immaginario con le condizioni reali dell’esistenza. Prefigurare uno scenario in cui la vita, per giustificarsi, non avrà più bisogno trasfigurazioni estetiche significa esprimere un verdetto inappellabile sulla funzione dei meccanismi di compensazione estetica e culturale attivati dalla società etero-patriarcale.

MP: Il manifesto – come genere letterario – ha uno statuto ambiguo: si colloca infatti sul crinale tra atto discorsivo e performativo, e quindi tra testo e vita. Storicamente, proprio per questa sua natura intrinsecamente politica, ha rappresentato uno strumento di espressione resistenziale. Se il manifesto, come atto performativo, è espressione di una collettività, nello scrivere il Manifesto SCUM Solanas decreta l’esistenza della scum feccia come soggetto politico. Scrivete: «Solanas si appropria in maniera terroristica del genere letterario del manifesto» (p. 13): come?

SA: Il manifesto come tipologia testuale nasce prima di tutto come documento politico che annuncia, e al tempo stesso produce, un cambiamento sociale radicale. È un testo che afferma una rottura nel ripetersi della storia e la promessa di un cambiamento operato grazie alla formazione di una nuova collettività politica (e/o artistica). Il testo di Solanas segnala sin dal titolo, «Manifesto», la sua inequivocabile intenzione politica, rimandando a una tradizione di scrittura prodotta quasi sempre negli ambienti omosociali maschili delle avanguardie – si pensi al Manifesto del Futurismo, al Manifesto Dada, al Manifesto del Surrealismo. Janet Lyon ha osservato che «SCUM è la figlia vendicatrice e vittoriosa dei manifesti d’avanguardia di Apollinaire, Tzara, Marinetti, Debord».

Solanas attua un’appropriazione terroristica di questa tradizione per varie ragioni: accosta al termine “manifesto” il sostantivo imprevisto “scum”, feccia, scarto, pattume, ciò che è reietto. Defrauda dunque il genere del manifesto di quell’autocompiacimento intellettuale delle avanguardie artistiche e dei gruppi politici che fino ad allora lo avevano utilizzato. La femminista radicale Jane Caputi ha colto nel segno quando nota che “scum” «significa lo stato degradato delle donne in un sistema di valori sociali definito dagli uomini». Attraverso questa prospettiva dal basso, il basso dell’abiezione, della fogna, non quello “vellutato” dei sotterranei warholiani, Solanas immagina una collettività di soggetti sociali, le donne-scum, le quali – una volta riconosciuta la propria oppressione sulla base del genere, a differenza di quanto non facciano le Daddy’s Girls, le Figlie di Papà complici del patriarcato – si muoveranno per distruggere l’attuale società e costruirne una nuova e giusta. È un manifesto, dunque, che annuncia l’abbattimento del patriarcato. Ma ciò non avverrà, sottolinea l’autrice, attraverso metodi tradizionali quali cortei, manifestazioni, richiesta di diritti… scum-la feccia sabota il sistema, “slavora” e – avverte Solanas – «se SCUM colpirà, sarà nell’oscurità con una lama di quindici centimetri». Questo, ricordiamolo, Solanas lo scriveva negli stessi giorni in cui la controcultura hippie e psichedelica (spietatamente presa in giro nel Manifesto) proponeva fiori, LSD e amore libero come forme di contestazione.

Però, questa collettività di donne e ausiliari-froci che agirà il cambiamento sociale, quando Solanas scrive, cioè prima del femminismo radicale e prima delle rivolte di Stonewall, non esiste ancora, è una sua invenzione testuale, è un desiderio politico che lei rende vivo attraverso la pagina scritta e/o letta-performata. Di fatto, il suo Manifesto, pubblicato per la prima volta in copie ciclostilate nel 1967, non è (ancora) espressione di un gruppo organizzato, bensì la voce della singola soggettività dell’autrice, isolata perché la sua visione politica è in largo anticipo sui tempi.

Anche se Solanas non fece mai parte di un gruppo organizzato, la storia del femminismo degli anni Settanta è stata segnata da quello che Deborah, nel suo saggio introduttivo, ha chiamato «Effetto Scum»: tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta usciranno il Redstockings Manifesto, The Bitch Manifesto, Black Woman’s Manifesto, The Combahee River Collective Statement e molti altri testi prodotti da una miriade di gruppi auto-organizzati, mentre in Italia nel 1970 esce il Manifesto di Rivolta femminile. Mi piace ricordare l’immagine usata da Hannah Ghorashi, secondo la quale il Manifesto di Solanas ha inviato «una scossa elettrica lungo la storia del femminismo che è percepibile ancora oggi». Con le dovute distinzioni, credo se ne trovi un’eco anche nel recente Manifesto Xenofemminista del collettivo transnazionale Laboria Cuboniks, con la sua invocazione razionalista e antinaturalista della fine del genere e con l’invito all’appropriazione collettiva della tecnologia in senso anticapitalista – temi anticipati mezzo secolo fa dalla “pazza” Solanas.

MP: Tradurre è un’operazione che esula dal dominio strettamente linguistico e si colloca in quello culturale e politico: la scelta di proporre questa traduzione oggi è in sé significativa. Per esempio, penso alla questione salariale. Il femminismo della seconda ondata, che sarebbe scoppiato subito dopo la pubblicazione del Manifesto, si poneva come obiettivo la redistribuzione salariale; il neoliberismo progressista contemporaneo declina il femminismo in emancipazione individuale delle donne (il capitalismo oggi ci vuole produttrici e riproduttrici); il movimento globale Non una di meno si pone come obiettivo politico il reddito di autodeterminazione. Solanas scrive: «a liberare le donne dal dominio maschile […] sarà la totale eliminazione del sistema basato sul lavoro e sul denaro, non il raggiungimento dell’uguaglianza economica con gli uomini al suo interno» (p. 69). E qui sento la radicalità inappellabile dell’antagonismo di Solanas e ne identifico il potenziale per attaccare il tentativo egemonico del femminismo mainstream attuale. Siete d’accordo? Dove altro?

DA: “Antagonismo” è sicuramente il termine giusto, ma occorre fare attenzione a non confonderlo con un generico sentimento anti-sistema. Solanas vede benissimo che è il controllo maschile sul lavoro, sulla sessualità e sulla coscienza delle donne a produrle e riprodurle come “feccia”, come soggetto sociale minoritario e dipendente. La sua radicalità si articola, per dir così, in due tempi logici. In primo luogo, Solanas sceglie di non ignorarsi come soggetto subalterno sull’asse del genere: questo significa collocare le donne in posizione antagonistica verso il gruppo sociale che beneficia direttamente della loro minorizzazione e della loro “desistenza” programmata, quello degli uomini. In secondo luogo, Solanas evita la scorciatoia consistente nel voler far riconoscere l’identità dominata come equivalente a quella dominante, ciò che nel gergo mainstream si declina, come già sottolineava Stefania, nei termini di “parità nella differenza”. Mi sembra che, precisamente a questa altezza, si delinei una serie di interrogativi ancora pertinenti: quale uguaglianza può esserci all’interno di una gerarchia sociale? “Parità” non è forse il soave eufemismo che veicola la resistenza ad aggredire le premesse materiali della gerarchia di genere? Che senso può avere dichiarare equivalente in valore ciò che di fatto esiste in funzione della costruzione sociale della diseguaglianza? Credo sia questa lucidità, in definitiva, che consente a Solanas di concepirsi come soggetto negativo, ovvero di politicizzare la propria identità subalterna non per “valorizzarla”, ma per distruggere il rapporto di potere che la produce.

Non si tratta soltanto di una posizione incompatibile con il “femminismo mainstream”, ma di una posizione che induce a interrogare la logica stessa dell’amalgama che associa con tanta disinvoltura il femminismo al mainstream. Qualunque cosa possa essere il “femminismo mainstream” — e io credo si tratti più di rimozione attiva e violenta, che non di co-optazione, del femminismo, della sua storia, dei suoi dibattiti – una figura come quella di Solanas ci obbliga a precisare i termini della critica che gli rivolgiamo. Per rimproverare al “femminismo mainstream” il coinvolgimento con la ragione neoliberale non è strettamente necessario essere femministe radicali: si può denunciare, per esempio, il ricorso massiccio al lavoro gratuito da parte del capitalismo neoliberale senza essersi di fatto mai accorti/e dei volumi di lavoro gratuito estratti alle donne fuori dal mercato, nella famiglia, e senza aver mai sospettato che quel tipo di appropriazione del corpo, del tempo e della mente delle donne segnala la presenza di uno specifico rapporto di produzione co-estensivo a quello capitalistico, che prolunga i suoi effetti anche fuori dalle mura domestiche (una situazione che diventa particolarmente vistosa quando si osserva la vita delle donne di estrazione popolare, delle donne migranti o razzializzate, benché non sia limitata a quell’area sociale). È necessario essere femministe radicali, invece, per poter rimproverare al “femminismo mainstream” la cecità teorica e l’inerzia politica nei riguardi dell’infrastruttura eteropatriarcale che espone la grande maggioranza delle donne e delle altre minoranze di genere a un impatto differenziato e penalizzante con le politiche neoliberali. Si sente spesso dire, per esempio, che sono le crisi sociali ed economiche innescate dal neoliberalismo a determinare la recrudescenza della violenza diretta contro le donne. Questo modo di ragionare manca però puntualmente di interrogarsi sulla direzione della violenza: come mai lo sconvolgimento degli equilibri precedenti non dà luogo a fenomeni massicci di violenza perpetrati dalle donne sugli uomini?

Quanto al reddito di autodeterminazione: Solanas privilegiava le tecniche cospirative, non credo che guarderebbe con favore alla nostra scelta di partecipare a scioperi e cortei per far vivere quella rivendicazione. Certamente, però, ci dà buoni motivi per caratterizzarla in senso femminista e per tenere aperta la domanda sui conflitti che è necessario aprire per darle gambe su cui camminare.


Note

[1] Il titolo sostituito a quello originale dai curatori del Cavalier era: For 2c: Pain, the Survival Game Gets Pretty Ugly (Per due centesimi: sofferenza, il gioco per la sopravvivenza si fa duro). Cfr. Breanne Fahs, Valerie Solanas: The Defiant Life of the Woman who Wrote SCUM (and shot Andy Warhol), New York, Feminist Press, 2014, p. 45.