Pubblicato il

Novità – Ottobre 2018

Il mese di ottobre è ricco di novità per VandA!
Arrivano in coedizione, con Morellini Editore, due nuove uscite.

 

Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi i suoi scritti programmatici (1964-1977) – Deborah Ardilli

Saggio critico dedicato alle tesi dei movimenti femministi negli anni Settanta. La donna non va definita in rapporto all’uomo. Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà. (Manifesto di Rivolta femminile, 1970)

“Radicale”, a partire dal ‘68 e fino alla fine degli anni Settanta, fu soprattutto il “soggetto imprevisto” del femminismo. Con la sua peculiare combinazione di rabbia e proiezione utopica, il manifesto politico è il genere che meglio si presta a restituire la complessità di quella straordinaria stagione che segnò la presa di coscienza delle donne, attraverso un drastico ripensamento delle relazioni tra loro e della forza che da questo deriva. Riletto attraverso i suoi manifesti, il femminismo radicale sconvolge la banalizzazione corrente di ciò che è stato per riconsegnarci la testimonianza della sua verità e un’immagine in movimento di ciò che potrebbe essere.

 

Dalla parte della natura. L’ecologia spiegata agli umaniDaniela Danna

Un pamphlet ecofemminista, una risposta indiretta al Manifesto dell’Ecomodernismo e alle posizioni post- e transumanistiche.

In un dialogo “a tu per tu” con l’umanità, la Natura, in una sorta di personalizzazione letteraria, “ci parla”, affrontando tematiche nevralgiche della nostra odierna civiltà: equilibrio ambientale, disuguaglianza sociale, predominio delle multinazionali, visione libera della sessualità. Con un approccio ecofemminista, questo breve ma fulminante pamphlet attacca il sistema capitalista e patriarcale caratterizzato dalla supremazia maschile, dove donne, animali e ambiente appartengono a categorie analoghe, considerate come proprietà e beni da dominare e sfruttare. E anche se noi esseri umani siamo parte della Natura, questo mondo ha tracciato un solco cosi profondo tra noi e lei, da renderla non solo estranea, ma addirittura ostile nemica. Queste semplici pagine sono un invito a conoscerla meglio, allo scopo di rispettarla. E in questo processo, cambiare noi, smettendo di modificare lei.

 

COMING SOON!

Pubblicato il

Evento – “Nonostante il velo” @Museo Martinitt


Milano, 9 ottobre 2018, ore 17.


– VandA.ePublishing e Morellini Editore vi invitano alla presentazione di Nonostante il velo di Michela Fontana.

 

Nel contesto storico del Museo Martinitt si parlerà di condizione delle donne in un Paese complesso come l’Arabia Saudita.
La giornalista Michela Fontana, nel suo libro “Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita” pubblicato da VandAePublishing in co-edizione con Morellini Editore, ha raccolto diciassette significative testimonianze, storie uniche di donne di diverse provenienze sociali – donne d’affari, professioniste, islamiste o semplicemente figlie, mogli o madri -, ognuna con il suo vissuto sempre teso in una costante dicotomia tra libertà e restrizione. Sono storie che indagano – e rappresentano – le diverse sfaccettature, talvolta contraddittorie, di una società in trasformazione, stralci di vita raccolti oltrepassando muri invalicabili, felici istantanee di sudate conquiste.
L’autrice ne parlerà con l’autrice Marta Boneschi, giornalista e saggista italiana.


Pubblicato il

A new wave from the Middle East


di Sofia Celeste (L’officiel, settembre 2018)


– La mostra “Contemporary Muslim Fashion” dal 22 settembre al De Young Museum di San Francisco esplora la vastità del repertorio moda del mondo islamico. A Riyahd, in Arabia Saudita, lo scorso aprile si è tenuta la prima fashion week locale e le spettatrici, per l’occasione, si sono tolte il velo. L’emancipazione sta passando per la via delle passerelle. Un’apertura reale verso l’autonomia femminile o solo una strategia economica in vista della fine dell’egemonia petrolifera nei Paesi arabi?

È la settimana della moda a Riyadh e tutta l’élite dell’Arabia Saudita è in prima fila. Durante un evento per sole donne, spettatrici e designer si sono tolte il velo per indossare abiti occidentali in occasione della prima fashion week organizzata al Ritz-Carlton. Di fronte a un pubblico internazionale, le designer saudite hanno presentato le loro collezioni di moda – accanto a marchi europei del calibro di Jean Paul Gaultier – come vere imprenditrici emancipate facendo a pezzi lo stereotipo occidentale che vede la donna musulmana oppressa. Le riforme sociali, come quella che ha concesso alle donne il diritto di guidare, continuano a galvanizzare una nazione da tempo paludata in un sistema sociale basato sulla sharia (la legge islamica). La moda si è rivelata un potente strumento per dimostrare che le donne possono avere tanto talento quanto gli uomini. In passerella, Arwa Al Banawi, del brand The Suitable Woman, e Mashael-Alrajhi, hanno optato per abiti alla moda “occidentali” – una decisione chiaramente incoraggiata dalle nuove riforme del principe ereditario Mohammad bin Salman, il 32enne reale conosciuto come MBS, il quale ha sancito che le donne possono scegliere di indossare abiti convenzionali invece del tradizionale abaya nero con il velo.
Allo show di aprile, le collezioni di Al Banawi erano caratterizzate da look androgini come blazer oversize, pantaloni larghi e felpe da surfista: «Stiamo assistendo a un vero e proprio movimento per l’emancipazione delle donne in tutto il mondo. Sono felice di sostenere le mie connazionali», ha affermato. La fashion week di Riyadh fa parte di un più ampio progetto di MBS il “Vision 2030” ideato per attirare nuove industrie al fine di prevenire un’inevitabile crisi petrolifera. La Riyadh fashion week fa anche parte dell’Arab fashion week, con sede a Dubai, il cui obiettivo è sviluppare una catena di vendita al dettaglio e manifatturiera nei centri produttivi della moda araba che prevede di non delocalizzare l’economia legata al settore mantenendo la produzione in paesi come l’Egitto, noto per il suo cotone pregiato, la Tunisia per la sua seta e il Marocco per le sue concerie. Questo accontenterebbe le crescenti esigenze dei consumatori di beni di lusso ad Abu Dhabi, Riyadh e Dubai. Secondo Thomson Reuters (multinazionale canadese del settore dei mass media e dell’informazione), si prevede che i consumatori musulmani spenderanno più di 368 miliardi di dollari in modest fashion entro il 2021. Più della metà della popolazione saudita ha meno di 25 anni e oltre la metà di tutti i suoi laureati è di sesso femminile. Creare posti di lavoro e pari opportunità è in cima alla lista delle priorità economiche ed è anche un modo per il governo di rafforzare le piccole e medie imprese che attualmente contribuiscono solo per il 20% all’economia nazionale.
«È chiaro che una cassiera non può permettersi di spendere tutto il suo stipendio per pagare un autista che la porti a lavoro, quindi è più logico lasciarla guidare», ha affermato Michela Fontana, autrice italiana del libro “Nonostante il velo” (Morellini editore in co-edizione con VandA. ePublishing), che per due anni e mezzo ha vissuto a Riyadh intervistando donne di ogni ceto sociale.
Nel centro della capitale saudita si erge il monumentale Kingdom Centre di 99 piani su una città che conta cinque milioni di abitanti. L’edificio ospita brand internazionali come Victoria’s Secret, Gucci e Roberto Cavalli. Al suo interno, offre una visione più intima della società saudita: le donne velate vengono scortate dai mariti, mentre le ragazze più disinibite indossano degli abaya semiaperti, con i capelli al vento. Molti negozi impediscono alle donne di entrare senza il proprio guardiano, sfoggiando cartelli che recitano “Solo famiglie”. «Le donne sono considerate eterne minorenni a cui non è permesso nemmeno viaggiare senza l’autorizzazione di un uomo», ha spiegato Fontana, dichiarando che l’emancipazione passa per l’abolizione della figura del guardiano maschile. Lubna Suliman Olayan, per esempio, amministratore delegato donna della Olayan Financing Company (inserita tra le 100 persone più influenti del 2005 dal “Time”) ha potuto puntare al successo senza la zavorra di un patriarca (il marito è americano). «Penso si debba fare attenzione prima di dare per scontato che si tratti di riforme autentiche», avverte Nadine Naber, professoressa di studi di genere e delle donne e di studi asiatici americani all’Università dell’Illinois a Chicago e autrice di “Arab America: Gender, Cultural Politics, and Activism”. «È importante ricordare che questa è una strategia comune in Medio Oriente, in cui leader non democratici offrono riforme selettive legate ai diritti delle donne così da apparire riformisti agli occhi dei media in Occidente», ha affermato Naber, sottolineando che il governo Usa ha ignorato le notizie di maggio sulla carcerazione degli attivisti Eman al-Nafjan, Loujain al-Hathloul, Aziz al-Yousef e Nouf Abdulaziz.
Dal 22 settembre al 6 gennaio al De Young Museum di San Francisco ospiterà la mostra “Contemporary Muslim Fashion”, esibendo lo stile della comunità musulmana. «La diversità della popolazione di fede islamica nella Bay Area e il contributo del nostro gruppo di sostegno hanno avuto un’influenza determinante sull’organizzazione della mostra e sul desiderio di produrre un’istantanea globale delle mode musulmane contemporanee», ha affermato la curatrice Jill D’Alessandro, aggiungendo che San Francisco ospita una delle più grandi comunità degli Stati Uniti. Gli stessi designer hanno abbracciato lo stile mediorientale per soddisfare i bisogni dei loro maggiori consumatori – da qui i burkini, i hijab e gli abaya nelle collezioni di Alberta Ferretti e Max Mara per esempio – a dimostrazione che le donne musulmane sono una forza da non sottovalutare.


Pubblicato il

Com’è cambiata la vita delle donne saudite ora che possono guidare? Parla Michela Fontana, scrittrice che ha vissuto in Arabia Saudita


di Anna Ditta (TPI, 10 settembre 2018)


Michela Fontana è autrice di Nonostante il velo”, un libro che raccoglie decine di interviste a donne saudite. TPI l’ha intervistata.

“Guideremo quando il re ci permetterà di farlo. Non ce la possiamo fare da sole”.

Quando Michela Fontana ha sentito pronunciare queste parola da una donna e scrittrice saudita di nome Munira, ha pensato che fosse “una risposta realista” da parte di una persona che sa di vivere in un paese in cui “il potere è nelle mani degli uomini”.
Alcuni anni dopo, le parole di Munira sono diventate realtà. Dal 24 giugno scorso le donne in Arabia Saudita possono guidare. Possono farlo perché è stato il re – o meglio, il principe ereditario Mohammad bin Salman – a concedere loro questo diritto.
Eppure le proteste per il diritto alla guida in Arabia Saudita ci sono state, le prime manifestazioni risalgono addirittura al 1990. Come mai allora la svolta è arrivata proprio adesso?
TPI.it ne ha parlato con Michela Fontana, giornalista e saggista milanese autrice di Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita.
Michela Fontana ha vissuto a Riad da luglio 2010 a dicembre 2012. In questo periodo ha incontrato e intervistato decine di donne saudite. Ha vissuto nelle loro città, è entrata nelle loro case, ha incontrato le loro madri o i loro fratelli, ha mangiato con loro, è stata ai loro matrimoni.
In questo modo ha potuto raccontare l’universo femminile dell’Arabia Saudita “dall’interno”: un’esperienza unica, se si considera che il paese è praticamente inaccessibile agli stranieri.
Unico è anche il racconto che l’autrice lascia fare alle donne stesse, senza giudizi o preconcetti, offrendo loro lo spazio per resentarsi con la loro stessa voce.
Attiviste e conservatrici, madri e lavoratrici, giovani e anziane, docenti universitarie e giornaliste: ci sono tutte queste voci nel resoconto che Michela Fontana ha pubblicato in edizione digitale a marzo 2015, e arrivato nelle librerie a maggio 2018 grazie a una collaborazione tra VandA.ePublishing e Morellini editore.

Dal 24 giugno le donne in Arabia Saudita possono guidare. Ma si tratta di una concessione del sovrano più che di una conquista frutto delle lotte delle donne. Possiamo definirla una vittoria a metà?
Sì, assolutamente. È senza dubbio un passo avanti, ma allo stesso tempo è una concessione del re, come se lui fosse il “grande guardiano” delle donne saudite.
Con la sua benevolenza concede questo diritto, ma lo fa nei suoi termini e se ne prende la paternità.
Non dimentichiamoci che alcune delle donne che hanno lottato pacificamente per avere il diritto di guidare sono state arrestate proprio un mese prima che le donne saudite si mettessero al volante.
Con la sua benevolenza concede questo diritto, ma lo fa nei suoi termini e se ne prende la paternità.
Ha voluto mandare un segnale alle donne: vi concedo quello che vi voglio concedere, che nessuna se ne prenda la paternità.
Queste donne ora si trovano in prigione senza avvocato, senza processo e senza la possibilità di comunicare con la famiglia.
Detto ciò, il diritto di guidare è comunque una vittoria, perché ci sono delle aperture.

In Arabia Saudita continuano comunque ad essere negati molti diritti alle donne. Uno dei punti cruciali è la figura del guardiano (generalmente il padre o il marito). Il diritto di guidare cambierà la quotidianità delle saudite? Se sì, come?
Potranno prendere la patente e, per esempio, andare a vedere una partita di calcio o al cinematografo col padre o col marito.
Non è stato ancora chiarito ufficialmente se la donna può mettersi al volante da sola o deve avere accanto a sé un parente maschio che l’accompagni.
Ma se il guardiano di una donna decide che lei non può guidare o non può uscire di casa – neanche a piedi – può farlo.
Quando negli anni Sessanta le bambine hanno avuto il permesso di frequentare la scuola, all’inizio molte famiglie erano contrarie.
Negli anni, a poco a poco, la società si è evoluta e sempre più famiglie hanno mandato le figlie a scuola.
Oggi mandare è una cosa del tutto normale in Arabia Saudita.
Può darsi che anche con la guida sarà così. All’inizio soltanto poche avranno il permesso di guidare, ma lentamente tutti lasceranno che le figlie si mettano alla guida.

Che ruolo ha il guardiano nella vita di una donna saudita?
Il guardiano mantiene ancora il potere assoluto sulla vita di una donna che, ad esempio, non può viaggiare senza la sua autorizzazione.
Ora però sembra che ci siano alcuni campi in cui le donne possono agire senza l’autorizzazione del guardiano.
Ho letto che possono, ad esempio, aprire una piccola impresa senza l’autorizzazione del guardiano, ma bisogna vedere se questa regola viene applicata.
Possono anche accedere a determinati lavori o entrare in ospedale senza l’autorizzazione del guardiano, ma solo in alcuni casi.
Il diritto di guidare è sicuramente un passo avanti, ma non vuol dire che ora le donne saudite siano libere o siano considerate al pari degli uomini.
L’Arabia Saudita è uno stato basato sulla disparità di genere. Ancora oggi, le saudite sono considerate cittadine di serie B.

Come emerge dalle tue interviste, molte donne vedono il guardiano come una figura di protezione e sono contrarie alla sua abolizione, nonostante questo possa limitare la loro libertà. Come si innesca questo meccanismo?
L’Arabia Saudita è molto intrisa di cultura tribale e in tutta la tradizione dei paesi arabi la donna è sottomessa all’uomo. Ma mentre è sottomessa la donna è anche protetta.
Nella tradizione locale la donna è il bene prezioso della famiglia e della tribù, è quella che dovrà partorire i figli – possibilmente figli maschi – e deve essere protetta.
Per esempio, per la legge islamica il marito deve mantenere completamente la moglie. Anche se lei lavora, può non spendere un centesimo per la famiglia, perché è il marito che deve provvedere a lei.
Mi è capitato che alcune donne saudite mi chiedessero: “Ma voi come fate? Voi siete abbandonate. Voi pagate le cene se andate al ristorante, se lavorate dovete dare i soldi alla famiglia. Voi non siete protette”.
Delle giovani ragazze mi hanno detto: “Ma il mio papà con me è buono, mi garantisce tutto quello che ho, sono contenta”.
Diciamocelo, la libertà è un valore in cui noi crediamo, ma una persona libera è anche meno protetta. Costa fatica rinunciare a questa protezione, ma non dimentichiamoci che colui che protegge può diventare anche un feroce carceriere.

È un’assenza di parità di diritti ma anche di doveri quindi. Pensi che si arriverà all’abolizione della figura del guardiano?
Può anche darsi. Ma sarà un processo molto lento e dovrà passare per movimenti sociali significativi.
È difficile prevedere come queste culture possano evolvere in tal senso, però altri paesi di culture diverse, incluso il nostro, hanno cambiato il modo di considerare le donne.
Può darsi che ci riescano anche i paesi arabi e l’Arabia Saudita, che tra tutti esprime queste leggi di segregazione delle donne in modo più estremo.

Dalle tue interviste emergono due linee di pensiero da parte delle donne che auspicano le riforme. Ci sono quelle pronte a lottare per dare una scossa alla società e quelle che vogliono un cambiamento graduale. Chi di loro ha ragione?
In ogni società c’è chi ha lo spirito dell’attivista e chi invece attende la riforma graduale.
Le suffragette si sono fatte anche mettere in prigione e sono anche morte per la lotta, delle cui conquiste hanno goduto le altre.
Nessuno può chiedere alle donne saudite di rischiare la prigione e rinunciare a tutto ciò che hanno per avere un diritto.
In Arabia Saudita le donne che hanno lottato sono finite in prigione o hanno dovuto lasciare il paese.
Se si vuole vivere tranquillamente nel paese, è chiaro che conviene di più aspettare riforme graduali. Chi vuole accelerare, deve essere disposto a pagare conseguenze terribili. Ma io non posso dire chi ha ragione.

Però se il primo diritto concesso è stato quello di guidare, forse è proprio per le proteste delle donne che si sono messe alla guida e hanno attirato l’attenzione a livello internazionale sulla questione.
Probabilmente questo è dovuto più al fatto che adesso l’Arabia Saudita vuole dare un’immagine di modernizzazione al mondo e, in particolare, agli Stati Uniti, con cui ha un ottimo rapporto da quando c’è Trump alla Casa Bianca.
Spesso le autorità saudite, anche mentre io vivevo nel paese, dicevano che più le donne avrebbero manifestato e meno diritti avrebbero ottenuto.
Per le autorità saudite non c’è nulla di più terribile che vedere sui media stranieri un’accusa sul modo in cui trattano i loro sudditi.
Infatti una delle accuse che hanno rivolto alle donne che hanno incarcerato adesso è di aver parlato con i media stranieri. Quindi non me la sento di dire che il diritto di guidare sia arrivato anche grazie alle lotte. Certamente queste hanno dato visibilità e hanno fatto sì che se ne parlasse all’estero.
La guida ha un valore simbolico molto forte e hanno cominciato da quella, anche perché l’Arabia Saudita era l’unico paese al mondo in cui le donne non potevano guidare.

Quindi Mohammed bin Salman ha voluto avviare questa stagione di riforme per una ragione di convenienza politica?
Direi di sì. Prima della rivoluzione del 1979 in Iran c’erano stati anche momenti in cui l’Arabia Saudita aveva cominciato ad aprirsi. Poi c’è stata una regressione.
Può anche darsi che il principe creda genuinamente in una società più aperta, però c’è anche la volontà di sedersi al tavolo con le potenze Occidentali, e non lo si può fare senza che le donne guidino.
Poi ci sono anche spinte economiche. Il governo saudita vuole che alla lunga l’Arabia Saudita non sia più dipendente dal petrolio. Vuole che uomini e donne lavorino. E se vuoi farle lavorare devi farle guidare.

Un’altra spina nel fianco delle donne saudite sono i mutaween, la polizia religiosa che a volte si accanisce con loro, come racconti nel tuo libro.
Una delle innovazioni che è stata fatta da Mohammad bin Salman limita il potere dei mutaween, che ora non possono più arrestare persone ma devono sempre passare attraverso la polizia.
Bisognerebbe verificare se questa riforma è stata attuata. Si tratta di un modo per togliere un po’ di potere alla classe religiosa. Anche questo è un passo avanti oggettivo.

Come ha recepito la classe religiosa l’annuncio della stagione di riforme?
La storia dell’Arabia Saudita è proprio un tiro alla fune tra la casa regnante dei Saud e i religiosi.
Quando il re impone delle riforme, i religiosi non saranno contenti ma devono accettarlo.
Questo è successo anche quando il re Faisal negli anni Sessanta concesse alle bambine di andare a scuola come i bambini, in scuole femminili ovviamente. Anche in quel caso i religiosi si opponevano, ma poi hanno accettato la questione.
A meno che non ci siano rivoluzioni islamiche, è casa Saud che ha il vero potere.

Le riforme sono state affiancate anche da una feroce repressione che in alcuni casi ha colpito anche membri della famiglia reale saudita.
Più che una feroce repressione, il fatto di aver incarcerato molti principi, accusandoli di corruzione, è stato un segno fortissimo che Mohammad bin Salman vuole avere saldo il potere nelle sue mani.
Non vuole che i principi possiedano troppe ricchezze e vuole far vedere chi ha il potere. Bisogna vedere se riuscirà a mantenere questo polso di ferro senza essere criticato da altri membri della casa reale.
Sotto esame c’è il suo piano Vision 2030, per ridurre la dipendenza del paese dal petrolio, ma anche la guerra che sta conducendo in Yemen, che è costata moltissimi soldi e finora non ha portato ai risultati sperati.

Con le tue interviste hai scavato nella società saudita e nelle dinamiche familiari delle donne saudite. Uno degli aspetti che colpisce di più è quello della violenza domestica, che spesso non viene neanche denunciata. Come si è evoluta la situazione negli ultimi anni?
La violenza domestica è diffusa come in tutto il mondo, ma in Arabia Saudita non è perseguita.
Se una donna va dalla polizia a denunciare la violenza del guardiano, gli agenti poi comunque la riportano da lui e, anzi, magari accusano la donna di disobbedienza.
Non penso che la situazione in questi anni sia cambiata molto. So che una riforma adesso consente alle donne di andare dalla polizia senza il guardiano, ma anche qui bisogna vedere se viene applicata.
Se le riforme riusciranno a mettere il dito in questa piaga allora davvero riusciranno a mordere sui fattori contro la libertà e l’emancipazione delle donne.
Ma ricordiamoci che l’Arabia Saudita è un paese chiuso, che non pubblica di certo inchieste giornalistiche o dati sul fenomeno, quindi tutto quello che sappiamo sulla violenza domestica si basa sul passaparola.

Nonostante le riforme annunciate molti attivisti e attiviste saudite restano in carcere. Penso a Raif Badawi ma anche ad attiviste donne. Pensi che la comunità internazionale possa fare di più per chiedere la loro liberazione?
Non penso. Quando il Canada ha preso posizione per chiedere di liberare questi attivisti, l’ambasciatore canadese in Arabia Saudita è stato espulso ed è iniziata un’operazione di boicottaggio del Canada.
Era l’unico paese che aveva preso una posizione ufficiale sui prigionieri sauditi. Sinceramente non credo che l’America di Trump avvierà una battaglia sui diritti civili in Arabia Saudita. Se non lo fanno gli Stati Uniti cosa possono fare gli altri paesi?

Ti sei sentita giudicata dalle donne saudite in quanto occidentale e non musulmana?
Non mi sono sentita giudicata. La stragrande maggioranza delle donne che ho intervistato hanno avuto con me un atteggiamento positivo.
Credo sia stato dovuto al fatto che neanche io le ho mai giudicate, ho sempre cercato di rispettarle come parte di una cultura che non conoscevo. Loro mi hanno ripagato con una bellissima apertura. Ho sentito una comunanza anche femminile, oltre che come persone.
Ma non posso generalizzare. Ci sono intere classi di saudite donne che hanno diffidenza verso gli occidentali, e alcune le ho anche conosciute.
Hanno dei pregiudizi molto forti nei nostri confronti. Pensano che veniamo violentate per strada, che qui da noi c’è la libertà sessuale più sfrenata.

Qual è il tuo ricordo più bello del paese?
Per me tutta l’esperienza di vita in Arabia Saudita è stata bella. Sapevo che sarebbe stato un periodo limitato e poi ero anche una privilegiata: ero un’occidentale e ovviamente mio marito mi lasciava uscire liberamente col mio autista.
Avevo anche circuiti occidentali in cui mi sentivo accettata e conoscenze di sauditi che avevano un atteggiamento di accettazione nei miei confronti.
Naturalmente non andrei mai a vivere in Arabia Saudita. Dopo un po’ che si vive lì, se si prende un aereo e si torna in Europa si sente finalmente di respirare di nuovo.
Svanisce qualsiasi opprimente sensazione di segregazione: vestito nero, velo nero, abiti lunghi fino ai piedi. E non bisogna stare attenti se si entra in un bar maschile o femminile.


Pubblicato il

“Nonostante il velo” @ Il tempo delle donne 2018

“Guidare il cambiamento  a Riad. La lotta delle saudite per mettersi al volante e altri diritti (alla felicità)” è il titolo dell’incontro con Michela Fontana, giornalista e autrice di Nonostante il velo, dialoga con Lina Almaeena, co-fondatrice della squadra di basket femminile Jeddah United e membro del Consiglio Shura. Moderano Viviana Mazza e Rolla Scolari.

Da un paio di mesi le donne saudite possono guidare. La revoca del divieto, voluta dal principe ereditario Mohammed Bin Salman, è effettiva dal 24 giugno e le prime patenti di guida sono già state rilasciate. Si tratta di un segnale di rinnovamento importante nel paese più integralista del mondo islamico, celebre per la segregazione femminile e per il mancato rispetto dei diritti umani. La strada, però, è ancora lunga: che siano attiviste, professioniste o semplici mogli e madri, le donne saudite vivono ancora in un harem diffuso fatto di divieti, di soglie, di proibizioni, di ingressi separati.
La testimonianza di Michela Fontana, che grazie al suo status di residente, per quanto temporanea, ha potuto accedere a un mondo femminile del tutto precluso a molte occidentali di passaggio e a qualsiasi uomo, è ancora attuale ed è importante perché permette di cogliere attraverso una polifonia di voci i paradossi e le ambiguità del paese, e di scoprire che sono proprio le donne a esprimere le più forti istanza di rinnovamento.

 

 

 

Pubblicato il

Evento – “Nonostante il velo”, @Il tempo delle Donne


Milano, 7 settembre 2018, ore 16.


– VandA.ePublishing e Morellini Editore presentano  a Il tempo delle donne Nonostante il velo di Michela Fontana.

Guidare il cambiamento a Riad. La lotta delle saudite per mettersi al volante e altri diritti (alla felicità) è il titolo dell’incontro con Michela Fontana, giornalista e autrice di Nonostante il velo, dialoga con Lina Almaeena, co-fondatrice della squadra di basket femminile Jeddah United e membro del Consiglio Shura. Moderano Viviana Mazza e Rolla Scolari.

Da un paio di mesi le donne saudite possono guidare. La revoca del divieto, voluta dal principe ereditario Mohammed Bin Salman, è effettiva dal 24 giugno e le prime patenti di guida sono già state rilasciate. Si tratta di un segnale di rinnovamento importante nel paese più integralista del mondo islamico, celebre per la segregazione femminile e per il mancato rispetto dei diritti umani. La strada, però, è ancora lunga: che siano attiviste, professioniste o semplici mogli e madri, le donne saudite vivono ancora in un harem diffuso fatto di divieti, di soglie, di proibizioni, di ingressi separati.
La testimonianza di Michela Fontana, che grazie al suo status di residente, per quanto temporanea, ha potuto accedere a un mondo femminile del tutto precluso a molte occidentali di passaggio e a qualsiasi uomo, è ancora attuale ed è importante perché permette di cogliere attraverso una polifonia di voci i paradossi e le ambiguità del paese, e di scoprire che sono proprio le donne a esprimere le più forti istanza di rinnovamento.


Pubblicato il

Compra qui da noi, scopri tutte le offerte

Il  negozio online di VandA offre in vendita tutti i libri e gli ebook del catalogo e sono attive una serie di offerte. Nel caso il libro che vuoi acquistare non è tra quelli in offerta abbiamo anche attivato un codice di sconto che si può applicare a tutti gli altri.
Il buono è VandARegala1euro e può essere usato direttamente nel carrello, e si attiva anche se nel carrello ci sono dei prodotti con prezzo scontato. Per usarlo dovrete digitare: VandARegala1euro nella casella coupon nella fase prima del pagamento.
Si può pagare con PayPal o direttamente con una carta di credito o con il bonifico bancario, dopo il pagamento riceverete il mesaggio con il link per scaricare il file senza restrizioni di DRM.

Pubblicato il

Pierangelo Dacrema al Festival delle Invasioni

Il “Festival delle Invasioni – Stagioni d’Estate” è iniziato il 10 luglio, con la presentazione del libro “La buona moneta”, pubblicato da VandAePublishing in coedizione con Edizioni All Around:  l’autore Pierangelo Dacrema, economista, ne ha parlato insieme al sindaco Mario Occhiuto e al professore Franco Piperno. Dacrema ha illustrato la sua ricetta per azzerare il debito pubblico e, come dice nel sottotitolo del libro, “vivere felici (o solo un po’ meglio)”.
Qui potete trovare il suo intervento.

Pubblicato il

Via all’Invasione di libri

 

– Si parte martedì con Pierangelo Dacrema. Anche quest’anno il Festival delle Invasioni – Stagioni d’estate dedica una sezione di “Beni parlati”, luoghi di rilevanza storica che diventano location per la presentazione di novità editoriali.

Si comincia dal Chiostro di San Domenico martedì 10 luglio (ore 19), con l’economista Pierangelo Dacrema, che presenta il suo libro “La buona moneta” (ed. All Around). Docente di economia degli Intermediari finanziari all’Università della Calabria, Dacrema ha scritto diversi libri, e non solo di carattere accademico.

Conversando con il sindaco Mario Occhiuto e il prof. Franco Piperno, ci dirà qual è la sua ricetta per azzerare il debito pubblico e – come dice nel sottotitolo al libro – ‘vivere felici o solo un po’ meglio’.

A distanza di un anno, torna a Cosenza, di cui è cittadino onorario, Antonio Monda. Il suo ultimo romanzo, il sesto della sagra newyorkese, ancora per i timbri di Mondadori, è “Io sono il fuoco” e lo presenta, sempre nel Chiostro di San Domenico venerdì 13 luglio (ore 19).

Questa volta Monda – scrittore, giornalista, professore alla New York University, Direttore Artistico della Festa del Cinema di Roma e del festival letterario “Le Conversazioni” – ci porta nella New York degli Anni Quaranta, dove si rifugia il protagonista Baldur Cranach, “uomo pavido e mediocre” perché non ha salvato alcuni ebrei dal campo di concentramento.

Pubblicato il

#Per approfondire: Arabia Saudita, dietro il velo delle donne


di Roberto Roveda (L’unione Sarda, 4 luglio 2018)


– La notizia ha fatto il giro del mondo ed è stata ripresa con enfasi un po’ su tutti i media: dallo scorso 24 giugno le donne possono guidare anche in Arabia Saudita […].

La notizia ha fatto il giro del mondo ed è stata ripresa con enfasi un po’ su tutti i media: dallo scorso 24 giugno le donne possono guidare anche in Arabia Saudita, uno degli stati più chiusi di fronte a ogni tipo di emancipazione femminile. La revoca del divieto è stata voluta dal principe ereditario Mohammed Bin Salman ed è stata interpretata da molti come un segnale di rinnovamento importante nel Paese più integralista del mondo islamico, celebre per la segregazione femminile, per la poligamia e per il mancato rispetto dei diritti umani.

Non bisogna infatti dimenticare che nel mondo saudita le donne sono confinate nel ruolo di mogli e madri disegnato per loro dalla Sharia, la legge islamica, e che dipendono da un guardiano – il marito, il padre, un fratello oppure un parente maschio – per qualsiasi scelta e decisione che debbano prendere. Senza il consenso del guardiano una donna saudita non può lavorare ma neppure uscire di casa oppure viaggiare. Insomma, le donne saudite vivono ancora in un harem diffuso fatto di divieti, di soglie, di proibizioni, di ingressi separati.

Un harem in cui è entrata la giornalista Michela Fontana, che ha vissuto e lavorato a Riad per due anni e mezzo e ha avuto l’occasione di entrare in contatto con le donne saudite, dietro la rigida cortina che le separa dal resto della società. È nato così Nonostante il velo (Morellini editore, 2018, Euro 17,90, pp. 416. Anche EBook), libro-inchiesta che permette di cogliere attraverso le voci delle donne saudite i paradossi e le ambiguità del Paese, e di scoprire che sono proprio loro a esprimere le più forti istanze di rinnovamento. In una società dove solo il 17% delle donne cerca un impiego, infatti, sono sempre più numerose quelle che superano le barriere della tradizione e si cimentano nelle professioni notoriamente esclusive del sesso maschile – architetto, finanziere, ingegnere, artista o scrittore – anche sfidando i pregiudizi.

Tutto questo sta avvenendo in un momento chiave per la storia del Paese, con l’affermazione sulla scena politica del nuovo uomo forte, l’erede al trono, che ha intrapreso un percorso di riforme sociali, alcune delle quali riguardanti proprio il mondo femminile.

Ma veramente le cose stanno cambiando in Arabia come il permesso di guida sembrerebbe indicare? Oppure qualcosa sta mutando perché tutto resti uguale? Lo chiediamo a Michela Fontana:
“Sono vere entrambe le cose. Da un lato sono in atto cambiamenti epocali e il permesso di guida è un atto rivoluzionario in un Paese come l’Arabia dove alcune donne che hanno provato a infrangere il divieto sono finite addirittura in carcere. Sicuramente l’erede al trono punta a modernizzare il Paese e ha deciso di fare aprire i cinematografi e di concedere visti turistici, mentre prima si poteva entrare in Arabia solo se si era musulmani e si voleva andare alla Mecca. Allo stesso tempo l’Arabia rimane un Paese governato da una monarchia assoluta e anche il permesso di guidare alle donne è una concessione reale non un diritto acquisito”.

Perché allora queste concessioni?
“La ragione principale riguarda l’economia saudita. A lungo il Paese si è sostenuto solo con i proventi del petrolio. Ora si vuole realizzare un vero sviluppo economico e tutti, uomini e anche donne, devono contribuire con il loro lavoro. Chiaramente se una donna non può guidare difficilmente può lavorare. Se fa la cassiera di un supermercato non può certo pagarsi l’autista”.

L’erede al trono punta anche a limitare il ruolo dei religiosi, così influenti nel Paese?
“C’è anche questo obiettivo, anche se già le riforme sono un segnale che i religiosi più radicali sono indeboliti. Intendiamoci, il sovrano saudita è il custode della Medina e della Mecca, ha un ruolo fortissimo in campo religioso, però ora la monarchia vuole limitare le frange religiose più estreme e integraliste. Sono stati, per esempio, ridotti i poteri della polizia religiosa che interveniva in maniera spesso violenta anche di fronte a un velo fuori posto. Però l’Arabia è comunque la patria di una forma di Islam repressivo, dogmatico e restrittivo, pieno di regole estremamente rigide e in questo non è cambiata”.

Il suo è un libro di dialoghi e interviste con donne saudite. Le donne che ha conosciuto guardano all’Occidente e ai suoi valori come punti di riferimento?
“Direi di no. Sono certamente influenzate dallo stile di vita occidentale ma anche se una donna o un uomo saudita studiano e lavorano in Occidente questo non cambia la loro cultura di fondo. I valori in cui sono cresciute le donne rimangono molto sentiti: l’attaccamento alla famiglia, l’importanza dell’appartenenza tribale, l’adesione a una forma molto rigida di Islam”.

Cosa pensano allora di noi occidentali?
“Il più delle volte pensano che le nostre libertà sono eccessive. Se vengono in Occidente e vedono che noi donne qui godiamo di molti diritti e libertà non per questo ci apprezzano necessariamente. Anzi, a volte ci ritengono poco serie, quasi della prostitute”.

Cosa le attira allora del mondo occidentale?
“Sto generalizzando naturalmente perché non esiste un modello unico di donna o uomo saudita. Però in generale l’Occidente offre ottime scuole, grande preparazione e possibilità lavorative e questo attira anche se non si condividono i valori occidentali. Una donna mi ha detto: ʻQuando sono all’estero posso fare molte cose, e riconosco che le università che i miei figli e le mie figlie frequentano sono fantastiche. Ma non capisco la vostra cultura e soprattutto non approvo la libertà che viene concessa alle donne. Le ragazze escono con i ragazzi quando sono giovani, si vestono in modo sconveniente e magari rimangono incinte. Per noi è inconcepibile. Da noi la donna è considerata un bene prezioso, è protetta, trattata come un gioielloʼ. Oppure mi è capitato di parlare con una donna che aveva studiato in Occidente, aveva i suoi figli negli Stati Uniti però mi ha confessato di essere stata felice quando i terroristi – che ricordiamo erano per la maggior parte sauditi – hanno fatto crollare le Torri gemelle a New York. Insomma dobbiamo sempre ricordarci – e il discorso vale non solo per i sauditi ma per molta parte del mondo arabo – che il fatto che frequentino il nostro mondo non significa che ci sia apprezzamento o ammirazione”.

Nel suo libro colpiscono le tante regole, limitazioni, norme a cui devono sottostare le donne e in una certa misura anche gli uomini. Cosa, tuttavia, l’ha colpita positivamente dell’Arabia Saudita?
“La forza dei legami famigliari, l’ospitalità, ma soprattutto mi ha colpito positivamente la vivacità delle donne che ho incontrato, la loro energia positiva, il loro desiderio di emanciparsi pur rimanendo all’interno della loro cultura e della loro religione. Certo la strada è ancora lunga, oggi le donne possono guidare ma dipendono ancora per tutta la vita da un guardiano. Solo quando la figura del guardiano sarà abolita in Arabia Saudita allora le donne potranno considerarsi membri della società al pari degli uomini. Come, con quali tempi e se questo avverrà è tutto da vedersi”.


 

Pubblicato il

Le difficoltà vanno abbracciate. Come sulla bici


di Marco Voleri (L’Avvenire, 5 luglio 2018)


Pietro era pronto a salire sulla sua bicicletta nuova fiammante, che desiderava da mesi. «Dobbiamo imparare ad andarci!», gli disse il padre. Scesero le scale di casa e andarono in un piazzale poco distante. «Pietro, sei pronto ad abbracciare la tua bici?». «Abbracciare?», chiese il bambino al padre, perplesso. Salì in sella e grazie all’aiuto delle ruote piccole cominciò a guidarla. «Bene Pietro! Adesso togliamo una ruota piccola». Il padre andò avanti con pazienza, finché non arrivò il momento di togliere tutte le protezioni. Pietro senza ruote piccole cadde più volte, arrabbiandosi. «Questa bici fa schifo, non ci salgo più!».
Gli scienziati ci dicono che il cervello insegue la comodità ma impara dalle difficoltà. Di fatto non c’è un metodo preciso per imparare ad andare in bicicletta: bisogna cadere per imparare a stare in equilibrio. La capacità di rimanere in piedi si acquisisce abbracciando la difficoltà, provando tutti i modi possibili per riuscirci. La fiducia in noi stessi non è un dono ma il frutto delle esperienze affrontate, il risultato dei piccoli o grandi problemi risolti.
Dall’altro lato del piazzale siedono madre e figlia di dieci anni. «Gilda, pouvez-vous me passer ce sac, s’il vous plaît?». «Sì mamma, eccola». Un’anziana signora di passaggio non riesce a trattenersi: «Che brava, così piccola sa già il francese?». «Da quando è nata le parlo in francese – risponde la mamma – e lei risponde in italiano. Poco male, una lingua in più l’ha imparata».
In mezzo a qualsiasi difficoltà si trova un’opportunità, ogni sfida è un modo per crescere. Per un bimbo è magari un gioco da vincere. Di fatto rispondere in italiano a una domanda fatta in un’altra lingua significa superare un ostacolo quotidiano, come se fosse un vero e proprio allenamento. La fatica e la costanza accresce in Evìta, dieci anni, la consapevolezza del proprio valore, giorno dopo giorno. Attraverso le asperità si arriva alle stelle, diceva Seneca. E noi cosa decidiamo di fare oggi? Siamo pronti ad abbracciare le nostre difficoltà?

Pubblicato il

Donne e Arabia Saudita: non basta la patente


di Valeria Palumbo (La 27esima ora, 28 giugno 2018)


– «Ti ho amato al primo twit».

Ammetto che, di 400 pagine densissime e tutte da leggere di Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita (Morellini editore), la prima cosa che mi viene in mente è: «Ti ho amato al primo twit». Perché è forse l’espressione che, nell’indagine di Michela Fontana, matematica, saggista e giornalista, riassume meglio le contraddizioni e le difficoltà delle saudite (e, in parte, dei sauditi). Ovvero l’assurdità di una segregazione totale che non solo rende impossibili i rapporti tra i giovani (in un Paese giovanissimo) ma, di fatto, complica perfino la possibilità di sposarsi, obiettivo per il quale le ragazze vengono ancora educate. Al tempo stesso la diffusione di Twitter svela la scappatoia formidabile offerta, pur tra mille ostacoli, da Internet.

Orgoglio e pregiudizio
La situazione è paradossale perché ricorda incredibilmente quella dell’Inghilterra georgiana di Jane Austen, unita all’ossessione per “l’onore” di pirandelliana memoria e all’abbigliamento delle donne sarde ancora negli anni Sessanta. “Ricorda” non vuol dire che la situazione è uguale ma la somiglianza smonta un pregiudizio (loro e nostro). Ovvero che il mondo islamico non può vivere la progressiva conquista dei diritti umani e civili dell’Occidente, in particolare per quanto riguarda le donne, perché è “diverso”. Le donne Occidentali hanno subito gran parte dei soprusi che oggi opprimono le saudite. Fuori tempo massimo: secondo il World Economic Forum l’Arabia Saudita è al 138esimo posto su 144 nell’indice mondiale delle pari opportunità.

Il peso del guardiano
Così, se è vero che anche le italiane hanno avuto, fino al 1919, la tutela maritale, che non potevano testimoniare nelle cause di diritto civile fino alla riforma post-unitaria del 9 dicembre 1877, voluta da Salvatore Morelli, e che le antiche romane avevano un tutore per qualsiasi atto, proprio come le saudite oggi (teoricamente, le matrone dovevano pure uscire di casa velate), è anche vero che 2mila anni, come pure cento fanno la differenza. E un istituto surreale come quello del wali al-amr, del guardiano (padre, marito, fratello, figlio, zio…), che fino a qualche tempo fa autorizzava persino una donna ad andare in ospedale a partorire, appare fuori dal tempo in quasi tutto il mondo musulmano. E se è vero che una certa segregazione vale anche nel maggior e avversario dell’Arabia Saudita, l’Iran (dove le donne si battono ancora per andare allo stadio, al contrario delle saudite che possono farlo dal gennaio 2018), la totale divisione dei sessi è un ricordo a Teheran. E una realtà a Riad.

Un mondo di sole donne
Michela Fontana ha passato due anni e mezzo, dal luglio 2010 al dicembre 2012 a intervistare saudite di classi, età, istruzione, idee, inclinazioni diversissime. Ha potuto farlo proprio in quanto donna. Come già notava la scrittrice statunitense Edith Wharton in Harem, moschee e cerimonie (nella traduzione italiana di Editori Riuniti) gli uomini occidentali non sanno nulla degli harem e ci fantasticano su (con un buon grado di perversa fantasia) semplicemente perché non possono entrarci. In Arabia Saudita nemmeno le sale d’attesa degli ospedali sono miste. La segregazione è ossessiva ma, a spiega Fontana, così interiorizzata che spesso le saudite non ci fanno caso. Almeno le più anziane. Perché le giovani appaiono sempre più diverse: rappresentano, non a caso, il 58% della popolazione universitaria. Paradossalmente sono oggi spesso i padri a spingerle a studiare: una donna istruita può valere di più sul mercato matrimoniale.

Internet piace a progressisti e conservatori
Quello che appunto rende prezioso Nonostante il velo è il tempo che Michela Fontana ha dedicato agli incontri e anche la sua totale “laicità”, nel senso che ha accettato senza ribattere qualsiasi risposta (soprattutto i giudizi tranchant sulle donne occidentali), ha insistito davanti alle ritrosie, ha cercato di capire anche gli atteggiamenti più contraddittori. Che non mancano: la poligamia, molto diffusa, è sostenuta sul web da alcune ragazze istruite. La religione, onnipresente, non ha eliminato le credenze magiche. I social piacciono ai progressisti come ai conservatori. I divorzi sono diffusissimi e le single sono sempre di più. Ma spesso a rendere impossibile un matrimonio è il radicato razzismo tra tribù. La segregazione rende gli abiti sexy e i discorsi sul sesso ben più diffusi che tra noi. La maternità è un totem, ma il numero di figli è crollato. L’inglese è diffuso, come pure la tendenza di studiare all’estero. Ma alla fine i progressi che la società sta facendo, con la concessione della guida alle donne, la riapertura dei cinematografi e la nomina di alcune donne in posti di rilievo, sono dovuti a un principe ereditario, Mohammad bin Salman Al Saud, che ha studiato in patria.

Vision 2030
Condensare qui le 400 pagine di Michela Fontana senza banalizzare le risposte delle donne intervistate e senza dimenticare aspetti importanti (per esempio la violenza familiare, l’ipocrisia dei matrimoni “a termine”, la povertà diffusa, non soltanto tra vedove e divorziate) è impossibile. Una cosa è certa: rispetto al periodo della sua indagini anche l’Arabia Saudita è cambiata. Vision 2030, il programma reale di sviluppo, pur viziato da una caratteristica di fondo (il Paese è una monarchia assoluta ed è proprietà della famiglia regnante), sta imponendo mutamenti rapidi, anche in opposizione con una potentissima classe religiosa, quella degli ulema, che garantiscono da quasi cent’anni l’esistenza stessa del Regno. Per questo le saudite sanno che tutto può cambiare. O tutto può tornare indietro all’improvviso. È successo, in Iran, ma non solo. E, come diceva Primo Levi, se è successo può ancora accadere.


Pubblicato il

Le donne arabe tra harem e futuro


(Repubblica, 26 giugno 2018)


Les Mots
Via Carmagnola angolo via Pepe ore 18.30.

È appena caduto il divieto di mettersi al volante, ma c’è ancora molta strada da fare per le donne dell’Arabia Saudita. Michela Fontana ne parla nell’inchiesta Nonostante il velo, nuova versione di un ebook VandAePublishing pubblicato ora in cartaceo da Morellini Editore. La giornalista, avendo vissuto e lavorato due anni e mezzo a Riad, è riuscita a conoscere dall’interno un Paese in cui fino a due giorni fa le donne da sole non potevano neanche portare i figli a scuola. Il libro descrive una società in bilico tra harem, divieti, regole e riforme per renderla più moderna. Con Valeria Palumbo.


 

Pubblicato il

Intervista a Michela Fontana

Il 24 giugno è entrata in vigore la legge che permette alle donne dell’Arabia Saudita di sedersi al volante. Si tratta di un evento di portata epocale, per il quale le donne arabe si sono battute con forza, sfidando il potere degli uomini, dei propri padri, dei fratelli e dello stesso governo.

Michela Fontana, autrice di “Nonostante il velo“, ne ha parlato a Radio Capital: qui l’intervista (al minuto 1.46).

Pubblicato il

Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita, di Michela Fontana


di Mimma Zuffi (Sognaparolemagazine, 10 giugno 2018)


Ha fatto una grande sensazione al mondo che da giugno 2018 le donne dell’Arabia Saudita potranno guidare un’auto: la rimozione del bando è solo una delle timide ma importanti aperture in un Paese celebre per la segregazione femminile.

Ha fatto una grande sensazione al mondo che da giugno 2018 le donne dell’Arabia Saudita potranno guidare un’auto: la rimozione del bando è solo una delle timide ma importanti aperture in un Paese celebre per la segregazione femminile.
Dietro la rigida cortina che separa le donne dal resto della società, sono proprio le donne a cercare di esprimere le più forti istanze di rinnovamento.
Nel corso di un soggiorno di due anni in Arabia Saudita la giornalista Michela Fontana ha avuto modo di conoscere e intervistare attiviste, donne d’affari, studentesse, scrittrici e di raccoglierne i pensieri, i sogni, le battaglie. Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita è un libro inchiesta di grandissima attualità per conoscere “dal di dentro” il cuore del più integralista paese islamico. Un paese in via di trasformazione con l’affermazione sulla scena politica del nuovo uomo forte del regno, l’erede al trono Mohammed Bin Salman, che ha, fra l’altro, intrapreso un significativo percorso di riforme sociali, alcune delle quali riguardanti proprio il mondo femminile.

«Negli anni vissuti a Riad ho scoperto che sempre più donne saudite si fanno protagoniste del loro destino. Non più rassegnate e sottomesse, ma attive ecoraggiose. […] Sono loro il tesoro nascosto del paese». Michela Fontana

In una società dove solo il 17% delle donne cerca un impiego, sono sempre più numerose quelle che superano le barriere della tradizione e si cimentano nelle professioni notoriamente esclusive del sesso maschile – architetto, finanziere, ingegnere, artista o scrittore – anche sfidando i pregiudizi (come dimostrano la partecipazione alla Biennale di Venezia o il successo del coraggioso libro Ragazze di Riad di Rajaa Alsanea), incoraggianti segnali di una presa di consapevolezza del proprio ruolo, ora non più strettamente legato al volere dell’uomo.

Il libro è una polifonia di voci, di storie uniche di donne di diverse provenienze sociali – donne d’affari, professioniste, islamiste o semplicemente figlie, mogli o madri -, ognuna con il suo vissuto sempre teso in una costante dicotomia tra libertà e restrizione.
Sono diciassette storie che indagano – e rappresentano – le diverse sfaccettature,talvolta contraddittorie, di una società in trasformazione, stralci di vita raccolti oltrepassando muri invalicabili, felici istantanee di sudate conquiste.

È altresì una consapevole presa d’atto di una situazione che, come ben illustra l’autrice, ha «rafforzato la convinzione che non si può chiedere a un popolo cresciuto in una cultura diversa dalla nostra di seguire una strada tracciata da altri. Né si può forzare la storia, che in ciascuna nazione deve fare il suo corso, con i suoi tempi».

«La piscina degli uomini è all’aperto, è più grande della nostra ed è bellissima, ma non te la posso mostrare» mi ha detto Sofia. E ha aggiunto, con civetteria, che quando viaggiava all’estero con il marito per le vacanze non era un problema per lei nuotare in bikini nelle piscine miste degli alberghi dove soggiornavano. – Harem

«Mio padre era molto religioso, ma non era un conservatore. A lui devo tutto, la mia istruzione e il mio coraggio. […] “Sii te stessa” mi ripeteva. È lui che ha indirizzato la mia vita. Avevo dieci anni, avevo appena finito la scuola religiosa e nessuno in famiglia voleva che continuassi gli studi, perché ero una donna. Allora lui mi ha rapito. Mi aveva iscritto a un collegio in lingua inglese senza dirlo a nessuno, nemmeno a me. […] Quando gli ho chiesto piangendo se avrei potuto vedere ancora la mamma mi ha detto che sarebbe trascorso molto tempo, ma che era per il mio bene, per avere una vita migliore della sua.»- Aisha: puttane e comuniste.

«Quando sono all’estero posso fare molte cose, e riconosco che le università che i miei figli e le mie figlie frequentano sono fantastiche. […] Ma non capisco la vostra cultura e soprattutto non approvo la libertà che viene concessa alle donne. Le ragazze escono con i ragazzi quando sono giovani, si vestono in modo sconveniente e magari rimangono incinte. Per noi è inconcepibile. Da noi la donna è considerata un bene prezioso, è protetta, trattata come un gioiello. Quando parlate di noi in Occidente vi preoccupate soltanto del velo e della guida, ma non sapete niente delle nostre tradizioni. Io non voglio che le donne guidino nel nostro paese perché è troppo pericoloso. Che bisogno c’è di guidare, è tanto comodo avere l’autista! E il velo io lo metto volentieri. È il mio modo di ringraziare Dio di avermi dato dei figli sani, Al Hamdulillah. (Grazie a Dio)!» – Oro nero: i ricchi

Michela Fontana, giornalista e saggista milanese, ha vissuto quindici anni tra Stati Uniti, Canada, Svizzera, Cina e Arabia Saudita. Il suo libro Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming (Mondadori, 2005), tradotto in francese, spagnolo e inglese, ha vinto il “Grand Prix de la biographie politique” nel 2010. Ha pubblicato inoltre Percorsi calcolati (1996) e Cina, la mia vita a Pechino (2010), entrambi con la casa editrice Le Mani.

 

Pubblicato il

Evento – “Nonostante il velo” @Les Mots


Milano, 26 giugno 2018, h 18.30


– VandA.ePublishing e Morellini Editore presentano martedì 26 giugno, ore 18.30, Nonostante il velo di Michela Fontana.

 

Donne in Arabia Saudita
Il 24 giugno entrerà in vigore la legge che permetterà alle donne dell’Arabia Saudita di sedersi al volante. Si tratta di un evento di portata epocale, per il quale le donne arabe si sono battute con forza, sfidando il potere degli uomini, dei propri padri, dei fratelli e dello stesso governo.

Nel libro Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita pubblicato in co-edizione con Morellini Editore, l’autrice, Michela Fontana, ha raccolto diciassette significative testimonianze, storie uniche di donne di diverse provenienze sociali – donne d’affari, professioniste, islamiste o semplicemente figlie, mogli o madri -, ognuna con il suo vissuto sempre teso in una costante dicotomia tra libertà e restrizione. Sono storie che indagano – e rappresentano – le diverse sfaccettature, talvolta contraddittorie, di una società in trasformazione, stralci di vita raccolti oltrepassando muri invalicabili, felici istantanee di sudate conquiste.

 

Pubblicato il

Rebecca Town in giro per l’Europa

(Thriller Magazine,  3 ottobre 2014)


– Stanno riscuotendo sempre più successo i romantic suspense in digitale con protagonista una moderna signora in giallo. Il genere romantic suspense sta conquistando fette sempre più ampie di lettori, e l’editoria digitale gli ha dato quelle possibilità di espressione che purtroppo il cartaceo troppo spesso nega.

Stanno riscuotendo sempre più successo i romantic suspense in digitale con protagonista una moderna signora in giallo. Il genere romantic suspense sta conquistando fette sempre più ampie di lettori, e l’editoria digitale gli ha dato quelle possibilità di espressione che purtroppo il cartaceo troppo spesso nega.

L’autrice torinese Manuela Siciliani sta portando  avanti per la VandA.ePublishing una serie di titoli  con protagonista Rebecca “Becky” Town: una versione moderna e digitale della Signora in Giallo. In attesa del nuovo titolo – Rebecca Town a Praga -ecco gli eBook usciti finora.

Il primo intricato caso di Becky segna l’esordio sulla scena del delitto di una splendida newyorkese, modaiola, acuta, passionale, dal passato tormentato e scrittrice di guide turistiche. Questo è infatti il primo di una serie di romanzi ambientato ogni volta in una città diversa, una città descritta come si confà a una guida: le tappe da non perdere, i locali più trendy ma anche quelli più de lati e che però meritano “una menzione”, i luoghi dello shopping, le strade, i cibi… Ogni luogo diventa così l’incantevole cornice ai misteri che Becky, detective per caso, si trova a risolvere. Una città, un delitto. Ma c’è anche la personale vicenda della nostra esuberante guida, che nel corso di ogni romanzo troverà l’amore, scoprirà la verità sulla misteriosa morte dei genitori e… chissà? A Parigi incontra il sexy Benjamin Green e l’ambigua Margareth Wallace, lanciandosi in una spirale di cospirazioni che coinvolgono l’ambasciata americana. E mentre a New York la sua amica Jessie e la zia Cecil la crederanno al sicuro nella romantica città, Becky, con l’aiuto di un ispettore francese che tanto ricorda il celebre Poirot, risolverà il caso, grazie soprattutto alla sua intraprendenza. Disponibile anche in versione cartacea (su Amazon).

Rebecca Town a Londra

Doppia indagine è il secondo romanzo della serie che ha come protagonista Rebecca Town, detta Becky. Una splendida newyorkese, modaiola, acuta, passionale, dal passato tormentato e scrittrice di guide turistiche. Ogni romanzo è ambientato in una città diversa, una città descritta come si confà a una guida: le tappe da non perdere, i locali più trendy ma anche quelli più de lati e che però meritano “una menzione”, i luoghi dello shopping, le strade, i cibi… Ogni luogo diventa così l’incantevole cornice ai misteri che Becky, detective per caso, si trova a risolvere. Una città, un delitto. Ma c’è anche la personale vicenda della nostra esuberante protagonista.
Dopo il successo della guida viaggio su Parigi, la Writers & C. le a da una nuova meta turistica: Londra, una delle città più cool e trendy d’Europa. Londra è però la città natale di Becky, da cui è stata allontanata quando aveva quindici anni, in seguito alla morte dei genitori, e dove incontra il resto della sua famiglia. Qui riscopre i luoghi tanto amati da bambina, fish and chips…
Ma Becky non sarebbe Becky senza la sua curiosità innata che la trasforma in detective. Non si tratta solo di scoprire come sono morti i suoi genitori (è stato davvero un incidente?), un omicidio viene consumato proprio nel ristorante del futuro marito della cugina Emma. In suo aiuto verrà Luke Logan, intrigante figlio dell’ispettore. Riuscirà il giovane Luke a farle dimenticare il sexy Ben, che ha tinto di rosa il suo soggiorno parigino?

Rebecca Town a Roma

Passione e mistero è il terzo romanzo della serie che ha come protagonista Rebecca Town, detta Becky. Una splendida newyorkese, modaiola, acuta, passionale, dal passato tormentato e scrittrice di guide turistiche. Ogni romanzo è ambientato in una città diversa, descritta come si confà a una guida: le tappe da non perdere, i locali più trendy ma anche quelli più de lati e che però meritano “una menzione”, i luoghi dello shopping, le strade, i cibi… Ogni luogo diventa così l’incantevole cornice ai misteri che Becky, detective per caso, si trova a risolvere. Una città, un delitto. E poi c’è la personale vicenda della nostra esuberante guida.
Cupido aveva fatto scoccare la sua freccia nella romantica Parigi, e Becky e Ben erano entrati prepotentemente nella vita uno dell’altra. Si erano però lasciati male. A Londra una telefonata di Ben aveva schiarito il cielo sopra una Becky arrabbiata dopo l’inaspettata verità sulla morte dei suoi genitori.
Nello scenario della caput mundi, al colmo della felicità per un sogno d’amore che sembra essere divenuto finalmente realtà, mentre è intenta ad ammirare la Cappella Sistina, un uomo si accascia privo di vita sotto gli occhi di Becky. All’apparenza una morte naturale. Le indagini sono presto ostacolate dall’alto, ma non sarà questo a rendere la nostra protagonista sempre più inquieta. Dubbi e paure pian piano l’assalgono, finché il suo fiuto da detective la mette di fronte a una scelta difficile, quella tra l’uomo che ama e l’amore per la verità. Quale dei due sceglierà Becky?

Manuela Siciliani è nata a Torino nel 1978. Laureata a Milano in Relazioni Pubbliche, oggi vive a Sanremo. Mamma e moglie prima di tutto, fa l’agente di viaggi per passione e scrive per diletto. Rebecca Town, la protagonista dei suoi romanzi, vi porterà alla scoperta di meravigliose città dove, suo malgrado, si troverà a risolvere complicati casi di omicidio. Il tutto condito da leggerezza e love story.


Pubblicato il

Eppure c’era metodo nella sua follia


di Serena Guarracino (Leggendaria, maggio 2018)


– Trilogia S.C.U.M. ripropone i testi della femminista passata alla storia per aver quasi ucciso Andy Warhol nell’ambito della guerra dichiarata ai maschi. Ma Solanas ha molte cose da dire anche al femminismo di oggi.

La settima puntata della serie televisiva American Horror Story: Cult, dal titolo Valerie Solanas è morta per i nostri peccati, ripercorre la vita dell’attivista e scrittrice americana; interpretata qui da Lena Durham, a sua volta attivista femminista nella Hollywood contemporanea, la Valerie tradotta nel linguaggio pop barocco della serie tv riprende e problematizza lo stereotipo della femminista squilibrata che odia gli uomini, di cui pianifica l’estinzione insieme alla sua setta (il cult, tema centrale della stagione), la S.C.U.M. o Società per l’Abolizione del Maschio. Ma il disagio mentale di Valerie impedisce il compimento del piano e porta allo sgretolamento della setta: al fondo della sua discesa nel delirio paranoico, l’attivista si trova faccia a faccia con la visione di un Andy Warhol irritante e compiaciuto, che le rinfaccia che l’unica cosa per cui sarà mai ricordata è di avergli sparato, senza peraltro ucciderlo, quel 3 giugno del 1968.

Trilogia SCUM, volume che per la prima volta raccoglie in italiano i testi fondamentali di Solanas, si confronta sin dall’inizio con lo stereotipo quasi fumettistico di questa autrice «impudente, incendiaria, rabbiosa e tragicamente comica», come la definisce Stefania Arcara in apertura della sua ricchissima introduzione al testo. Questa raccolta registra il bisogno attuale di rileggere Valerie Solanas e di emanciparla dalla narrazione egemonica che la riduce al gesto fallito di ribellione contro il sistema. Operazione che però offre il fianco a un altro rischio, quello di guardare a Solanas in maniera nostalgica rendendola una martire dell’ineguaglianza di genere, morta davvero “per i nostri peccati” in solitudine e miseria in una stanza del famigerato Bristol Hotel di San Francisco. Ma Trilogia SCUM evita anche questa trappola rendendo giustizia alle molte sfumature della sua scrittura, e soprattutto all’intreccio paradossale di rabbia e ironia caustica che permette oggi di leggerla come una delle voci più dirompenti del femminismo occidentale.

Il volume offre tre testi fondamentali per indagare il suo pensiero e la sua influenza sulle diverse anime del femminismo contemporaneo. Il primo è il Manifesto scum, privato di quel valore di acronimo (Society for Cutting Up Men) mantenuto dall’altra traduzione disponibile in italiano (S.C.U.M. Manifesto per l’eliminazione del maschio, trad. di Adriana Apa, L’Ortica 2010) e che è invece il risultato di un intervento dell’editore Maurice Girodias per l’edizione del 1968. Il testo era già stato pubblicato indipendentemente nel 1967 dall’autrice, che ne vendeva le copie per strada nel Greenwich Village di New York, al prezzo di un dollaro per gli uomini e di venticinque centesimi per le donne; Solanas lo ripubblica poi nel 1977, ed è su questa versione che si basa la traduzione (con il testo originale a fronte) inclusa in Trilogia SCUM.

Letto attraverso il filtro delle diverse ondate di femminismo che ci separano e allo stesso tempo ci riconducono da Solanas – come dimostrano le introduzioni approfondite e ben documentate delle curatrici Stefania Arcara e Deborah Ardilli – oggi il Manifesto SCUM dimostra un’attualità non scontata tratteggiando un mondo ribaltato in cui le donne utilizzano gli strumenti inventati dagli uomini, come la tecnologia e le armi, per liberarsi finalmente di questo «incidente biologico» che è il maschio e di tutte le formazioni socioculturali che ha prodotto, dall’istituzione matrimoniale al sistema bancario. La sua struttura retorica si basa sul rovesciamento parodico delle attribuzioni essenzialiste di date caratteristiche esclusivamente a uno dei due generi sessuali: se la società che oggi definiremmo etero-patriarcale confina le donne in un orizzonte limitato, sostiene Solanas, è perché il maschio vuole «rivendica[re] come proprie tutte le caratteristiche femminili – forza e indipendenza emotiva, energia, dinamismo, risolutezza, disinvoltura, obiettività, assertività, coraggio, integrità, vitalità, intensità, profondità di carattere, fascino e così via, e proietta[re] sulle donne tutti i tratti maschili – vanità, frivolezza, banalità, debolezza e così via».

La strategia del rovesciamento, tuttavia, non risulta in una celebrazione acritica del femminile. Non solo il Manifesto identifica anche tra le donne le nemiche del nuovo ordine SCUM (letteralmente «feccia») – in particolare le «garbate Figlie di Papà, passive, accomodanti, ‘colte’ […], mentecatte, insicure, avide di approvazione»; ma soprattutto Solanas tocca una nota estremamente attuale per il dibattito femminista contemporaneo, così diviso sulle questioni della gravidanza per altri e della maternità biologica. Il Manifesto propugna infatti l’emancipazione delle donne dal lavoro riproduttivo mediante la tecnologia: «la risposta è la riproduzione artificiale dei bambini». La maternità, nel Manifesto, è infatti sempre rappresentata esclusivamente come lavoro, uno dei tanti modi in cui la ricchezza del femminile viene messa a valore nel sistema socio-economico capitalista, nonché base di quello che la teoria queer (da Lee Edelman a Jack Halberstam) chiamerà poi «futurismo riproduttivo», l’ipoteca del desiderio presente in nome della felicità futura. Nel suo stile dissacrante e provocatorio, Solanas pone la domanda che anche oggi, a cinquant’anni di distanza, ben poche sono in grado di proferire: «Perché dovrebbe importarci di quello che accadrà quando saremo morte? Perché dovrebbe importarci se non ci sarà una generazione più giovane a succederci?».

La rivoluzione parte quindi dal rifiuto del lavoro o meglio dallo «slavoro», neologismo che per Solanas indica il rifiuto di partecipare all’economia oppressiva capitalista e patriarcale. Contro la retorica della forza-lavoro Solanas propone infatti la «forza-slavoro […] la forza che fotte il sistema» inceppandone il ciclo di produzione e riproduzione fino al collasso. Protagoniste di questa rivoluzione sono le «femmine SCUM», «le femmine dominatrici, determinate, sicure di sé, cattive, violente, egoiste, indipendenti, orgogliose, avventurose, sciolte, insolenti, che si considerano adatte a governare l’universo». L’aggettivazione ipertrofica, una delle caratteristiche più macroscopiche dello stile di Solanas a cui la traduzione rende il giusto merito, fa sì che il testo proceda quasi per associazioni libere, attivando un processo che più che alle facoltà razionali fa appello all’inconscio. In questo modo, attraverso il sorriso sollecitato dall’ironia e dal paradosso, il Manifesto accompagna lettrici e lettori verso una consapevolezza degli orrori del presente che, nonostante i cinquant’anni passati dalla sua scrittura, suonano terribilmente attuali.

Prendiamo per esempio l’affermazione «il maschio è per sua natura una sanguisuga, un parassita delle emozioni e perciò non ha un diritto morale a vivere, giacché nessuno ha il diritto di vivere a spese di qualcun altro». Il testo sfrutta la generalizzazione biologico-sociale («il maschio») per generare una risposta dissociativa in chi legge («non tutti i maschi!», penseranno lettrici e lettori benintenzionati). La conclusione assume però un’evidenza catastrofica, che riporta alla mente i numerosi femminicidi a cui assistiamo quasi quotidianamente e che sono ben rievocati da quei «momenti di tregua» descritti da Solanas, momenti che il maschio ricerca ma «che possono essere raggiunti soltanto a spese di qualche femmina». L’unica risposta possibile a questa minaccia continua è lo slavoro anche emotivo, il rifiuto di fungere sostegno per una soggettività insicura e violenta ossia, per Solanas, per il maschio.

Prototipo della nuova posizionalità psicologica e socio-economica della «femmina SCUM» è Bongi Perez, protagonista di In culo a te, testo teatrale che ha visto le scene solo nel 2000 e che vedrà presto una messa in scena a cura di Nicoleugenia Prezzavento, che ne cura la traduzione. Questo testo e il breve Come conquistare la classe agiata. Un prontuario per fanciulle fanno da corollario alla lettura del Manifesto e ne illuminano alcuni passaggi fondamentali con il loro stile a metà tra l’anti-naturalismo e l’autobiografia: Bongi, accattona, barbona, prostituta, è in buona parte un surrogato dell’autrice, così come lo è voce narrante del Prontuario che racconta delle sue strategie di accattonaggio, «un’occupazione estremamente remunerativa, dai grandi stimoli creativi e fortemente incentrata sulle relazioni interpersonali […] un’occupazione, dunque, perfetta per la sensibilità femminile». Entrambi i testi offrono anche una panoplia di personaggi/e tra i più svariati/e: in particolare In culo a te presenta uno stuolo di uomini (il Tipo Bianco e il Tipo Nero, il cliente Alvin e l’artista Russell) tutti mediamente ripugnanti, nonché Ginger, Figlia di Papà a cui Solanas dona una delle battute più memorabili: «è universalmente noto che gli uomini hanno tanto più rispetto per una donna quanto più questa eccelle nel mangiare merda».

Trilogia SCUM si chiude con una ricca appendice in cui le curatrici raccolgono tributi e opere ispirate all’attivista americana dalla sua morte fino al 2016. Tra esse manca American Horror Story: Cult, uscita nel 2017, che pur nella rappresentazione stereotipa della sua figura, ne recupera la potenzialità creativa: la setta di donne SCUM è infatti l’unica a sopravvivere a tutte quelle fondate da leader maschi come, per esempio, David Koresh e Charles Manson. La sopravvivenza di Solanas resta il segno di un tempo difficile, ma anche pieno di possibilità, per il femminismo contemporaneo: ed è significativo che il suo lavoro riemerga oggi, a cinquant’anni da quel ’68 ormai soggetto a un impietoso revisionismo, grazie al lavoro di studiose che non temono a confrontarsi con questa autrice anticonformista e difficilmente irreggimentabile ma che invece la offrono a lettrici e lettori come chiave di lettura imprescindibile per il presente.