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Pierangelo Dacrema al Festival delle Invasioni

Il “Festival delle Invasioni – Stagioni d’Estate” è iniziato il 10 luglio, con la presentazione del libro “La buona moneta”, pubblicato da VandAePublishing in coedizione con Edizioni All Around:  l’autore Pierangelo Dacrema, economista, ne ha parlato insieme al sindaco Mario Occhiuto e al professore Franco Piperno. Dacrema ha illustrato la sua ricetta per azzerare il debito pubblico e, come dice nel sottotitolo del libro, “vivere felici (o solo un po’ meglio)”.
Qui potete trovare il suo intervento.

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Via all’Invasione di libri

 

– Si parte martedì con Pierangelo Dacrema. Anche quest’anno il Festival delle Invasioni – Stagioni d’estate dedica una sezione di “Beni parlati”, luoghi di rilevanza storica che diventano location per la presentazione di novità editoriali.

Si comincia dal Chiostro di San Domenico martedì 10 luglio (ore 19), con l’economista Pierangelo Dacrema, che presenta il suo libro “La buona moneta” (ed. All Around). Docente di economia degli Intermediari finanziari all’Università della Calabria, Dacrema ha scritto diversi libri, e non solo di carattere accademico.

Conversando con il sindaco Mario Occhiuto e il prof. Franco Piperno, ci dirà qual è la sua ricetta per azzerare il debito pubblico e – come dice nel sottotitolo al libro – ‘vivere felici o solo un po’ meglio’.

A distanza di un anno, torna a Cosenza, di cui è cittadino onorario, Antonio Monda. Il suo ultimo romanzo, il sesto della sagra newyorkese, ancora per i timbri di Mondadori, è “Io sono il fuoco” e lo presenta, sempre nel Chiostro di San Domenico venerdì 13 luglio (ore 19).

Questa volta Monda – scrittore, giornalista, professore alla New York University, Direttore Artistico della Festa del Cinema di Roma e del festival letterario “Le Conversazioni” – ci porta nella New York degli Anni Quaranta, dove si rifugia il protagonista Baldur Cranach, “uomo pavido e mediocre” perché non ha salvato alcuni ebrei dal campo di concentramento.

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#Per approfondire: Arabia Saudita, dietro il velo delle donne


di Roberto Roveda (L’unione Sarda, 4 luglio 2018)


– La notizia ha fatto il giro del mondo ed è stata ripresa con enfasi un po’ su tutti i media: dallo scorso 24 giugno le donne possono guidare anche in Arabia Saudita […].

La notizia ha fatto il giro del mondo ed è stata ripresa con enfasi un po’ su tutti i media: dallo scorso 24 giugno le donne possono guidare anche in Arabia Saudita, uno degli stati più chiusi di fronte a ogni tipo di emancipazione femminile. La revoca del divieto è stata voluta dal principe ereditario Mohammed Bin Salman ed è stata interpretata da molti come un segnale di rinnovamento importante nel Paese più integralista del mondo islamico, celebre per la segregazione femminile, per la poligamia e per il mancato rispetto dei diritti umani.

Non bisogna infatti dimenticare che nel mondo saudita le donne sono confinate nel ruolo di mogli e madri disegnato per loro dalla Sharia, la legge islamica, e che dipendono da un guardiano – il marito, il padre, un fratello oppure un parente maschio – per qualsiasi scelta e decisione che debbano prendere. Senza il consenso del guardiano una donna saudita non può lavorare ma neppure uscire di casa oppure viaggiare. Insomma, le donne saudite vivono ancora in un harem diffuso fatto di divieti, di soglie, di proibizioni, di ingressi separati.

Un harem in cui è entrata la giornalista Michela Fontana, che ha vissuto e lavorato a Riad per due anni e mezzo e ha avuto l’occasione di entrare in contatto con le donne saudite, dietro la rigida cortina che le separa dal resto della società. È nato così Nonostante il velo (Morellini editore, 2018, Euro 17,90, pp. 416. Anche EBook), libro-inchiesta che permette di cogliere attraverso le voci delle donne saudite i paradossi e le ambiguità del Paese, e di scoprire che sono proprio loro a esprimere le più forti istanze di rinnovamento. In una società dove solo il 17% delle donne cerca un impiego, infatti, sono sempre più numerose quelle che superano le barriere della tradizione e si cimentano nelle professioni notoriamente esclusive del sesso maschile – architetto, finanziere, ingegnere, artista o scrittore – anche sfidando i pregiudizi.

Tutto questo sta avvenendo in un momento chiave per la storia del Paese, con l’affermazione sulla scena politica del nuovo uomo forte, l’erede al trono, che ha intrapreso un percorso di riforme sociali, alcune delle quali riguardanti proprio il mondo femminile.

Ma veramente le cose stanno cambiando in Arabia come il permesso di guida sembrerebbe indicare? Oppure qualcosa sta mutando perché tutto resti uguale? Lo chiediamo a Michela Fontana:
“Sono vere entrambe le cose. Da un lato sono in atto cambiamenti epocali e il permesso di guida è un atto rivoluzionario in un Paese come l’Arabia dove alcune donne che hanno provato a infrangere il divieto sono finite addirittura in carcere. Sicuramente l’erede al trono punta a modernizzare il Paese e ha deciso di fare aprire i cinematografi e di concedere visti turistici, mentre prima si poteva entrare in Arabia solo se si era musulmani e si voleva andare alla Mecca. Allo stesso tempo l’Arabia rimane un Paese governato da una monarchia assoluta e anche il permesso di guidare alle donne è una concessione reale non un diritto acquisito”.

Perché allora queste concessioni?
“La ragione principale riguarda l’economia saudita. A lungo il Paese si è sostenuto solo con i proventi del petrolio. Ora si vuole realizzare un vero sviluppo economico e tutti, uomini e anche donne, devono contribuire con il loro lavoro. Chiaramente se una donna non può guidare difficilmente può lavorare. Se fa la cassiera di un supermercato non può certo pagarsi l’autista”.

L’erede al trono punta anche a limitare il ruolo dei religiosi, così influenti nel Paese?
“C’è anche questo obiettivo, anche se già le riforme sono un segnale che i religiosi più radicali sono indeboliti. Intendiamoci, il sovrano saudita è il custode della Medina e della Mecca, ha un ruolo fortissimo in campo religioso, però ora la monarchia vuole limitare le frange religiose più estreme e integraliste. Sono stati, per esempio, ridotti i poteri della polizia religiosa che interveniva in maniera spesso violenta anche di fronte a un velo fuori posto. Però l’Arabia è comunque la patria di una forma di Islam repressivo, dogmatico e restrittivo, pieno di regole estremamente rigide e in questo non è cambiata”.

Il suo è un libro di dialoghi e interviste con donne saudite. Le donne che ha conosciuto guardano all’Occidente e ai suoi valori come punti di riferimento?
“Direi di no. Sono certamente influenzate dallo stile di vita occidentale ma anche se una donna o un uomo saudita studiano e lavorano in Occidente questo non cambia la loro cultura di fondo. I valori in cui sono cresciute le donne rimangono molto sentiti: l’attaccamento alla famiglia, l’importanza dell’appartenenza tribale, l’adesione a una forma molto rigida di Islam”.

Cosa pensano allora di noi occidentali?
“Il più delle volte pensano che le nostre libertà sono eccessive. Se vengono in Occidente e vedono che noi donne qui godiamo di molti diritti e libertà non per questo ci apprezzano necessariamente. Anzi, a volte ci ritengono poco serie, quasi della prostitute”.

Cosa le attira allora del mondo occidentale?
“Sto generalizzando naturalmente perché non esiste un modello unico di donna o uomo saudita. Però in generale l’Occidente offre ottime scuole, grande preparazione e possibilità lavorative e questo attira anche se non si condividono i valori occidentali. Una donna mi ha detto: ʻQuando sono all’estero posso fare molte cose, e riconosco che le università che i miei figli e le mie figlie frequentano sono fantastiche. Ma non capisco la vostra cultura e soprattutto non approvo la libertà che viene concessa alle donne. Le ragazze escono con i ragazzi quando sono giovani, si vestono in modo sconveniente e magari rimangono incinte. Per noi è inconcepibile. Da noi la donna è considerata un bene prezioso, è protetta, trattata come un gioielloʼ. Oppure mi è capitato di parlare con una donna che aveva studiato in Occidente, aveva i suoi figli negli Stati Uniti però mi ha confessato di essere stata felice quando i terroristi – che ricordiamo erano per la maggior parte sauditi – hanno fatto crollare le Torri gemelle a New York. Insomma dobbiamo sempre ricordarci – e il discorso vale non solo per i sauditi ma per molta parte del mondo arabo – che il fatto che frequentino il nostro mondo non significa che ci sia apprezzamento o ammirazione”.

Nel suo libro colpiscono le tante regole, limitazioni, norme a cui devono sottostare le donne e in una certa misura anche gli uomini. Cosa, tuttavia, l’ha colpita positivamente dell’Arabia Saudita?
“La forza dei legami famigliari, l’ospitalità, ma soprattutto mi ha colpito positivamente la vivacità delle donne che ho incontrato, la loro energia positiva, il loro desiderio di emanciparsi pur rimanendo all’interno della loro cultura e della loro religione. Certo la strada è ancora lunga, oggi le donne possono guidare ma dipendono ancora per tutta la vita da un guardiano. Solo quando la figura del guardiano sarà abolita in Arabia Saudita allora le donne potranno considerarsi membri della società al pari degli uomini. Come, con quali tempi e se questo avverrà è tutto da vedersi”.


 

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Le difficoltà vanno abbracciate. Come sulla bici


di Marco Voleri (L’Avvenire, 5 luglio 2018)


Pietro era pronto a salire sulla sua bicicletta nuova fiammante, che desiderava da mesi. «Dobbiamo imparare ad andarci!», gli disse il padre. Scesero le scale di casa e andarono in un piazzale poco distante. «Pietro, sei pronto ad abbracciare la tua bici?». «Abbracciare?», chiese il bambino al padre, perplesso. Salì in sella e grazie all’aiuto delle ruote piccole cominciò a guidarla. «Bene Pietro! Adesso togliamo una ruota piccola». Il padre andò avanti con pazienza, finché non arrivò il momento di togliere tutte le protezioni. Pietro senza ruote piccole cadde più volte, arrabbiandosi. «Questa bici fa schifo, non ci salgo più!».
Gli scienziati ci dicono che il cervello insegue la comodità ma impara dalle difficoltà. Di fatto non c’è un metodo preciso per imparare ad andare in bicicletta: bisogna cadere per imparare a stare in equilibrio. La capacità di rimanere in piedi si acquisisce abbracciando la difficoltà, provando tutti i modi possibili per riuscirci. La fiducia in noi stessi non è un dono ma il frutto delle esperienze affrontate, il risultato dei piccoli o grandi problemi risolti.
Dall’altro lato del piazzale siedono madre e figlia di dieci anni. «Gilda, pouvez-vous me passer ce sac, s’il vous plaît?». «Sì mamma, eccola». Un’anziana signora di passaggio non riesce a trattenersi: «Che brava, così piccola sa già il francese?». «Da quando è nata le parlo in francese – risponde la mamma – e lei risponde in italiano. Poco male, una lingua in più l’ha imparata».
In mezzo a qualsiasi difficoltà si trova un’opportunità, ogni sfida è un modo per crescere. Per un bimbo è magari un gioco da vincere. Di fatto rispondere in italiano a una domanda fatta in un’altra lingua significa superare un ostacolo quotidiano, come se fosse un vero e proprio allenamento. La fatica e la costanza accresce in Evìta, dieci anni, la consapevolezza del proprio valore, giorno dopo giorno. Attraverso le asperità si arriva alle stelle, diceva Seneca. E noi cosa decidiamo di fare oggi? Siamo pronti ad abbracciare le nostre difficoltà?

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Donne e Arabia Saudita: non basta la patente


di Valeria Palumbo (La 27esima ora, 28 giugno 2018)


– «Ti ho amato al primo twit».

Ammetto che, di 400 pagine densissime e tutte da leggere di Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita (Morellini editore), la prima cosa che mi viene in mente è: «Ti ho amato al primo twit». Perché è forse l’espressione che, nell’indagine di Michela Fontana, matematica, saggista e giornalista, riassume meglio le contraddizioni e le difficoltà delle saudite (e, in parte, dei sauditi). Ovvero l’assurdità di una segregazione totale che non solo rende impossibili i rapporti tra i giovani (in un Paese giovanissimo) ma, di fatto, complica perfino la possibilità di sposarsi, obiettivo per il quale le ragazze vengono ancora educate. Al tempo stesso la diffusione di Twitter svela la scappatoia formidabile offerta, pur tra mille ostacoli, da Internet.

Orgoglio e pregiudizio
La situazione è paradossale perché ricorda incredibilmente quella dell’Inghilterra georgiana di Jane Austen, unita all’ossessione per “l’onore” di pirandelliana memoria e all’abbigliamento delle donne sarde ancora negli anni Sessanta. “Ricorda” non vuol dire che la situazione è uguale ma la somiglianza smonta un pregiudizio (loro e nostro). Ovvero che il mondo islamico non può vivere la progressiva conquista dei diritti umani e civili dell’Occidente, in particolare per quanto riguarda le donne, perché è “diverso”. Le donne Occidentali hanno subito gran parte dei soprusi che oggi opprimono le saudite. Fuori tempo massimo: secondo il World Economic Forum l’Arabia Saudita è al 138esimo posto su 144 nell’indice mondiale delle pari opportunità.

Il peso del guardiano
Così, se è vero che anche le italiane hanno avuto, fino al 1919, la tutela maritale, che non potevano testimoniare nelle cause di diritto civile fino alla riforma post-unitaria del 9 dicembre 1877, voluta da Salvatore Morelli, e che le antiche romane avevano un tutore per qualsiasi atto, proprio come le saudite oggi (teoricamente, le matrone dovevano pure uscire di casa velate), è anche vero che 2mila anni, come pure cento fanno la differenza. E un istituto surreale come quello del wali al-amr, del guardiano (padre, marito, fratello, figlio, zio…), che fino a qualche tempo fa autorizzava persino una donna ad andare in ospedale a partorire, appare fuori dal tempo in quasi tutto il mondo musulmano. E se è vero che una certa segregazione vale anche nel maggior e avversario dell’Arabia Saudita, l’Iran (dove le donne si battono ancora per andare allo stadio, al contrario delle saudite che possono farlo dal gennaio 2018), la totale divisione dei sessi è un ricordo a Teheran. E una realtà a Riad.

Un mondo di sole donne
Michela Fontana ha passato due anni e mezzo, dal luglio 2010 al dicembre 2012 a intervistare saudite di classi, età, istruzione, idee, inclinazioni diversissime. Ha potuto farlo proprio in quanto donna. Come già notava la scrittrice statunitense Edith Wharton in Harem, moschee e cerimonie (nella traduzione italiana di Editori Riuniti) gli uomini occidentali non sanno nulla degli harem e ci fantasticano su (con un buon grado di perversa fantasia) semplicemente perché non possono entrarci. In Arabia Saudita nemmeno le sale d’attesa degli ospedali sono miste. La segregazione è ossessiva ma, a spiega Fontana, così interiorizzata che spesso le saudite non ci fanno caso. Almeno le più anziane. Perché le giovani appaiono sempre più diverse: rappresentano, non a caso, il 58% della popolazione universitaria. Paradossalmente sono oggi spesso i padri a spingerle a studiare: una donna istruita può valere di più sul mercato matrimoniale.

Internet piace a progressisti e conservatori
Quello che appunto rende prezioso Nonostante il velo è il tempo che Michela Fontana ha dedicato agli incontri e anche la sua totale “laicità”, nel senso che ha accettato senza ribattere qualsiasi risposta (soprattutto i giudizi tranchant sulle donne occidentali), ha insistito davanti alle ritrosie, ha cercato di capire anche gli atteggiamenti più contraddittori. Che non mancano: la poligamia, molto diffusa, è sostenuta sul web da alcune ragazze istruite. La religione, onnipresente, non ha eliminato le credenze magiche. I social piacciono ai progressisti come ai conservatori. I divorzi sono diffusissimi e le single sono sempre di più. Ma spesso a rendere impossibile un matrimonio è il radicato razzismo tra tribù. La segregazione rende gli abiti sexy e i discorsi sul sesso ben più diffusi che tra noi. La maternità è un totem, ma il numero di figli è crollato. L’inglese è diffuso, come pure la tendenza di studiare all’estero. Ma alla fine i progressi che la società sta facendo, con la concessione della guida alle donne, la riapertura dei cinematografi e la nomina di alcune donne in posti di rilievo, sono dovuti a un principe ereditario, Mohammad bin Salman Al Saud, che ha studiato in patria.

Vision 2030
Condensare qui le 400 pagine di Michela Fontana senza banalizzare le risposte delle donne intervistate e senza dimenticare aspetti importanti (per esempio la violenza familiare, l’ipocrisia dei matrimoni “a termine”, la povertà diffusa, non soltanto tra vedove e divorziate) è impossibile. Una cosa è certa: rispetto al periodo della sua indagini anche l’Arabia Saudita è cambiata. Vision 2030, il programma reale di sviluppo, pur viziato da una caratteristica di fondo (il Paese è una monarchia assoluta ed è proprietà della famiglia regnante), sta imponendo mutamenti rapidi, anche in opposizione con una potentissima classe religiosa, quella degli ulema, che garantiscono da quasi cent’anni l’esistenza stessa del Regno. Per questo le saudite sanno che tutto può cambiare. O tutto può tornare indietro all’improvviso. È successo, in Iran, ma non solo. E, come diceva Primo Levi, se è successo può ancora accadere.


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Le donne arabe tra harem e futuro


(Repubblica, 26 giugno 2018)


Les Mots
Via Carmagnola angolo via Pepe ore 18.30.

È appena caduto il divieto di mettersi al volante, ma c’è ancora molta strada da fare per le donne dell’Arabia Saudita. Michela Fontana ne parla nell’inchiesta Nonostante il velo, nuova versione di un ebook VandAePublishing pubblicato ora in cartaceo da Morellini Editore. La giornalista, avendo vissuto e lavorato due anni e mezzo a Riad, è riuscita a conoscere dall’interno un Paese in cui fino a due giorni fa le donne da sole non potevano neanche portare i figli a scuola. Il libro descrive una società in bilico tra harem, divieti, regole e riforme per renderla più moderna. Con Valeria Palumbo.


 

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Intervista a Michela Fontana

Il 24 giugno è entrata in vigore la legge che permette alle donne dell’Arabia Saudita di sedersi al volante. Si tratta di un evento di portata epocale, per il quale le donne arabe si sono battute con forza, sfidando il potere degli uomini, dei propri padri, dei fratelli e dello stesso governo.

Michela Fontana, autrice di “Nonostante il velo“, ne ha parlato a Radio Capital: qui l’intervista (al minuto 1.46).

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Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita, di Michela Fontana


di Mimma Zuffi (Sognaparolemagazine, 10 giugno 2018)


Ha fatto una grande sensazione al mondo che da giugno 2018 le donne dell’Arabia Saudita potranno guidare un’auto: la rimozione del bando è solo una delle timide ma importanti aperture in un Paese celebre per la segregazione femminile.

Ha fatto una grande sensazione al mondo che da giugno 2018 le donne dell’Arabia Saudita potranno guidare un’auto: la rimozione del bando è solo una delle timide ma importanti aperture in un Paese celebre per la segregazione femminile.
Dietro la rigida cortina che separa le donne dal resto della società, sono proprio le donne a cercare di esprimere le più forti istanze di rinnovamento.
Nel corso di un soggiorno di due anni in Arabia Saudita la giornalista Michela Fontana ha avuto modo di conoscere e intervistare attiviste, donne d’affari, studentesse, scrittrici e di raccoglierne i pensieri, i sogni, le battaglie. Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita è un libro inchiesta di grandissima attualità per conoscere “dal di dentro” il cuore del più integralista paese islamico. Un paese in via di trasformazione con l’affermazione sulla scena politica del nuovo uomo forte del regno, l’erede al trono Mohammed Bin Salman, che ha, fra l’altro, intrapreso un significativo percorso di riforme sociali, alcune delle quali riguardanti proprio il mondo femminile.

«Negli anni vissuti a Riad ho scoperto che sempre più donne saudite si fanno protagoniste del loro destino. Non più rassegnate e sottomesse, ma attive ecoraggiose. […] Sono loro il tesoro nascosto del paese». Michela Fontana

In una società dove solo il 17% delle donne cerca un impiego, sono sempre più numerose quelle che superano le barriere della tradizione e si cimentano nelle professioni notoriamente esclusive del sesso maschile – architetto, finanziere, ingegnere, artista o scrittore – anche sfidando i pregiudizi (come dimostrano la partecipazione alla Biennale di Venezia o il successo del coraggioso libro Ragazze di Riad di Rajaa Alsanea), incoraggianti segnali di una presa di consapevolezza del proprio ruolo, ora non più strettamente legato al volere dell’uomo.

Il libro è una polifonia di voci, di storie uniche di donne di diverse provenienze sociali – donne d’affari, professioniste, islamiste o semplicemente figlie, mogli o madri -, ognuna con il suo vissuto sempre teso in una costante dicotomia tra libertà e restrizione.
Sono diciassette storie che indagano – e rappresentano – le diverse sfaccettature,talvolta contraddittorie, di una società in trasformazione, stralci di vita raccolti oltrepassando muri invalicabili, felici istantanee di sudate conquiste.

È altresì una consapevole presa d’atto di una situazione che, come ben illustra l’autrice, ha «rafforzato la convinzione che non si può chiedere a un popolo cresciuto in una cultura diversa dalla nostra di seguire una strada tracciata da altri. Né si può forzare la storia, che in ciascuna nazione deve fare il suo corso, con i suoi tempi».

«La piscina degli uomini è all’aperto, è più grande della nostra ed è bellissima, ma non te la posso mostrare» mi ha detto Sofia. E ha aggiunto, con civetteria, che quando viaggiava all’estero con il marito per le vacanze non era un problema per lei nuotare in bikini nelle piscine miste degli alberghi dove soggiornavano. – Harem

«Mio padre era molto religioso, ma non era un conservatore. A lui devo tutto, la mia istruzione e il mio coraggio. […] “Sii te stessa” mi ripeteva. È lui che ha indirizzato la mia vita. Avevo dieci anni, avevo appena finito la scuola religiosa e nessuno in famiglia voleva che continuassi gli studi, perché ero una donna. Allora lui mi ha rapito. Mi aveva iscritto a un collegio in lingua inglese senza dirlo a nessuno, nemmeno a me. […] Quando gli ho chiesto piangendo se avrei potuto vedere ancora la mamma mi ha detto che sarebbe trascorso molto tempo, ma che era per il mio bene, per avere una vita migliore della sua.»- Aisha: puttane e comuniste.

«Quando sono all’estero posso fare molte cose, e riconosco che le università che i miei figli e le mie figlie frequentano sono fantastiche. […] Ma non capisco la vostra cultura e soprattutto non approvo la libertà che viene concessa alle donne. Le ragazze escono con i ragazzi quando sono giovani, si vestono in modo sconveniente e magari rimangono incinte. Per noi è inconcepibile. Da noi la donna è considerata un bene prezioso, è protetta, trattata come un gioiello. Quando parlate di noi in Occidente vi preoccupate soltanto del velo e della guida, ma non sapete niente delle nostre tradizioni. Io non voglio che le donne guidino nel nostro paese perché è troppo pericoloso. Che bisogno c’è di guidare, è tanto comodo avere l’autista! E il velo io lo metto volentieri. È il mio modo di ringraziare Dio di avermi dato dei figli sani, Al Hamdulillah. (Grazie a Dio)!» – Oro nero: i ricchi

Michela Fontana, giornalista e saggista milanese, ha vissuto quindici anni tra Stati Uniti, Canada, Svizzera, Cina e Arabia Saudita. Il suo libro Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming (Mondadori, 2005), tradotto in francese, spagnolo e inglese, ha vinto il “Grand Prix de la biographie politique” nel 2010. Ha pubblicato inoltre Percorsi calcolati (1996) e Cina, la mia vita a Pechino (2010), entrambi con la casa editrice Le Mani.

 

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Evento – “Nonostante il velo” @Les Mots


Milano, 26 giugno 2018, h 18.30


– VandA.ePublishing e Morellini Editore presentano martedì 26 giugno, ore 18.30, Nonostante il velo di Michela Fontana.

 

Donne in Arabia Saudita
Il 24 giugno entrerà in vigore la legge che permetterà alle donne dell’Arabia Saudita di sedersi al volante. Si tratta di un evento di portata epocale, per il quale le donne arabe si sono battute con forza, sfidando il potere degli uomini, dei propri padri, dei fratelli e dello stesso governo.

Nel libro Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita pubblicato in co-edizione con Morellini Editore, l’autrice, Michela Fontana, ha raccolto diciassette significative testimonianze, storie uniche di donne di diverse provenienze sociali – donne d’affari, professioniste, islamiste o semplicemente figlie, mogli o madri -, ognuna con il suo vissuto sempre teso in una costante dicotomia tra libertà e restrizione. Sono storie che indagano – e rappresentano – le diverse sfaccettature, talvolta contraddittorie, di una società in trasformazione, stralci di vita raccolti oltrepassando muri invalicabili, felici istantanee di sudate conquiste.

 

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Rebecca Town in giro per l’Europa

(Thriller Magazine,  3 ottobre 2014)


– Stanno riscuotendo sempre più successo i romantic suspense in digitale con protagonista una moderna signora in giallo. Il genere romantic suspense sta conquistando fette sempre più ampie di lettori, e l’editoria digitale gli ha dato quelle possibilità di espressione che purtroppo il cartaceo troppo spesso nega.

Stanno riscuotendo sempre più successo i romantic suspense in digitale con protagonista una moderna signora in giallo. Il genere romantic suspense sta conquistando fette sempre più ampie di lettori, e l’editoria digitale gli ha dato quelle possibilità di espressione che purtroppo il cartaceo troppo spesso nega.

L’autrice torinese Manuela Siciliani sta portando  avanti per la VandA.ePublishing una serie di titoli  con protagonista Rebecca “Becky” Town: una versione moderna e digitale della Signora in Giallo. In attesa del nuovo titolo – Rebecca Town a Praga -ecco gli eBook usciti finora.

Il primo intricato caso di Becky segna l’esordio sulla scena del delitto di una splendida newyorkese, modaiola, acuta, passionale, dal passato tormentato e scrittrice di guide turistiche. Questo è infatti il primo di una serie di romanzi ambientato ogni volta in una città diversa, una città descritta come si confà a una guida: le tappe da non perdere, i locali più trendy ma anche quelli più de lati e che però meritano “una menzione”, i luoghi dello shopping, le strade, i cibi… Ogni luogo diventa così l’incantevole cornice ai misteri che Becky, detective per caso, si trova a risolvere. Una città, un delitto. Ma c’è anche la personale vicenda della nostra esuberante guida, che nel corso di ogni romanzo troverà l’amore, scoprirà la verità sulla misteriosa morte dei genitori e… chissà? A Parigi incontra il sexy Benjamin Green e l’ambigua Margareth Wallace, lanciandosi in una spirale di cospirazioni che coinvolgono l’ambasciata americana. E mentre a New York la sua amica Jessie e la zia Cecil la crederanno al sicuro nella romantica città, Becky, con l’aiuto di un ispettore francese che tanto ricorda il celebre Poirot, risolverà il caso, grazie soprattutto alla sua intraprendenza. Disponibile anche in versione cartacea (su Amazon).

Rebecca Town a Londra

Doppia indagine è il secondo romanzo della serie che ha come protagonista Rebecca Town, detta Becky. Una splendida newyorkese, modaiola, acuta, passionale, dal passato tormentato e scrittrice di guide turistiche. Ogni romanzo è ambientato in una città diversa, una città descritta come si confà a una guida: le tappe da non perdere, i locali più trendy ma anche quelli più de lati e che però meritano “una menzione”, i luoghi dello shopping, le strade, i cibi… Ogni luogo diventa così l’incantevole cornice ai misteri che Becky, detective per caso, si trova a risolvere. Una città, un delitto. Ma c’è anche la personale vicenda della nostra esuberante protagonista.
Dopo il successo della guida viaggio su Parigi, la Writers & C. le a da una nuova meta turistica: Londra, una delle città più cool e trendy d’Europa. Londra è però la città natale di Becky, da cui è stata allontanata quando aveva quindici anni, in seguito alla morte dei genitori, e dove incontra il resto della sua famiglia. Qui riscopre i luoghi tanto amati da bambina, fish and chips…
Ma Becky non sarebbe Becky senza la sua curiosità innata che la trasforma in detective. Non si tratta solo di scoprire come sono morti i suoi genitori (è stato davvero un incidente?), un omicidio viene consumato proprio nel ristorante del futuro marito della cugina Emma. In suo aiuto verrà Luke Logan, intrigante figlio dell’ispettore. Riuscirà il giovane Luke a farle dimenticare il sexy Ben, che ha tinto di rosa il suo soggiorno parigino?

Rebecca Town a Roma

Passione e mistero è il terzo romanzo della serie che ha come protagonista Rebecca Town, detta Becky. Una splendida newyorkese, modaiola, acuta, passionale, dal passato tormentato e scrittrice di guide turistiche. Ogni romanzo è ambientato in una città diversa, descritta come si confà a una guida: le tappe da non perdere, i locali più trendy ma anche quelli più de lati e che però meritano “una menzione”, i luoghi dello shopping, le strade, i cibi… Ogni luogo diventa così l’incantevole cornice ai misteri che Becky, detective per caso, si trova a risolvere. Una città, un delitto. E poi c’è la personale vicenda della nostra esuberante guida.
Cupido aveva fatto scoccare la sua freccia nella romantica Parigi, e Becky e Ben erano entrati prepotentemente nella vita uno dell’altra. Si erano però lasciati male. A Londra una telefonata di Ben aveva schiarito il cielo sopra una Becky arrabbiata dopo l’inaspettata verità sulla morte dei suoi genitori.
Nello scenario della caput mundi, al colmo della felicità per un sogno d’amore che sembra essere divenuto finalmente realtà, mentre è intenta ad ammirare la Cappella Sistina, un uomo si accascia privo di vita sotto gli occhi di Becky. All’apparenza una morte naturale. Le indagini sono presto ostacolate dall’alto, ma non sarà questo a rendere la nostra protagonista sempre più inquieta. Dubbi e paure pian piano l’assalgono, finché il suo fiuto da detective la mette di fronte a una scelta difficile, quella tra l’uomo che ama e l’amore per la verità. Quale dei due sceglierà Becky?

Manuela Siciliani è nata a Torino nel 1978. Laureata a Milano in Relazioni Pubbliche, oggi vive a Sanremo. Mamma e moglie prima di tutto, fa l’agente di viaggi per passione e scrive per diletto. Rebecca Town, la protagonista dei suoi romanzi, vi porterà alla scoperta di meravigliose città dove, suo malgrado, si troverà a risolvere complicati casi di omicidio. Il tutto condito da leggerezza e love story.


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Eppure c’era metodo nella sua follia


di Serena Guarracino (Leggendaria, maggio 2018)


– Trilogia S.C.U.M. ripropone i testi della femminista passata alla storia per aver quasi ucciso Andy Warhol nell’ambito della guerra dichiarata ai maschi. Ma Solanas ha molte cose da dire anche al femminismo di oggi.

La settima puntata della serie televisiva American Horror Story: Cult, dal titolo Valerie Solanas è morta per i nostri peccati, ripercorre la vita dell’attivista e scrittrice americana; interpretata qui da Lena Durham, a sua volta attivista femminista nella Hollywood contemporanea, la Valerie tradotta nel linguaggio pop barocco della serie tv riprende e problematizza lo stereotipo della femminista squilibrata che odia gli uomini, di cui pianifica l’estinzione insieme alla sua setta (il cult, tema centrale della stagione), la S.C.U.M. o Società per l’Abolizione del Maschio. Ma il disagio mentale di Valerie impedisce il compimento del piano e porta allo sgretolamento della setta: al fondo della sua discesa nel delirio paranoico, l’attivista si trova faccia a faccia con la visione di un Andy Warhol irritante e compiaciuto, che le rinfaccia che l’unica cosa per cui sarà mai ricordata è di avergli sparato, senza peraltro ucciderlo, quel 3 giugno del 1968.

Trilogia SCUM, volume che per la prima volta raccoglie in italiano i testi fondamentali di Solanas, si confronta sin dall’inizio con lo stereotipo quasi fumettistico di questa autrice «impudente, incendiaria, rabbiosa e tragicamente comica», come la definisce Stefania Arcara in apertura della sua ricchissima introduzione al testo. Questa raccolta registra il bisogno attuale di rileggere Valerie Solanas e di emanciparla dalla narrazione egemonica che la riduce al gesto fallito di ribellione contro il sistema. Operazione che però offre il fianco a un altro rischio, quello di guardare a Solanas in maniera nostalgica rendendola una martire dell’ineguaglianza di genere, morta davvero “per i nostri peccati” in solitudine e miseria in una stanza del famigerato Bristol Hotel di San Francisco. Ma Trilogia SCUM evita anche questa trappola rendendo giustizia alle molte sfumature della sua scrittura, e soprattutto all’intreccio paradossale di rabbia e ironia caustica che permette oggi di leggerla come una delle voci più dirompenti del femminismo occidentale.

Il volume offre tre testi fondamentali per indagare il suo pensiero e la sua influenza sulle diverse anime del femminismo contemporaneo. Il primo è il Manifesto scum, privato di quel valore di acronimo (Society for Cutting Up Men) mantenuto dall’altra traduzione disponibile in italiano (S.C.U.M. Manifesto per l’eliminazione del maschio, trad. di Adriana Apa, L’Ortica 2010) e che è invece il risultato di un intervento dell’editore Maurice Girodias per l’edizione del 1968. Il testo era già stato pubblicato indipendentemente nel 1967 dall’autrice, che ne vendeva le copie per strada nel Greenwich Village di New York, al prezzo di un dollaro per gli uomini e di venticinque centesimi per le donne; Solanas lo ripubblica poi nel 1977, ed è su questa versione che si basa la traduzione (con il testo originale a fronte) inclusa in Trilogia SCUM.

Letto attraverso il filtro delle diverse ondate di femminismo che ci separano e allo stesso tempo ci riconducono da Solanas – come dimostrano le introduzioni approfondite e ben documentate delle curatrici Stefania Arcara e Deborah Ardilli – oggi il Manifesto SCUM dimostra un’attualità non scontata tratteggiando un mondo ribaltato in cui le donne utilizzano gli strumenti inventati dagli uomini, come la tecnologia e le armi, per liberarsi finalmente di questo «incidente biologico» che è il maschio e di tutte le formazioni socioculturali che ha prodotto, dall’istituzione matrimoniale al sistema bancario. La sua struttura retorica si basa sul rovesciamento parodico delle attribuzioni essenzialiste di date caratteristiche esclusivamente a uno dei due generi sessuali: se la società che oggi definiremmo etero-patriarcale confina le donne in un orizzonte limitato, sostiene Solanas, è perché il maschio vuole «rivendica[re] come proprie tutte le caratteristiche femminili – forza e indipendenza emotiva, energia, dinamismo, risolutezza, disinvoltura, obiettività, assertività, coraggio, integrità, vitalità, intensità, profondità di carattere, fascino e così via, e proietta[re] sulle donne tutti i tratti maschili – vanità, frivolezza, banalità, debolezza e così via».

La strategia del rovesciamento, tuttavia, non risulta in una celebrazione acritica del femminile. Non solo il Manifesto identifica anche tra le donne le nemiche del nuovo ordine SCUM (letteralmente «feccia») – in particolare le «garbate Figlie di Papà, passive, accomodanti, ‘colte’ […], mentecatte, insicure, avide di approvazione»; ma soprattutto Solanas tocca una nota estremamente attuale per il dibattito femminista contemporaneo, così diviso sulle questioni della gravidanza per altri e della maternità biologica. Il Manifesto propugna infatti l’emancipazione delle donne dal lavoro riproduttivo mediante la tecnologia: «la risposta è la riproduzione artificiale dei bambini». La maternità, nel Manifesto, è infatti sempre rappresentata esclusivamente come lavoro, uno dei tanti modi in cui la ricchezza del femminile viene messa a valore nel sistema socio-economico capitalista, nonché base di quello che la teoria queer (da Lee Edelman a Jack Halberstam) chiamerà poi «futurismo riproduttivo», l’ipoteca del desiderio presente in nome della felicità futura. Nel suo stile dissacrante e provocatorio, Solanas pone la domanda che anche oggi, a cinquant’anni di distanza, ben poche sono in grado di proferire: «Perché dovrebbe importarci di quello che accadrà quando saremo morte? Perché dovrebbe importarci se non ci sarà una generazione più giovane a succederci?».

La rivoluzione parte quindi dal rifiuto del lavoro o meglio dallo «slavoro», neologismo che per Solanas indica il rifiuto di partecipare all’economia oppressiva capitalista e patriarcale. Contro la retorica della forza-lavoro Solanas propone infatti la «forza-slavoro […] la forza che fotte il sistema» inceppandone il ciclo di produzione e riproduzione fino al collasso. Protagoniste di questa rivoluzione sono le «femmine SCUM», «le femmine dominatrici, determinate, sicure di sé, cattive, violente, egoiste, indipendenti, orgogliose, avventurose, sciolte, insolenti, che si considerano adatte a governare l’universo». L’aggettivazione ipertrofica, una delle caratteristiche più macroscopiche dello stile di Solanas a cui la traduzione rende il giusto merito, fa sì che il testo proceda quasi per associazioni libere, attivando un processo che più che alle facoltà razionali fa appello all’inconscio. In questo modo, attraverso il sorriso sollecitato dall’ironia e dal paradosso, il Manifesto accompagna lettrici e lettori verso una consapevolezza degli orrori del presente che, nonostante i cinquant’anni passati dalla sua scrittura, suonano terribilmente attuali.

Prendiamo per esempio l’affermazione «il maschio è per sua natura una sanguisuga, un parassita delle emozioni e perciò non ha un diritto morale a vivere, giacché nessuno ha il diritto di vivere a spese di qualcun altro». Il testo sfrutta la generalizzazione biologico-sociale («il maschio») per generare una risposta dissociativa in chi legge («non tutti i maschi!», penseranno lettrici e lettori benintenzionati). La conclusione assume però un’evidenza catastrofica, che riporta alla mente i numerosi femminicidi a cui assistiamo quasi quotidianamente e che sono ben rievocati da quei «momenti di tregua» descritti da Solanas, momenti che il maschio ricerca ma «che possono essere raggiunti soltanto a spese di qualche femmina». L’unica risposta possibile a questa minaccia continua è lo slavoro anche emotivo, il rifiuto di fungere sostegno per una soggettività insicura e violenta ossia, per Solanas, per il maschio.

Prototipo della nuova posizionalità psicologica e socio-economica della «femmina SCUM» è Bongi Perez, protagonista di In culo a te, testo teatrale che ha visto le scene solo nel 2000 e che vedrà presto una messa in scena a cura di Nicoleugenia Prezzavento, che ne cura la traduzione. Questo testo e il breve Come conquistare la classe agiata. Un prontuario per fanciulle fanno da corollario alla lettura del Manifesto e ne illuminano alcuni passaggi fondamentali con il loro stile a metà tra l’anti-naturalismo e l’autobiografia: Bongi, accattona, barbona, prostituta, è in buona parte un surrogato dell’autrice, così come lo è voce narrante del Prontuario che racconta delle sue strategie di accattonaggio, «un’occupazione estremamente remunerativa, dai grandi stimoli creativi e fortemente incentrata sulle relazioni interpersonali […] un’occupazione, dunque, perfetta per la sensibilità femminile». Entrambi i testi offrono anche una panoplia di personaggi/e tra i più svariati/e: in particolare In culo a te presenta uno stuolo di uomini (il Tipo Bianco e il Tipo Nero, il cliente Alvin e l’artista Russell) tutti mediamente ripugnanti, nonché Ginger, Figlia di Papà a cui Solanas dona una delle battute più memorabili: «è universalmente noto che gli uomini hanno tanto più rispetto per una donna quanto più questa eccelle nel mangiare merda».

Trilogia SCUM si chiude con una ricca appendice in cui le curatrici raccolgono tributi e opere ispirate all’attivista americana dalla sua morte fino al 2016. Tra esse manca American Horror Story: Cult, uscita nel 2017, che pur nella rappresentazione stereotipa della sua figura, ne recupera la potenzialità creativa: la setta di donne SCUM è infatti l’unica a sopravvivere a tutte quelle fondate da leader maschi come, per esempio, David Koresh e Charles Manson. La sopravvivenza di Solanas resta il segno di un tempo difficile, ma anche pieno di possibilità, per il femminismo contemporaneo: ed è significativo che il suo lavoro riemerga oggi, a cinquant’anni da quel ’68 ormai soggetto a un impietoso revisionismo, grazie al lavoro di studiose che non temono a confrontarsi con questa autrice anticonformista e difficilmente irreggimentabile ma che invece la offrono a lettrici e lettori come chiave di lettura imprescindibile per il presente.

 


 

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Patriarcato, lotte e diritti: il femminismo secondo Daniela Pellegrini


di Michela Pagarini (Lettera Donna, 24 maggio 2018)


– È stata una delle prime in assoluto in Italia, quando un giorno del ’64 convocò una riunione di donne. Dall’utero in affitto a #MeToo, intervista a una pioniera.

«In molti miti e racconti il patriarcato è nato dopo anni di prevalenza del femminile. Gli uomini a un certo punto hanno cominciato ad innervosirsi e alla fine hanno ribaltato gli equilibri di potere».
Cinquantaquattro anni di femminismo attivo alle spalle, tre libri di cui due autoprodotti, un gruppo di autocoscienza che ha fondato e che da quattro anni si incontra alla Casa delle Donne di Milano e una presenza quotidiana su Facebook, dal quale racconta in pillole la sua visione del mondo. Daniela Pellegrini – fondatrice del Demau, uno dei primi gruppi femministi italiani e più tardi – insieme a Nadia Riva – del circolo delle donne Cicip & Ciciap a Milano – una vita intera dedicata e immersa nella passione femminista, non ci gira intorno e sempre di più sogna «un risveglio collettivo delle donne, che le renda libere prima di tutto dalla fascinazione del maschile e dalle sue scale di valori». Come si può riassumere la differenza fra i generi? «Semplice: da sempre le donne rischiano la morte per dare la vita. Gli uomini, invece, rischiano la vita per dare la morte». Con Daniela, in libreria con La materia sapiente del relativo plurale, abbiamo parlato delle lotte del ’68, ma anche di utero in affitto e ovviamente #MeToo.

DOMANDA: Lei è una delle femministe più longeve d’Italia, come è iniziato il suo percorso?
RISPOSTA: 
Da giovanissima mi angosciava molto il mio destino. La specie umana, con i suoi meccanismi violenti e le logiche di sopraffazione su tutto e tutti, ma essenzialmente sulle donne, non mi sembrava il posto adatto a me. «Cosa ci faccio qui, cosa c’entro con questa umanità?», mi chiedevo con inquietudine. La mia visione del futuro era così opprimente che, mentre crescevo, ho pensato spesso al suicidio perchè non vedevo alcuna collocazione felice né come essere umano né, men che meno, come donna.

D: E poi cos’è successo?
R:
 Dopo tanto riflettere, nel 1964 ho avuto l’intuizione di convocare una riunione di donne, le uniche con cui sentivo di avere un terreno comune da cui partire a riflettere. È nato così il primo gruppo femminista in Italia: Il suo nome era DACAPO (Donne a Capo). Quel gruppo è stata la mia salvezza.

D: Perché?
R: Col senno di poi, credo che non sarebbe potuto andare diversamente: per come mi sentivo e per come vedevo il mondo, l’unica cosa possibile per me era cambiarlo, o almeno provarci. E così ho fatto.

D: E vi ha dedicato praticamente tutta la vita.
R: Molte donne l’hanno fatto oltre a me, anche se io certamente sono una delle più vecchie. Ma come avrei potuto farne a meno? È il senso stesso della mia esistenza ad essere messo a tema. È l’unica passione che mi ha preso davvero nella vita, ed è anche rassicurante, perchè ho sempre pensato che sarà il soggetto donna a dare un altro significato all’esistenza della specie. Su questa convinzione ho basato tutte le mie passioni e, ahimè, da lì sono derivati anche tutti i miei dolori.

D: Per esempio?
R: 
L’inizio dell’inquinamento patriarcale. Oggi si dice che tutto è partito dal ‘68? Molte donne che avevano appena cominciato ad interrogarsi e riflettere, soprattutto attraverso l’autocoscienza – che si faceva in condizioni di intimità nelle nostre case, sono fuggite davanti all’invasione delle donne attiviste, ai loro toni, alle piazze. Dal ‘68 in poi fu chiara la differenza enorme che c’era tra la politica delle donne e quella tradizionale della delega. Le «compagne» contavano sulla complicità dei compagni di altro percorso, evidentemente supponendo che un movimento avrebbe appoggiato l’altro.

D: E invece non ha funzionato…
R: No, perché la commistione distraeva le donne e sottraeva forze ai nostri obiettivi più specifici e soprattutto dalle nostre pratiche, che si stavano ancora strutturando. E infatti alla lunga la presenza delle sessantottine ha sbilanciato completamente il movimento delle donne, a cui prima di quel momento partecipavano anche quelle non politicizzate, le casalinghe e quelle senza riferimenti precisi. Tutte sparite, dopo quella fase. Dopo quel passaggio il movimento ha perfino cambiato nome: ha preso a chiamarsi femminismo quando dalle case siamo scese nelle piazze.

D: Ve ne siete accorte solo a posteriori?
R:
 No anzi, lo vedevamo chiaramente, tant’è che all’inizio (io ma anche altre due pioniere come Carla Lonzi e Serena Castaldi) non accettavamo nemmeno che entrassero nei nostri gruppi donne che militavano contemporaneamente in ambiti misti. Se volevano stare con noi, allora dovevano abbandonare l’attività con gli uomini. Quella sì era radicalità di scelta politica e di movimento, oggi non credo esista più niente di simile, e mi piacerebbe ricostruirla.

D: Cosa facevate, su cosa vi interrogavate?
R: 
La nostra modalità principale di confronto era l’autocoscienza, pratica che tutt’oggi ritengo ancora necessaria per mettere in luce i meccanismi del patriarcato e ciò che hanno prodotto. Ci siamo tutti convinti che il mondo si divida in opposti che o si attraggono o si uccidono, una visione che contempla solo la possibilità di essere alleati o nemici e che prevede sempre e solo un vincitore e un vinto. È un’idea del mondo che purtroppo è diventata anche la base del movimento delle donne, ma per quanto mi riguarda è soltanto la base del grande bluff del patriarcato.

D: Che sarebbe?
R: Tutto ciò che è stato elaborato ed è substrato delle nostre vite si basa sul fatto che metà dell’umanità ha preso il potere, basando il suo predominio sulla denigrazione, l’espulsione e lo sfruttamento dell’altra metà e prendendo potere sulla materia e sui corpi, attuandone poi la separazione forzata dal pensiero. Anche termini banali come maschile e femminile per esempio, concorrono a questo meccanismo, perché si portano dentro tanti e tali stereotipi imposti che inevitabilmente si finisce in un braccio di ferro.

D: Come si cambia la narrazione di un’intera realtà?
R:
 Bisogna sfatare il mito del leader e l’idea che sia forte chi ce l’ha più duro. Oggi, per esempio, moltissime donne vogliono risultare vincenti, un concetto tipicamente legato al potere e alla viriltà dal quale spesso originano anche scelte disastrate e disastrose per loro stesse. Per inseguire quelle scale di valori è necessario infatti deformare di parecchio il concetto di autodeterminazione, fino ad arrivare alla svalorizzazione di sé e ad accettare che il proprio corpo venga sfruttato e la propria esistenza posseduta o governata da altri.

D: Si riferisce a questioni come la gestazione per altri? Che ne pensa?
R: 
Beh, anche quella. Cosa posso dirti? Capisco ma non intendo (ride), mi è difficile entrare in una critica vera e propria di questa questione, almeno per come viene posta normalmente, perché non è niente di nuovo, anzi. La retorica del dono d’amore (il figlio) al maschio, è sempre stato il violino suonato dal patriarcato alle donne, esiste da secoli. Adesso, semplicemente, il dono non è più al maschio prescelto ma a chiunque si prenda quel potere o trovi il modo di farselo dare. Ora è sempre più accettata la loro monetizzazione: il denaro sostituisce e cancella la sacralità dei corpi, la relazione e il senso del rispetto.

D: Insomma una donazione un po’ coatta.
R:
 È sempre stato così, perché diciamo la verità: non tutte le donne desiderano partorire e non credo che tutti gli uomini vogliano inseminare qualcuno, anche se si dà per scontato il contrario. La procreazione tradizionale prevede due parzialità che si devono mettere insieme per poter fare un figlio, tentare altre vie implica la scelta di un rapporto di potere anziché la scelta di una relazione autentica. Ed è qui che secondo me c’è il nodo di tutto, la dipendenza che ogni relazione mette in atto e che nella famosa scala di valori patriarcale non è contemplata. Va rivalutata e accolta invece, e bisogna farla diventare un valore anziché una sudditanza.

D: E come si fa?
R:
 Beh, basta accettare che nessuno può vivere senza dipendere da tutto il resto, la materia vivente è legata indissolubilmente a tutte le altre materie, dalle piante alle api, dalle quali dipende la nostra sopravvivenza. Ecco perciò l’importanza anche del linguaggio, altro punto caro al femminismo: quanto ci piace pensare di non dipendere da nessuno? Smettiamola di raccontarci storie: non è possibile.

D: Men che meno nell’autonomia fra uomini e donne?
R: 
Ho letto da qualche parte che nei ventri tutti i feti all’inizio partono come XX, e questo mi fa ben sperare che questo femminile alberghi e rimanga anche nei DNA che poi si trasformano in XY. Siamo tutte e tutti pieni di cromosomi misti, nessuno è puro, né nel sesso né nel pensiero. Data quest’evidenza, vorrei allora che emergesse ciò che c’è di buono in questa base comune e che ci aiutasse ad accettare tutte le nostre parzialità. Le differenze ci sono e ci saranno sempre, non serve definirle, combatterle o imporle, che senso ha basarvi un intero sistema esistenziale?

D: Come facciamo ad analizzarle, essendovi immerse?
R: Il separatismo è un altro strumento molto utile in questo senso, perché permette di individuare e assumersi la responsabilità del doppio che ognuno di noi ha dentro di sé. Così come mi piace pensare che in ogni uomo ci sia un po’ di quella doppia X femminile originaria, altrettanto so che in ogni donna alberga la cultura patriarcale in cui siamo cresciute.

D: E quando i contesti separati si dividono, come nel caso dei diversi femminismi?
R:
 Il concetto di femminismi è la negazione stessa del femminismo, che ha sempre avuto una base unica e comune da scardinare, il patriarcato e la cultura che ne deriva, basata su contrapposizioni e abusi. Nel movimento delle donne peraltro era già prevista ogni differenza individuale, libertà di pensiero, opinione e diversità, perché ognuna aveva come mandato, ancora prima della battaglia sociale, l’attenzione alla propria autenticità. Perciò il termine femminismi per me non ha senso, riporta tutto alle contrapposizioni e alle differenze.

D: I famosi conflitti fra donne… che si fa?
R:
 La cosa più semplice è ricominciare a fare autocoscienza, che si differenzia da tutti gli altri modi di parlare e confrontarsi grazie alle sue basi di ascolto e non giudizio. Ti insegna a riportare tutto a te e alle tue contraddizioni, abbatte le distanze con le altre donne e ti mette dentro di te anche quando discuti di qualcosa di apparentemente esterno. Senza queste modalità si arriva a poco, ma può essere molto difficile riuscirci, perché significa mettersi in discussione davvero nel profondo, soprattutto sui propri traguardi. Per me non si è mai arrivate a un punto di arrivo.

D: Parliamo di #MeToo e delle denunce che si levano da molti settori: qualcosa sta cambiando?
R:
 Sta mutando la consapevolezza dei danni che fa questa cultura, ma mi sembra che ancora non si mettano in risalto le basi su cui poggia questo potere di fare malversazioni sulle donne. Sono avvisaglie di un inizio, dall’Ottocento a ora ci sono stati miglioramenti, almeno qui da noi, ma per ora mi sembrano rimanere all’interno di un paradigma che non viene nominato. Se non cambia il sistema, se non cambiano le donne, non cambieranno nemmeno gli uomini, al massimo ci staranno un po’ più attenti.

D: Insomma dobbiamo cambiare ancora noi…
R: Beh sì. Qualche tempo fa ho assistito all’entusiasmo di un gruppo di donne per una rappresentazione dell’Otello, erano davvero ammirate, bei costumi, bella regia. Però io dico: è una rappresentazione storica e «artistica» del femminicidio, nella quale si dice che è giusto che Otello sia geloso e che lui abbia il potere di uccidere Desdemona. Da secoli le donne assistono a questa rappresentazione, applaudendola e finanziandola perché opera di un genio, senza riflettere sui suoi contenuti e messaggi. Questa è la fascinazione del maschile che dobbiamo combattere o certe cose non cambieranno mai.

D: La strada è ancora lunga, insomma.
R:
 Sono ottimista. A parte certe donne acute che sono sempre esistite, il femminismo è assai giovane e non si può pensare che in pochi anni possa cancellare e superare tutti i secoli di patriarcato che abbiamo sulle spalle e tutti questi crimini che vengono perpetrati contro di noi (e contro altri uomini) da secoli.

D: La politica può aiutare?
R:
 Una volte le femministe non dialogavano volentieri con la politica, nell’idea che un sistema a misura d’uomo non potesse essere utile per scardinare quel sistema stesso. Oggi invece c’è la corsa, tutte vogliono esserci, e allora penso che chi ci crede dovrebbe unirsi alle altre e fare un partito di donne, o come pensano di fare un cambiamento insieme a chi non vuole cambiare? Non credo sia la strada adatta agli obiettivi del femminismo, ma posso capire chi vi punta per cambiare leggi che vietano libertà alle donne o al contrario costringono loro a cose che non desiderano.

D: Quindi non condivide la politica come mezzo ma ne comprende il desiderio?
R: 
Credo sia inevitabile, a un certo punto, desiderare di entrare all’interno di quel potere di cui cerchiamo di smontare dalle basi. Una volta provata l’ebbrezza di aver partecipato o vinto una battaglia, è difficile rinunciarvi. Tale gioia ti incastra nella contraddizione tra il volerci essere ancora e il desiderio di provare altre vie per cambiare la situazione. Questa è la cosa che mi fa soffrire di più: non poter fare a meno di queste gioie che da, un lato ti nutrono e dall’altro ti mantengono dentro quella situazione, impedendoti di uscirne. Ma provo rabbia, perché mi rendo conto che poggia su basi infide, di cooptazione.

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Per concludere ecco la risposta dell’autrice: «GRAZIE Michela, sei riuscita a rendere lievi anche le mie durezze e fierezze così come la mia radicale anima di donna con le donne… L’hai fatto anche per riuscire a farmi ascoltare da chi non mi conosce ma può intendere… SONO FELICE che questo faccia parte della relazione che con te ho potuto e voluto avere. Riconoscersi perfino nelle diversità tra noi (e con le altre donne) che tu riesci a mettere “a” contatto e  “in” contatto é il vero piacere che sanno esprimere i corpi di donna… e su cui un nuovo paradigma dei rispetti può iniziare».

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Novità – Nonostante il velo (nuova edizione)

NONOSTANTE IL VELO
di Michela Fontana
416 pp. – 17,90 € | ebook 7,99 €
VandA.ePublishing in collaborazione con Morellini Editore
da oggi in libreria

Ha fatto grande sensazione nel mondo la notizia che da giugno 2018 le saudite potranno guidare l’auto: la rimozione del bando è solo una delle timide ma importanti aperture in un Paese ben noto per la segregazione della donna.

Dietro la rigida cortina che separa la parte femminile dal resto della società, sono proprio le donne a esprimere le più forti istanze di rinnovamento.

Nei due anni di soggiorno in Arabia Saudita, la giornalista Michela Fontana ha avuto modo di conoscere e intervistare attiviste, donne d’affari, studentesse, scrittrici e di raccoglierne i pensieri, i sogni, le battaglie. Nonostante il velo è un libro inchiesta di grandissima attualità per conoscere “dal di dentro” il cuore del più integralista paese islamico. Un regno che sembra essere sulla via del cambiamento dopo l’affermazione sulla scena politica del nuovo uomo forte, l’erede al trono Mohammed Bin Salman, che fra le altre cose ha intrapreso un significativo percorso di riforme sociali, alcune delle quali riguardanti il mondo femminile.

«Negli anni vissuti a Riad ho scoperto che sempre più donne saudite si fanno protagoniste del loro destino. Non più rassegnate e sottomesse, ma attive e coraggiose. […] Sono loro il tesoro nascosto del paese». Michela Fontana

In una società dove solo il 17% delle donne cerca un impiego, sono sempre più numerose quelle che superano le barriere della tradizione e si cimentano in professioni notoriamente esclusive del sesso maschile – architetto, finanziere, ingegnere, artista, scrittore –, come dimostrano la partecipazione alla Biennale di Venezia o il successo del coraggioso libro Ragazze di Riad di Rajaa Alsanea, incoraggianti segnali di una presa di consapevolezza del proprio ruolo, ora non più strettamente legato al volere dell’uomo.

Il libro è una polifonia di voci di donne di estrazioni sociali diverse – donne d’affari, professioniste, islamiste o semplicemente figlie, mogli o madri –, ognuna con il suo vissuto sempre teso in una costante dicotomia tra libertà e restrizione. Diciassette storie che ritraggono le molteplici, e talvolta contraddittorie, sfaccettature di una società in trasformazione, stralci di vita raccolti oltrepassando muri invalicabili, felici istantanee di sudate conquiste. Una presa d’atto, quella dell’autrice, di una situazione che ha «rafforzato la convinzione che non si può chiedere a un popolo cresciuto in una cultura diversa dalla nostra di seguire una strada tracciata da altri. Né si può forzare la storia, che in ciascuna nazione deve fare il suo corso, con i suoi tempi».

«“La piscina degli uomini è all’aperto, è più grande della nostra ed è bellissima, ma non te la posso mostrare” mi ha detto Sofia. E ha aggiunto, con civetteria, che quando viaggiava all’estero con il marito per le vacanze non era un problema per lei nuotare in bikini nelle piscine miste degli alberghi dove soggiornavano.» – Harem

«“Mio padre era molto religioso, ma non era un conservatore. A lui devo tutto, la mia istruzione e il mio coraggio. […] ‘Sii te stessa’ mi ripeteva. È lui che ha indirizzato la mia vita. Avevo dieci anni, avevo appena finito la scuola religiosa e nessuno in famiglia voleva che continuassi gli studi, perché ero una donna. Allora lui mi ha rapito. Mi aveva iscritto a un collegio in lingua inglese senza dirlo a nessuno, nemmeno a me. […] Quando gli ho chiesto piangendo se avrei potuto vedere ancora la mamma mi ha detto che sarebbe trascorso molto tempo, ma che era per il mio bene, per avere una vita migliore della sua.» – Aisha: puttane e comuniste

«“Quando sono all’estero posso fare molte cose, e riconosco che le università che i miei figli e le mie figlie frequentano sono fantastiche. […] Ma non capisco la vostra cultura e soprattutto non approvo la libertà che viene concessa alle donne. Le ragazze escono con i ragazzi quando sono giovani, si vestono in modo sconveniente e magari rimangono incinte. Per noi è inconcepibile. Da noi la donna è considerata un bene prezioso, è protetta, trattata come un gioiello. Quando parlate di noi in Occidente vi preoccupate soltanto del velo e della guida, ma non sapete niente delle nostre tradizioni. Io non voglio che le donne guidino nel nostro paese perché è troppo pericoloso. Che bisogno c’è di guidare, è tanto comodo avere l’autista! E il velo io lo metto volentieri. È il mio modo di ringraziare Dio di avermi dato dei figli sani, Al Hamdulillah (Grazie a Dio)!”» – Oro nero: i ricchi

Michela Fontana, giornalista e saggista milanese, ha vissuto quindici anni tra Stati Uniti, Canada, Svizzera, Cina e Arabia Saudita. Il suo libro Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming (Mondadori, 2005), tradotto in inglese, francese e spagnolo, ha vinto il “Grand Prix de la biographie politique” nel 2010. Ha pubblicato inoltre Percorsi calcolati (1996) e Cina, la mia vita a Pechino (2010), entrambi con la casa editrice Le Mani.


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Intervista – La buona moneta

Pierangelo Dacrema è stato ospite lunedì 14 maggio a TGR Piazza Affari: ha parlato di economia e del suo libro La Buona Moneta. Come azzerare il debito pubblico ed essere felici (o solo un po’ meglio) pubblicato da VandA ePublishing in collaborazione con Edizioni All Around.

Qui l’intervista.


La buona moneta
Le dimensioni del debito pubblico italiano sono un fattore di rischio che ostacola qualunque politica di sviluppo della nostra economia. Un problema annoso, tema di dibattito e di scontro a ogni vigilia del voto.
Le politiche di austerità volte ad arginare il debito si sono rivelate inefficaci, oltre che dolorose. In un’Italia afflitta da disoccupazione e vaste sacche di indigenza occorrono provvedimenti adatti a promuovere consumi, investimenti, occupazione e reddito. E il loro ineludibile presupposto è la disponibilità di moneta.
Ma come procurarsela in presenza di un debito pubblico abnorme e di regole europee che ne impongono il drastico ridimensionamento?
L’unica risposta a esigenze così contrastanti è che il nostro debito pubblico venga rimborsato con una nuova moneta nazionale a corso forzoso. In più occasioni, Lega e M5S hanno preso le distanze dall’euro e caldeggiato la creazione di una moneta italiana. La posizione di Pierangelo Dacrema è radicalmente diversa. In modo chiaro, asciutto e convincente, questo libro mostra che il benessere della nostra nazione non sta nell’uscita dall’euro. E che un’Italia alleggerita dal debito e dotata di una propria moneta diventerebbe più forte, a tutto vantaggio dell’euro e dell’Europa.


Autore: Pierangelo Dacrema
Titolo: La buona monetaCome azzerare il debito pubblico e vivere felici (o solo un po’ meglio)
Collana: VandA.Original
Luogo e data di pubblicazione: Milano, febbraio 2018
ISBN e-book: 9788868993382
ISBN cartaceo9788899332198 – in coedizione con Edizioni All Around

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‘Rebecca Town a Parigi’, il primo dei romanzi ‘gialli’ della scrittrice sanremese Manuela Siciliani


di Andrea Di Blasio  (Riviera24.it, 15 luglio 2014)


– Becky, la protagonista dei suoi libri, è una scrittrice di guide turistiche, newyorkese, bellissima, intraprendente e patita della moda. Un’autrice esordiente locale si affaccia al mondo della narrativa pubblicando la prima trilogia della serie: Rebecca Town.

Becky, la protagonista dei suoi libri, è una scrittrice di guide turistiche, newyorkese, bellissima, intraprendente e patita della moda.

Un’autrice esordiente locale si affaccia al mondo della narrativa pubblicando la prima trilogia della serie: Rebecca Town. Manuela Siciliani di 36 anni che vive a Sanremo raggiunge il suo sogno: scrivere un romanzo. Becky, la protagonista dei suoi libri, è una scrittrice di guide turistiche, newyorkese, bellissima, intraprendente e patita della moda; ma deve improvvisarsi detective, perché ogni luogo che ci porterà a visitare, attraverso i suoi occhi, descrivendone i monumenti, le strade e il cibo, diverrà scenario di un terribile omicidio. Il genere è stato de nito “ibrido” perché i romanzi nascono come gialli, ma all’interno troviamo anche storie d’amore e descrizioni così particolareggiate delle città da sembrare davvero delle guide turistiche. La prima uscita è Rebecca Town a Parigi. Il primo intricato caso di Becky, a seguire la VandA. epublishing ha pubblicato Rebecca Town a Londra. Doppia indagine. Ora non ci resta che aspettare il terzo: Rebecca Town a Roma. Passione e mistero. In accordo con la casa editrice si sta già lavorando al quarto, ambientato a Praga.

Tuffiamoci alla scoperta di Becky visitando la sua fan-page (https://www.facebook.com/pages/Becky-Town/) che Manuela aggiornerà costantemente, e visto che i romanzi sono in corso d’opera l’autrice vorrebbe lanciare una sPda: interagire con i lettori e capire le preferenze del pubblico attraverso i commenti e le recensioni (Ben è l’uomo giusto per Becky? Meglio Peter? Quali città vorreste visitare insieme all’esuberante protagonista?) Un po’ come avviene per le serie televisive, i produttori sondano il terreno… e quasi sempre la maggioranza vince! I libri sono acquistabili su Amazon a prezzi abbordabili: 3,99 per l’ebook e 7,20 per il cartaceo.

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Evento – Daniela Pellegrini @ Campeggia Femminista


Cecciola di Ramiseto, 23 giugno 2018, ore 17.


– VandA.ePublishing annuncia la partecipazione, sabato 23 giugno, dalle ore 17, di Daniela Pellegrini a Campeggia femminista contro la riproduzione artificiale e il sistema che la rende necessaria.

Daniela Pellegrini interverrà, dalle ore 17, alla presentazione parlando del suo libro La materia sapiente del relativo plurale.

La teoria del “relativo plurale” è una nuova metodologia di indagine scientifica, quella del rispetto verso la materia vivente ed esistente e le sue sperimentazioni e dei suoi risultati, in grado di sostituire la manipolazione con l’osservazione, la presa di contatto, l’ascolto e l’apprendimento delle sue messe in atto.

Vi aspettiamo!


 

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La buona moneta, ovvero come azzerare il debito pachiderma


di Fausta Chiesa (Il corriere, 9 maggio 2018)


– Il debito pubblico italiano viaggia sui 2.256 miliardi e le regole europee ci impongono di ridurlo drasticamente. Ma come? La proposta «forte» dell’economista Dacrema: «Una valuta parallela». Se ne discute il 14 maggio a Milano.

Come convivere felicemente con un elefante che pesa 2.256 chilogrammi, anzi pardon 2.256 miliardi di debito, cioè il debito pubblico italiano? È il tema sul quale Bankitalia è intervenuta il 9 maggio nell’audizione sul Documento di economia e finanza, mettendo così in evidenza il grande rimosso dell’intera discussione post elettorale fra i partiti. Il vicedirettore generale, Luigi Signorini, ha infatti ricordato che il debito pubblico italiano nell’eurozona è inferiore solo a quello greco e che supera rispettivamente di 68, 35 e 34 punti percentuali quello dei suoi vicini di casa, ovvero Germania, Francia e Spagna. Per Bankitalia, non c’è alcun rischio imminente ma tenere conto della capacità di assorbimento dei mercati è obbligatorio. E riportare il debito pubblico su un percorso di «stabile e duratura riduzione» è indispensabile.

Già, ma come? Una proposta fuori dal coro l’ha fatta un economista – Pierangelo Dacrema, docente di Intermediari finanziari all’Università della Calabria – che non è nuovo a lanciare idee contro corrente: basti ricordare il libro «La dittatura del Pil». Ora Dacrema esce con il libro (in versione cartacea e ebook) «La buona moneta». La buona moneta sarebbe emessa a rimborso dei titoli del debito pubblico dello Stato italiano – essenzialmente BOT, CCT, BTP – in una nuova valuta a corso forzoso in Italia a partire dalla più vicina possibile data futura, con un rapporto 1 a 1 sull’euro. La gestione della circolazione della nuova valuta, della quale non sarebbe quindi prevista una versione “contante”, né cartacea, né metallica, sarebbe riservata al sistema bancario. Inoltre, non potrebbe essere investita in attività finanziarie. Avrebbe corso forzoso: nessuno potrebbe rifiutare pagamenti.

Se la conversione cominciasse subito – calcola Dacrema – permetterebbe di abbattere 480 miliardi di debito nel biennio 2018-2019 e di scendere al 60% del Pil in sei anni. Altrimenti, come rispettare il «Fiscal Compact», con cui l’Italia si è impegnata, per il prossimo ventennio, a ridurre il debito di una cinquantina di miliardi l’anno? Il dado è tratto, chi vorrà raccoglierlo? Intanto, se ne parla. Un’occasione è la presentazione del libro lunedì 14 maggio a Milano (ore 18, Biblioteca Sicilia), con l’autore e Renato Mannheimer.