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Manifesti femministi

a cura di Deborah Ardilli

Che cosa è stato il femminismo radicale? Perché ha trovato in tutto il mondo un canale di espressione privilegiato? Attraverso quali linguaggi ha presto forma? Quali tabù hanno dovuto essere infranti per lasciare venire a galla quello che Carla Lonzi nel 1971 avrebbe battezzato come il «soggetto imprevisto»? 


Il nuovo saggio di Deborah Ardilli, “Manifesti femministi”, è un’occasione per conoscere e interrogarsi sul femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1946-1977). 


Leggine un estratto…  

“Che cosa è stato il femminismo radicale? Perché ha trovato in tutto il mondo un canale di espressione privilegiato (ancorché non esclusivo” nella gemmazione multipla di manifesti firmati ora collettivamente, ora individualmente? Attraverso quali linguaggi ha preso forma quella singolare combinazione di insubordinazione e tensione utopica che ha alimentato il rinnovamento del movimento femminista negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso? Quali tabù hanno dovuto essere infranti per lasciare venire a galla quello che Carla Lonzi nel 1971 avrebbe battezzato come il «soggetto imprevisto»?  Fino a che punto le femministe si sono riconosciute nella prescrizione lonziana di «muoversi su un altro piano» rispetto alle forme del conflitto sociale innervate dalla dialettica signoria-servitù e animate prevalentemente da collettività maschili? E fino a che punto hanno invece avvertito la necessità di un intervento puntuale nella storia, in forza dell’estensione della dialettica servo-padrone al territorio inesplorato delle classi di sesso? Quali resistenze è stato necessario vincere per poter strappare il velo di naturalità che avvolgeva (e in larga parte continua ad avvolgere) il rapporto di genere? […] Sono queste alcune delle domande che potrebbero orientare la lettura dei testi confluiti nella raccolta che avete tra le mani.

Ti è piaciuto questo libro? Lo trovi qui: Manifesti femministi, a cura di Deborah Ardilli


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Trilogia Scum. Scritti di Valerie Solanas

a cura di Stefania Arcara e Deborah Ardilli

Per molto tempo il nome di Valerie Solanas è stato associato solo al ferimento di Andy Warhol, in realtà l’autrice di “Trilogia Scum” è stata la pioniera del femminismo radicale. Una figura spesso mal interpretata, strumentalizzata e fino a oggi rimossa sia dagli archivi della controcultura che dal femminismo. 


Trilogia Scum”, pubblicato da VandA Edizioni, ripara questo torto pubblicando tutti gli scritti dell’autrice inserendo anche due inediti importanti “Up Your Ass” e il racconto “Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle”.

Leggine un estratto…

“Per bene che ci vada, la vita in questa società è una noia sconfinata. E poiché non esiste aspetto di questa società che abbia la minima rilevanza per le donne, alle femmine dotate di spirito civico, responsabili e avventurose non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione completa e distruggere il sesso maschile.

Oggi è tecnicamente possibile riprodursi senza l’aiuto dei maschi (o, se è per questo, delle femmine) e produrre soltanto femmine. Dobbiamo cominciare a farlo subito. Conservare il maschio non serve più nemmeno al pur discutibile obiettivo della riproduzione. Il maschio è un incidente biologico: poiché il gene Y (maschile) è un gene X (femminile) incompleto, ha una serie incompleta di cromosomi. In altre parole, il maschio è una femmina incompleta, un aborto ambulante, abortito a livello genetico. Essere maschio equivale a essere deficiente, emotivamente limitato; la maschilità è una tara e i maschi sono emotivamente storpi.

Il maschio è completamente egocentrico, intrappolato in se stesso, incapace di empatizzare con gli altri o di identificarsi con loro, incapace di amore, amicizia, affetto, tenerezza. È un’unità completamente isolata, incapace di qualsiasi rapporto. Le sue reazioni sono interamente viscerali, non cerebrali; la sua intelligenza è un mero strumento al servizio dei suoi istinti e dei suoi bisogni; è incapace di passioni della mente, di interazione intellettuale; non è in grado di relazionarsi a nulla, fuorché alle proprie sensazioni fisiche. È un’escrescenza inerte, un morto vivente, incapace di dare o ricevere piacere o felicità; di conseguenza, nel migliore dei casi, è una noia infinita, un inetto inoffensivo, perché solo chi è capace di interessarsi veramente agli altri può essere seducente. Il maschio è imprigionato in una zona grigia a metà strada tra gli umani e le scimmie, ma è molto peggio delle scimmie perché, diversamente da loro, dispone di un’ampia gamma di sentimenti negativi – odio, gelosia, disprezzo, disgusto, senso di colpa, vergogna, insicurezza – e, inoltre, è consapevole di ciò che è e di ciò che non è.

Benché completamente fisico, il maschio è inadatto persino a fare lo stallone. Anche ipotizzando che abbia la competenza tecnica necessaria, di cui comunque pochi uomini dispongono, egli è, in primo luogo, incapace di godersi una bella scopata sensuale e piccante, essendo divorato dai sensi di colpa, dalla vergogna, dalla paura e dall’insicurezza, sentimenti radicati nella natura maschile, che anche l’addestramento più illuminato può soltanto moderare. In secondo luogo, il godimento fisico che ne ricava è prossimo allo zero. E, in terzo luogo, non empatizza con la sua partner, ma è ossessionato dal pensiero di come se la cava, di fornire una prestazione d’eccellenza, di fare un lavoro a regola d’arte. Equiparare un uomo a un animale significa fargli un complimento: è una macchina, un dildo ambulante. Si dice spesso che gli uomini usano le donne. Usarle a che scopo? Sicuramente non per ricavarne piacere.

Divorato dal senso di colpa, dalla vergogna, da paure e insicurezze e capace, se è fortunato, di sensazioni fisiche appena percettibili, il maschio ha tuttavia l’ossessione di scopare; attraverserà a nuoto un fiume di muco, passerà a guado un miglio di vomito immerso fino alle narici, se si convince che ci sarà una figa accogliente ad attenderlo. Scoperà una donna che disprezza, una qualsiasi befana sdentata, e oltretutto pagherà per farlo. Perché? La risposta non sta nel bisogno di alleviare la tensione fisica, visto che la masturbazione è sufficiente allo scopo. E non si tratta nemmeno di soddisfare il suo ego, visto che allora non si spiega come mai scopi anche bambini e cadaveri.

Completamente egocentrico, incapace di relazionarsi, empatizzare o identificarsi con gli altri, colmo di una sessualità debordante, pervasiva e diffusa, il maschio è psichicamente passivo. Odia la propria passività e per questo motivo la proietta sulle donne, definisce il maschio come attivo, quindi si mette all’opera per dimostrare di esserlo (“dimostrare di essere un Uomo”). Il mezzo principale a cui ricorre per dimostrarlo è scopare (il Grande Uomo con un Gran Cazzo che si fa un Gran Pezzo di Figa). Poiché si sta affannando a dimostrare un errore, deve ripetere la “dimostrazione” all’infinito. Scopare, pertanto, è un tentativo disperato e compulsivo per dimostrare di non essere passivo, di non essere una donna; ma lui è passivo, e vuole essere una donna.

Essendo una femmina incompleta, il maschio trascorre la vita cercando di completarsi, di diventare femmina. Prova a farlo mettendosi costantemente alla ricerca di una femmina con cui fraternizzare, cercando di fondersi con lei e di vivere attraverso di lei, e rivendicando come proprie tutte le caratteristiche femminili – forza e indipendenza emotiva, energia, dinamismo, risolutezza, disinvoltura, obiettività, assertività, coraggio, integrità, vitalità, intensità, profondità di carattere, fascino e così via – e proiettando sulle donne tutti i tratti maschili – vanità, frivolezza, banalità, debolezza e così via.

Bisogna riconoscere, tuttavia, che esiste un campo in cui la superiorità del maschio sulla femmina è lampante: le pubbliche relazioni. (Ha fatto un ottimo lavoro quando si è trattato di convincere milioni di donne che gli uomini sono donne e le donne sono uomini.) La pretesa maschile che le donne si realizzino attraverso la maternità e la sessualità rispecchia l’idea di ciò che i maschi troverebbero gratificante se fossero femmine. In altre parole, le donne non soffrono di invidia del pene; sono gli uomini a invidiare la figa. Quando il maschio accetta la propria passività si definisce donna (tanto i maschi quanto le femmine sono convinti che gli uomini siano donne e che le donne siano uomini) e diventa un travestito, perde il desiderio di scopare (o di fare qualsiasi altra cosa, a dire il vero; essere una drag queen lo appaga pienamente) e si fa tagliare via l’uccello. “Essere una donna” gli permette così di raggiungere una sensibilità sessuale continua e diffusa. Scopare, per un uomo, è una difesa contro il desiderio di essere femmina. Il sesso è di per sé una sublimazione”.

Ti è piaciuto questo brano? Trovi il libro qui: Trilogia Scum. Scritti di Valerie Solanas, a cura di Stefania Arcara e Deborah Ardilli.

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Radio inBlu – Intervista ad Agnese Bizzarri

Questa settimana su radio inBlu si lascia spazio ai bambini, in una bella intervista Agnese Bizzarri presenta la favola sul Coronavirus “Il tempo dei colori” che ha ispirato il contest ricondiviso anche dall’ONU.

Per ascoltare l’intervista completa cliccate qui.

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Valerie Solanas – intervista alla regista Mary Harron

Su Volture.com è stata pubblicata un’intervista a Mary Harron, la regista canadese di American Psycho, L’altra Grace e Ho sparato a Andy Warhol, film del 1996 basato sulla vera storia di Valerie Solanas, femminista radicale e autrice dei nostri “Manifesto SCUM“, “Trilogia SCUM” e “Up your ass“.

Valerie Solanas sta vivendo un momento di grande riconoscimento. Negli ultimi vent’anni, Solanas è stata il soggetto di numerosi libri accademici e di critica e ha ispirato ben tre opere teatrali e un romanzo. Nel 2017 è stata persino ritratta in un episodio della serie televisiva statunitense American Horror Story.

Qui di seguito un estratto dell’intervista originale:

And then I Shot Andy Warhol was a hit at Sundance

In 1996, Variety’s Todd McCarthy wrote, “Filmmakers have been dancing around the idea of dealing with Andy Warhol and his world ever since his death. Now that it’s been done, the result, as well as the angle taken on the material, is as unexpected as it is riveting.”.
The offer to do the script for American Psycho came in right after I got back from Sundance. That’s what happens if you have a first film that does well at Sundance.

Valerie Solanas is having a big moment now

Over the last two decades, Solanas has been the subject of a number of academic and critical books and the inspiration for three plays and a novel. In 2017, she was portrayed in an episode of American Horror Story: Cult by Lena Dunham..
At the time, feminism was not cool. At all. Now everyone wants to say they’re a feminist. But at the time — I never denied it. I always said I was, because I felt like, without feminism, I would never be doing this.

Where do you think your feminism comes from?

It was pretty instinctive. My mother was very old school in a lot of ways. She believed men were superior to women with two exceptions — my sister and myself. She was very ambitious for me and wanted me to be an artist. She would’ve been horrified if I hadn’t. She was very upset that my sister married and had kids early. At the same time, we’d disagree. She thought feminism was silly. She ran a radio program, and on her show, they used to excerpt books, and she refused to do Simone de Beauvoir. Still, I always thought I was going to have a career. That’s how I thought about my future — my career, my work, my ambition.

But I always felt like people were saying “Are you a feminist?” back in the day because they wanted to pigeonhole you as an ideological filmmaker, which I’m not, I don’t believe.”

Per leggere l’intervista completa clicca qui.

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“Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione”

di Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini, Grazia Villa

Firmato da quattro autrici: la sociologa Daniela Danna, la costituzionalista Silvia Niccolai, la storica Luciana Tavernini e l’avvocata Grazia Villa, “Né sesso né né lavoro” è un testo fondamentale per chi voglia capire un po’ di più il dibattito su prostituzione e sex work in Italia. 

Un libro scritto a più voci ma con una visione comune che intende aiutare chi legge a sfilare la testa dalla sabbia dei luoghi comuni, andare oltre slogan sempre più diffusi che, volendo sdoganare la questione, negano gravi problemi sociali e mentono spudoratamente.

Il sex work non è un lavoro come un altro, il concetto stesso di sex work stravolge il senso sia del sesso sia del lavoro.

Forti di competenze specifiche, le quattro autrici mostrano i differenti aspetti del fenomeno in un’analisi calata nella peculiare realtà dell’abolizionismo tradito nel nostro paese, dove la lotta alla tratta non è una priorità e dove sulla prostituzione vige il laissez faire. Dall’esame dei modelli di politiche internazionali all’analisi della Legge Merlin (male interpretata) e delle numerose proposte parlamentari di modifica della legge, all’appassionata riflessione sulla portata della prostituzione negli attuali rapporti umani.


Leggine un estratto…

“Ho capito il mio atteggiamento e quello di diverse mie amiche verso la prostituzione quando li ho associati a un episodio della mia infanzia. Avevo quasi tre anni quando mi sono allontanata dalla casa dei nonni per cercare i miei genitori, usciti a fare la spesa. Inerpicandomi per un sentiero fra i boschi, arrivai a un maso vicino e, sentendo il cane abbaiarmi contro, mi coprii il viso con le mani, lasciando aperte le dita. Nel mio pensiero magico, nascondendo il viso mi sarei resa irriconoscibile e il cane non mi avrebbe vista, mentre io lo avrei controllato e mi sarei avvicinata il meno possibile.

Con la prostituzione è andata così.

Sapevo che esisteva, non avevo bisogno che restasse nelle “case chiuse” con i vetri oscurati; non era la buona educazione o il bon ton a non farmene parlare, piuttosto la sottile paura che la cosa mi riguardasse. Insomma, intravedere era un modo per tenere lontane le sue implicazioni. Intuivo quanto la prostituzione fosse connessa al contratto sessuale degli uomini tra loro per avere accesso al corpo femminile, e dunque anche al mio; alla pretesa che i desideri maschili fossero gli unici legittimi, che il ruolo delle donne fosse quello di supportarli e di essere lo specchio in cui l’uomo diventa grande (dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna). Ma io non volevo vivere all’ombra di qualcuno e il mio desiderio, proprio per l’incontro col femminismo, continuava e continua ad accendersi. Un desiderio che ha reso evidente quanto mi andasse stretta la divisione patriarcale delle donne in due grandi categorie: le procreatrici e le donne di piacere, le donne per bene e le donne per male. Le prime devono garantire la certezza e la continuità della discendenza, un’ossessione maschile che ha prodotto nei secoli una serie di abomini: dalle spose ignoranti e molto giovani alla prova della verginità della prima notte, dall’escissione della clitoride, non solo fisica (mia madre neppure sapeva della sua esistenza, guai a toccarsi lì ), alla fasciatura dei piedi delle donne cinesi durata secoli, dall’organizzazione di harem custoditi da eunuchi ai delitti d’onore, dai matrimoni riparatori alla patria potestà che toglieva le creature alla madre in caso di adulterio, solo per fare qualche esempio. Le altre, le donne per male, devono garantire il piacere sessuale maschile, un’esperienza così attraente da far “perdere la testa” e per la quale, come per la funzione delle prime, le donne sono necessarie. Anche qui invenzioni a dir poco obbrobriose: dalle molestie, considerate modi naturali di rapportarsi alle donne fin da bambine e adolescenti, allo stupro individuale come manifestazione di controllo sull’altra, dallo stupro di gruppo come forma di coesione tra uomini alle diverse modalità di organizzare la prostituzione, dove il denaro paga la prestazione richiesta cancellando chi la fornisce.

Soprattutto nelle istituzioni maschili segregate, per esempio negli eserciti, le donne prostituite, anche con l’inganno, erano una costante ritenuta inevitabile e solo da poco si comincia a esprimere parole di condanna. Basti pensare alle comfort women per le truppe giapponesi, all’invenzione del “madamato” per quelle italiane nelle colonie, per non parlare del sistema di R&R ( rest & recreation ), in particolare per le truppe USA durante la guerra del Vietnam. Nella Roma papale del Cinquecento, piena di celibi, vi era uno stuolo di cortigiane, spesso costrette a questo ruolo dopo il cosiddetto “trentuno”: uno stupro collettivo a cui partecipavano trentuno uomini – come si racconta accadde a Lorenzina, la figlia di un fornaio (Lawner, 1988, pp. 10-11).

Del resto, nei casini italiani del primo dopoguerra la media di quaranta “marchette” era considerata bassa (Merlin e Barberis, 1955, pp. 25 e 30). E dal 1995 alcune suore cominciano a presentare rapporti-denuncia ufficiali sugli abusi di preti verso le consorelle. Per tenere ben separate le due categorie femminili, sulle donne che non rispettano le regole maschili da un lato ricade la vergogna, dall’altro s’innesca la paura di punizioni sia per le prime sia per le seconde, basti pensare che nel Cinquecento, il secolo del cosiddetto Rinascimento, una cortigiana che non si era mostrata disponibile a tempo debito poteva essere punita dall’amante con uno stupro organizzato con l’inganno e la complicità di ottanta uomini (Lawner, 1988, pp. 75-77).

Ho potuto vedere le violenze connesse a questa divisione innaturale quando, oltre quarant’anni dopo, ho definito con altre “molestia” quello che un medico mi aveva fatto e che continuavo a minimizzare, situazione che m’impediva di fidarmi del mio sentire e di prendere parola pubblicamente in modo autentico. Non avevo timore a fare lezioni anche davanti a trecento persone come ripetitrice di pensieri altrui o nascondendo con l’ironia i miei, di cui non riuscivo a essere sicura (Tavernini, 2012 e 2014).

Vivere attenta a non cadere nella vergogna e ad allontanare la paura mi aveva spinta a introiettare il desiderio maschile pensando così di esaudire anche il mio, a non voler vedere la violenza a cui ero stata sottoposta per continuare a percepirmi viva: la violenza ti fa diventare cosa, ed è quanto di più vicino alla morte ci sia.

Le pratiche femministe che, pur modificandosi nel tempo, hanno mantenuto l’interrogarsi tra donne a partire da sé, mi hanno permesso di tenere le dita aperte per non cancellare l’esperienza di quelle che vivevano con la prostituzione. Anch’io ho gridato nei cortei non più puttane, non più madonne, solo donne: la separazione dunque doveva crollare, ma non significava l’instaurarsi di un nuovo e unico modello. Con le amiche dell’autocoscienza, con cui continuo a incontrarmi, e con quelle con cui ricerco da decenni, ho compreso che il nostro immaginario era colonizzato da film e racconti che confermavano le modalità maschili d’incontro sessuale e in un primo tempo ho rischiato di accontentarmi della liberazione sessuale.

Essere sessualmente disponibili si rivelò uno scacco, desideravamo invece scoprire, con chi decidevamo di provare, il piacere nostro e anche suo. Insomma, volevamo la libertà sessuale”.

Ti è piaciuto questo libro? Lo trovi qui: Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione, di Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini, Grazia Villa” 

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“La piccola principe”, di Daniela Danna

“La piccola principe” di Daniela Danna si apre come una lettera in cui l’autrice si rivolge a chi legge immaginando che anche lei, specie se nella fase di crescita, si stia interrogando sulla sua identità sessuale.

«Se pensi che potresti essere un maschio perché hai una fortissima simpatia, un’attrazione, un desiderio di stare insieme a un’altra ragazza, o a una donna, devi sapere che questo sentimento non deve essere fonte di vergogna, anche se non è irrazionale la tua paura di rivelarlo». L’autrice infatti racconta con naturalezza la paura che spesso accompagna chi si fa queste domande e gli effetti che queste possono avere.


Leggine un estratto…

“Ciao! Scrivo a te che sei giovane, che stai per svilupparti e diventare un’adulta e che ti stai interrogando su come crescere e identificarti… Mi rivolgo a te al femminile perché – anche se pensi che potresti essere maschio – nella tua prima parte di vita in questa società ti hanno trattata come si è soliti trattare le femmine, cioè sei stata cresciuta con una certa pressione, sociale se non familiare, verso l’adesione ai modelli sociali femminili.

Se pensi che potresti essere un maschio perché hai una fortissima simpatia, un’attrazione, un desiderio di stare insieme a un’altra ragazza, o a una donna, devi sapere che questo sentimento non deve essere fonte di vergogna, anche se non è irrazionale la tua paura di rivelarlo. Sappi che stare insieme a un’altra ragazza, o a una donna, non è mai stato facile, che anche noi lesbiche abbiamo tenuto dentro questo sentimento prima di parlarne a chiunque, timorose di essere etichettate negativamente, di essere ostracizzate.

I legami tra femmine – a partire da quelli tra madre e figlia – nella nostra società non sono incoraggiati, non sono ben visti, sia che si tratti di amicizia, di affetto, di amore, o anche di trasmissione culturale. Ci insegnano che il primo posto nel cuore di una femmina deve essere occupato da un maschio (fidanzato, marito, padre, Gesù, Dio) ed è una delle ragioni per cui chiamiamo patriarcale la società in cui viviamo. Noi che amiamo le donne pensiamo che questo imperativo sia sbagliato, che le femmine dovrebbero essere lasciate libere, anche di darsi forza l’una con l’altra. Noi ci chiamiamo lesbiche perché diamo importanza a questa forza, come fece la maestra e poeta Saffo, e vogliamo dire al mondo che amiamo le donne, vogliamo stare con loro. Potrebbe non essere il tuo caso, chissà.

Quello che succede nell’infanzia o nell’adolescenza non è un destino ineluttabile. Ma è importante – lo si scopre nella vita – essere fedeli a se stesse per poter essere felici.”

Ti è piaciuto questo libro? Lo trovi qui “La piccola principe”, di Daniela Danna

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“Temporary Mother”, di Marina Terragni

“Il mercato è fatto così: ne fa sempre una questione di soldi, riconduce tutto alla misura universale del denaro”, così inizia “Temporary mother” di Marina Terragni per riflettere su come oggi la maternità a pagamento sia un colossale giro d’affari da almeno 3 miliardi di dollari. 

Se inizialmente la surrogacy poteva sembrare un mezzo di liberazione per le donne oggi, anche secondo i possibilisti, le donne non si sono affatto liberate, anzi sono diventate mezzi di produzione.

Invece di riflettere su come la libertà riproduttiva delle donne sia oppressa ovunque e di come ciò infici sulla possibilità di avere o meno figli ci affidiamo al capitalismo perché ci fornisce la soluzione dimenticando che ha anche creato il problema.

Quei figli che non ci è consentito avere possiamo sempre comprarli. Basta pagare.


Leggine un estratto…

“Tante di noi resistono all’idea della maternità per contratto e
per soldi, e si dicono invece possibiliste sull’“utero” solidale.

L’associazione Arcilesbica ne parla in un documento dove
si dice che la GPA “se realizzata per solidarietà è altruistica, se
si dà per un compenso è commerciale. La GPA può sussistere
nel momento in cui risulta essere un atto volontario, per sottolineare
questa volontarietà è necessaria la gratuità, anche
economica, del gesto…”.
Gratuità che peraltro si realizza solo in un numero pressoché
insignificante di casi: normalmente si tratta di una transazione
economica.


Anche in quei paesi, come il Canada, dove la legge riconosce
alle gestanti per altri un’indennità comprensiva del rimborso
delle spese mediche, si tratta in realtà di un compenso a
tutti gli effetti. Le donne si offrono per avere quei soldi.
Secondo Arcilesbica, il fatto che in una GPA non passi denaro
costituirebbe una garanzia sufficiente. La faccenda mi
pare più sottile.

Chiedere a una donna che si offra gratis o
quasi gratis per il suo biolavoro è farle una richiesta molto
ambigua. Su questa “generosità” è costruito tutto il marketing
delle agenzie che vendono surrogacy – ci torneremo più
avanti. Ma il punto è un altro.


La madre di mio padre lavorava, e aveva dato “a balia” il
suo bambino neonato. Com’era giusto, le balie da latte ricevevano
un compenso per il loro dono prezioso: si trattava in
genere di donne povere a cui quei soldi facevano comodo.

Mio padre fu sempre affezionato alla sua balia e ai figli di lei
che chiamava, come si diceva allora, fratelli di latte: c’era un
lessico affettuoso che conferiva esistenza simbolica a quelle
relazioni. Con lei e con quei fratelli rimase sempre in legame.
Lì passavano soldi, ma la relazione rimaneva al centro.
Oggi le balie da latte non esistono quasi più, ma esistono
donne, spesso straniere, che affiancano o sostituiscono la madre
nel lavoro di cura della creatura e per questo ricevono un
compenso. Si tratta in questo caso di accudimento, di nutrimento
affettivo e non del latte. Anche qui i soldi non surrogano
la relazione, sono solo una componente della relazione,
dalla quale peraltro la madre non scompare.

In questione non è nemmeno il quanto, come tante e tanti
ritengono: e allora la cosa va bene se si tratta di un semplice
rimborso, non va bene se è un canone di locazione pieno.
Si tratta piuttosto di capire che cosa si compra, con quei
soldi. Se si compra il diritto di rompere la relazione e fare
sparire la madre dalla vita della creatura. Se i soldi diventano
un sostituto, un surrogato di quella relazione.
Vero che in una GPA autenticamente solidale io quella
donna non dovrei pagarla. Ma potrei decidere di farle un
gran dono, o anche di darle dei soldi: il fatto non è questo.
Quello che conta è che io non paghi quella donna perché
sparisca e si lasci cancellare dalla vita della creatura e dalla
mia. Che io non pretenda di surrogare quella relazione con il
denaro.

Il modello potrebbe essere quello di una libera relazione
tra due donne, come nel caso delle balie da latte, in cui nessuna
debba scomparire dalla vita della creatura e dell’altra
madre. Una relazione in cui la gestante accetti il rischio e la
gioia di quella relazione possibilmente per la vita, e non solo
di offrire per nove mesi il suo grembo. In questo modo non
sparirebbe la madre. Sparirebbe invece la gran parte dei problemi che pesano sulla vita di questi bambini. Sarebbe chiaro
da subito com’è andata. E che loro sono i figli fortunati di un
plus d’amore.

Per Rosemarie Tong il problema non sta nella GPA in sé,
ma nell’uso che ne viene fatto in un contesto patriarcale: “La
maternità surrogata diventa fonte di sfruttamento se gli uomini
hanno il controllo delle regole, dei tribunali, del corpo
delle donne”, dice. “L’etica femminista richiede che le donne
denuncino, resistano, e sconfiggano questi e altri tipi di controlli
di stampo patriarcale. Solo allora saremo in grado di
poter determinare se la maternità gestazionale abbia realmente
un futuro come una modalità di riproduzione veramente
collaborativa – un processo che aumenti la libertà e la felicità
delle donne che scelgono di aiutarsi le une con le altre per
avere un figlio” (Nuove maternità).

Quando sono gli uomini a decidere, quando le leggi, e in
particolare le leggi di mercato, sono le loro, apri la porta all’utero
“etico e solidale” e di lì passerà il business della GPA
commerciale: di tutto viene fatto profitto.

Ti è piaciuto questo libro? Lo trovi qui: Temporary Mother, di Marina Terragni

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#iorestoacasaconvanda – la nuova rubrica video di VandA Edizioni

#iorestoacasaconvanda è un format che VandA ha creato per mantenere viva la relazione fra lettori e autori in questo periodo di “reclusione”.

Per non perdere il filo del pensiero. Per mettere al lavoro la nostra sapienza accumulata e non restare attoniti e in contemplazione di qualcosa che sembra più grande di noi. Perché solo il pensiero e la saggezza che da esso deriva porta alla coscienza e quindi alla libertà.

Come ci ha insegnato il femminismo, autocoscienza e relazione sono le due grandi leve dell’emancipazione. Ed è su questa strada che vogliamo proseguire.

Dunque parliamoci e ascoltiamoci!

Quello che sta capitando ha molto a che vedere con le cose a cui da tempo VandA sta riflettendo: la crisi di un modello di società e di economia, i danni del mercatismo e della globalizzazione, il maschile tossico, la violazione dei corpi, della Natura, della Terra, la libertà intesa come individualismo e assenza di limiti.

I nostri autori in video riprenderanno le loro tesi, i loro libri e ci intratterranno con storie, interventi, brevi lectio, riflessioni, letture, narrazioni, audio.


Ecco la programmazione del format #iorestoacasaconvanda:

Martedì 7 aprile
Lectio economia (durata circa 20’’)
Pierangelo Dacrema, “Dov’è l’Europa?”

Venerdì 10 aprile
Narrativa: presentazione con autrice e lettura (durata 9’’)
Chiara Giunta, “Innamorate“, Letture di Francesca Fichera

Martedì 14 aprile
Saggistica: presentazione con autrice e lettura (durata 10”)
Carol J. Adams, “Carne da Macello, Letture di Barbara Mugnai

Venerdì 17 aprile
Narrativa: presentazione con autrice e lettura (durata 10″)
Agnese Bizzarri, “L’Italia a Colori, Letture di Marco De Francesca

Martedì 21 aprile
Intervento: neoliberismo e violazione di corpi (durata 10″)
Marina Terragni, “Utero in affitto mille motivi per dire NO

Venerdì 24 aprile
Intervento con autrice (durata 10’’)
Sofie della Vanth, “Pandemia Covid-19: il punto di vista di una sciamana

Martedì 28 aprile
Teatro: presentazione con performance audio (durata 12″)
Donatella Massara, “Donne che attraversano la scena teatrale“, recitato di Donatella Massara

Venerdì 1 maggio: Festa del Lavoro
Lectio neoliberismo (durata circa 20″)
Pierangelo Dacrema, “Se il mercato sostituisce il lavoro

Martedì 5 maggio
Poesia: presentazione con autore e lettura (durata 10″)
Pippo Ruiz, “Le metamorfosi dell’Haiku

Venerdì 8 maggio
Narrativa: presentazione con autrice e letture (durata 10″)
Anna Maria Briga, “Ci sei“, illustrazioni di Maria Vittoria Sesta

Martedì 12 maggio
Saggistica: intervento con autrice (durata 14″)
Giuseppina Norcia, “A proposito di Elena“, letture di Galatea Ranzi

Venerdì 15 maggio
Saggistica: intervento con autrice (durata 10″)
Michela Fontana, “Nonostante il velo

Venerdì 22 maggio
Lectio economia
Pierangelo Dacrema, “La morte del denaro

Venerdì 29 maggio
Narrativa: intervento con autrice (durata 8″)
Katia M., “Fai la brava. Se il mostro delle favole è mio padre


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La buona moneta. Come azzerare il debito pubblico e vivere felici (o solo un po’ meglio), Pierangelo Dacrema

“Le dimensioni del debito pubblico italiano sono un fattore di rischio che ostacola qualunque politica di sviluppo della nostra economia. Un problema annoso, tema di dibattito e di scontro a ogni vigilia del voto. Le politiche di austerità volte ad arginare il debito si sono rivelate inefficaci, oltre che dolorose. In un’Italia afflitta da disoccupazione e vaste sacche di indigenza occorrono provvedimenti adatti a promuovere consumi, investimenti, occupazione e reddito. E il loro ineludibile presupposto è la disponibilità di moneta”. 

Pierangelo Dacrema in “La buona moneta” offre una raccolta di spunti per un’economia del futuro.

Se, come spesso accade nei ragionamenti economici, il denaro è sia causa che soluzione come procurarsi moneta?

Leggine un estratto…  

“L’idea all’origine della proposta che formulerò in modo articolato nella terza parte di questo lavoro non è affatto nuova. Nuova semmai è la proposta, anche sotto l’aspetto tecnico.

L’idea, infatti, è stata non solo formulata ma anche applicata con successo nella prima metà degli anni Trenta del secolo scorso, ed è alla base del “miracolo” compiuto dalla politica economica del governo nazionalsocialista prima della sciagurata decisione di scatenare la guerra in Europa e nel mondo.

A tale proposito credo che si possa trovare ormai ampio consenso sul principio per cui una condanna senza appello del nazismo per gli orribili delitti e le devastazioni di cui si è reso responsabile sia compatibile con un’analisi degli apprezzabili risultati da esso ottenuti, fino al 1937, sul piano economico-sociale. Studiosi come Joachim Fest non hanno esitato ad ammettere 1 che, se Hitler fosse morto prima del 1938 – o non avesse invaso l’Austria perseverando poi nel folle disegno che avrebbe scatenato la seconda guerra mondiale –, sarebbe stato ricordato come un grande statista tedesco, forse il più grande.

Quando Adolf Hitler, nel gennaio del 1933, riceve da Paul von Hindenburgh l’incarico di formare il nuovo governo, la Germania è un Paese allo stremo. Sono fatti noti, ma è il caso di ricordarli brevemente. Una trentina di partiti e sei milioni e mezzo di disoccupati – poco meno di un quarto della forza lavoro del Paese – rendono la situazione potenzialmente esplosiva. La nazione è oberata di debiti per le riparazioni di guerra, praticamente impossibili da pagare, l’indigenza è diffusa, un gran numero di famiglie e di individui è alla fame. Ed è proprio cavalcando questo malcontento che lo NSDAP – Nazionalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei – ottiene un risultato elettorale più che soddisfacente. Con le parole roboanti e lo stile tipici di un dittatore che si trova a un passo del potere assoluto, Hitler fa alcune promesse ai tedeschi. E le mantiene. Con un Rudolph Hess sorridente e ammiccante al suo fianco, si rivolge a un pubblico osannante ricordando che lui e i suoi seguaci erano in sette, all’inizio. E che ora sono diventati milioni.

Per questo potrà permettersi di selezionare, allontanare gli opportunisti e gli incapaci, scegliere i migliori. Parlando d’economia, giura di avere come unico obiettivo il benessere del popolo tedesco, e assicura di tenere ben presente come la prosperità nasca dal lavoro, dall’attività del popolo, e non dal denaro, che ne è banale e meccanica conseguenza. Promette che lo Stato non lascerà isolati gli individui operosi, volenterosi e intenzionati a collaborare, a entrare in azione a vantaggio di tutti. Garantisce un controllo dello Stato sull’attività dei privati e un rapporto di collaborazione tra Stato e industria destinato ad aumentare la produzione e una distribuzione della ricchezza nazionale attenta ai meriti e ai bisogni individuali.

Con la nazionalizzazione di diverse grandi imprese, ma sempre in dialogo con l’industria privata, lancia un programma di investimenti pubblici volto a rivoluzionare il sistema dei trasporti, a potenziare le infrastrutture, a dare ai tedeschi nuove prospettive. Artefice della politica economica del governo nazista dall’inizio del 1933 alla fine del 1937 è Hjalmar Schacht, che non è nazionalsocialista (e per di più ha origini ebraiche). Ciò a riprova di come certi giudizi possano, e forse debbano, tenersi separati. È probabile che Schacht avesse visto in Hitler il capo di una forza politica – eccentrico sia il capo che il partito da lui creato – capace di mettersi alla guida di un Paese bisognoso soprattutto di: a) godere di un periodo di stabilità politica; b) approfittare di tale periodo per risollevare le sorti di un’economia che versava in condizioni disastrose. È probabile, anzi, quasi certo, che Hitler accarezzasse fin dal 1933 i suoi perniciosi disegni di guerra e di dominio sull’Europa, e che avesse visto in Schacht l’uomo giusto per realizzarli (senza un’economia forte alle spalle, la guerra sarebbe parsa una follia anche al più folle dei dittatori). Perché la scelta del Führer si è rivelata (malauguratamente) intelligente? Stiamo parlando, ripeto, di eventi e di uomini ben conosciuti. Ma ripercorrere in estrema sintesi alcuni brani del passato può rendere più facile l’analisi del presente e l’individuazione di possibili soluzioni per il futuro.

Si consideri che Schacht è già un eroe nazionale. Diventato responsabile economico della Repubblica di Weimar su incarico del cancelliere Gustav Stresemann nel 1923, nonché presidente della Reichsbank nel 1924, diffonde sul mercato una nuova valuta, il Rentenmark, che soppianta il vecchio marco, ormai inservibile, e sconfigge l’iperinflazione di quel tempo. Rimane al vertice dell’istituto di emissione fino al marzo del 1930, sei mesi dopo l’inizio della Grande Depressione. Hitler si esprimeva in modo enfatico, drammatico. Era amato, il suo eloquio era estremamente appassionato. Un tipo strano. Ma strana era anche la situazione.

Nel marzo del 1933 Schacht accetta di tornare a essere il presidente della Reichsbank, e nell’agosto del 1934 diventa ministro dell’Economia. I risultati ottenuti dall’economia tedesca sotto la sua guida, in pochi anni, sono oggettivamente straordinari. Già alla fine del 1936 la disoccupazione è ridotta al minimo e tutti i settori dell’industria registrano fenomenali incrementi della produzione.

È giudizio unanime che il successo di questa operazione di rilancio del sistema economico sia dovuto in buona misura ad alcune innovazioni introdotte da Schacht nel sistema dei pagamenti. Si tratta in particolare di due accorgimenti, entrambi volti all’esigenza di offrire liquidità al sistema evitando di creare un eccesso di base monetaria con la deprecabile conseguenza dell’inflazione, un problema di cui la Germania ha un ricordo fresco e drammatico. La prima innovazione riguarda le modalità di finanziamento delle importazioni, vale a dire delle merci di cui il Paese ha un estremo bisogno, soprattutto in campo alimentare.

L’idea è semplice e centrata sull’obiettivo: non deprimere il marco, la valuta nazionale. Il che significa non costringere la banca centrale a emettere marchi o a spendere valuta estera, che la banca si trova costretta ad amministrare con molta parsimonia. Le importazioni, pertanto, vengono pagate con cambiali spendibili solo in Germania, sul mercato tedesco. Il risultato è che ogni spesa all’estero (importazione) destinata a rifornire il sistema produttivo tedesco si traduce in una spesa dall’estero che alimenta il sistema ulteriormente (esportazione). Si tratta in sostanza di un baratto con esiti virtuosi, capace di scavalcare qualunque forma di intermediazione finanziaria associata di norma a qualsiasi operazione economica (considerando economica un’operazione per cui esiste un soggetto che produce e che vende – l’offerta – e un altro che acquista e consuma – la domanda). Facile fornire un esempio. L’Argentina è ricca di grano e di carne, che può esportare in abbondanza. E la Germania è in grado di produrre macchine utensili di cui l’Argentina ha bisogno per favorire un progresso tecnologico che non è capace di promuovere da sola. Benissimo. La Germania avrà il grano e la carne di cui necessita in cambio di tecnologia pagata dall’Argentina con strumenti finanziari spendibili solo in Germania. È un baratto, nient’altro che un baratto assistito e garantito dallo Stato.

La seconda idea, per quanto in tutto simile alla prima, è ancora più ardita, e si risolve in un meccanismo di finanziamento della spesa pubblica senza il ricorso a emissioni di moneta né al collocamento di veri e propri titoli di Stato. Nella Germania che i nazisti si accingono a governare la liquidità scarseggia, le aziende licenziano o, nella migliore delle ipotesi, non assumono, ed esiste una capacità produttiva largamente inutilizzata.

Occorrerebbe una politica monetaria di stimolo, fortemente espansiva, che trova però un ostacolo insormontabile nel pericolo dell’inflazione e nella diffidenza dell’Europa nei confronti di una valuta come il marco e di una nazione come la Germania, che si ha ragione di considerare risentita, umiliata, e sempre pronta a varare una politica del riarmo. Schacht decide allora di creare la Metallurgischen Forschungsgesellschaft, Società per la ricerca metallurgica (abbreviata in MEFO). L’organismo, interamente posseduto dalla Reichsbank, è una scatola vuota: non fa nulla e non possiede nulla. Però ha la peculiare e pregiata caratteristica di poter emettere cambiali garantite, di fatto, dallo Stato (più esattamente dalla Reichsbank). Queste cambiali – i titoli MEFO – rendono il 4 per cento su base annua e hanno scadenza breve, trimestrale o quadrimestrale. Possono tuttavia essere rinnovate fino a cinque anni. Attraverso di esse la MEFO – indirettamente la Reichsbank, e in sostanza lo Stato – può raccogliere denaro ma può anche pagare in via dilazionata le commesse industriali, vale a dire sostenere la spesa pubblica, finanziare la produzione e la domanda globale. Da notare che i soggetti, per lo più industriali, che accettano titoli MEFO in pagamento si rendono conto di poter decidere di non rinnovarli, o di scontarli presso la Reichsbank ottenendo moneta ufficiale, marchi. Ma non lo fanno, vuoi perché i titoli hanno un rendimento interessante, vuoi, soprattutto, perché hanno fiducia in questi titoli.

Per le aziende tedesche è prevista poi la possibilità di emettere cambiali garantite dalla MEFO, circostanza, quest’ultima, che accredita i titoli in loro possesso come strumenti di pagamento del tutto affidabili. Il risultato è che i titoli MEFO proliferano, circolano come moneta e, come la moneta, servono al finanziamento e al funzionamento del sistema economico. Si tenga presente che i MEFO sono spendibili solo in Germania. Ma è quanto si è pianificato fin dall’inizio: doveva essere la Germania a trarne beneficio. E così fu. La Germania godette per diversi anni di un regime di doppia circolazione della moneta che si rivelò molto utile per la rivitalizzazione dell’industria nazionale.”

Ti è piaciuto questo libro? Lo trovi qui: La buona moneta. Come azzerare il debito pubblico e vivere felici (o solo un po’ meglio)

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Sognando l’Europa. Grande statista cercasi, Pierangelo Dacrema

“L’idea di un’Europa economicamente e politicamente unita – o un poco più unita di quanto lo fosse stata fino ad allora – nacque dopo il secondo conflitto mondiale. E fu di uomini che, avendo assistito alle sofferenze dei loro Paesi, immaginarono la possibilità, o meglio la necessità, che un continente devastato dalla guerra, per secoli teatro ricorrente di discordie e lotte armate, si dimostrasse finalmente capace di costruire un lungo periodo di prosperità e di pace.”

Eppure proprio questa unione ha deluso le aspettative di molti. L’euro più che un mezzo e una possibilità è stato troppo spesso percepito come un ostacolo alla realizzazione di politiche economiche adatte a diffondere il benessere. 

Con “Sognando l’Europa” l’economista Pierangelo Dacrema presenta il disegno di un’Europa unita politicamente ed economicamente. Un’Europa che sia più importante della sua moneta e che torni ad essere guidata dalla grande politica.



Leggine un estratto…  

“Quella di un’Europa unita sul piano economico e politico è, di per sé, un’idea forte ed edificante, ma potrebbe sembrare a molti un’utopia. Accade tuttavia che certi sogni si avverino.

Quanti obiettivi apparentemente irraggiungibili, nel corso della storia e in ogni campo, sono stati perseguiti con tenacia da individui coraggiosi e poi, con l’aiuto di qualche circostanza favorevole, sorprendentemente realizzati? Ho un vivo ricordo del momento in cui, nel corso di un’intervista radiofonica rilasciata nella tarda primavera del 1989, Giulio Andreotti – all’epoca ministro degli Esteri, e quindi persona presumibilmente “informata dei fatti” – dichiarò, chiamato a esprimersi sul punto, che della caduta del Muro di Berlino avrebbero forse, e non senza un po’ di fortuna, potuto parlare i suoi nipoti.

È noto invece che il Muro cessò di dividere la parte occidentale da quella orientale della capitale tedesca a partire dal 9 novembre dello stesso anno, e che Helmut Kohl non si lasciò sfuggire l’occasione per diventare artefice di un evento storico formidabile come la riunificazione delle due Germanie. Ciò premesso, sarebbe difficile sostenere, da parte di chiunque, che l’attuale Unione europea si stia rivelando capace di muovere passi sicuri e spediti verso i suoi stessi obiettivi originari e non abbia deluso le aspettative di buona parte dei cittadini europei: la Brexit ne è una prova tangibile, e purtroppo non la sola.

È evidente come l’Europa sia più importante della sua moneta – parlo dell’Euro, a tutt’oggi la sua creatura più compiuta –, mentre sembra talora valere il contrario. Ed è così che l’Euro viene percepito da alcuni come un ostacolo per la realizzazione di politiche economiche adatte a diffondere il benessere e non come un primo, fondamentale, strumento per il perseguimento degli scopi essenziali dell’Unione.

L’Euro è la valuta più protetta del pianeta, e questa ossessiva difesa tecnica della moneta (per statuto, l’unico imperativo della Bce è il contenimento del tasso di crescita del livello generale dei prezzi entro il 2% su base annua), con le politiche d’austerità che ne conseguono, possono sortire l’effetto di mettere in cattiva luce non solo e non tanto la moneta unica quanto l’unione di Stati che ne ha deciso l’emissione e l’utilizzo in via esclusiva. Più in generale, l’Unione europea sembra incline a occuparsi di fini limitati, specifici, e poco propensa a fronteggiare emergenze gravi: sono emblematici il ritardo e la scompostezza con cui è stato trattato un problema epocale come quello dell’immigrazione.

Gli stessi pilastri dell’Europa di Maastricht – il rispetto della soglia del 3% del rapporto deficit/Pil e del 60% del rapporto debito pubblico/Pil – privilegiano una visione rigidamente economico-finanziaria di un contesto complesso, articolato ed eterogeneo, rispetto a un’altra più flessibilmente, e più opportunamente, politica.

Eppure è noto come l’economia, non solo nel suo aspetto macro, si trovi legata, spesso in modo indissolubile, alle vicende della politica. Ragione per cui può accadere che un provvedimento di politica non economica (per esempio, un decreto del ministro dell’Interno o della Pubblica istruzione) abbia ripercussioni sul sistema economico più evidenti, se non addirittura più immediate, di un provvedimento di politica economica in senso stretto (per esempio, una diminuzione o un aumento dei tassi d’interesse, o un aumento o una diminuzione della pressione fiscale).

La sensazione è che l’Europa unita sia oggi orfana della grande politica. E non è fuori luogo ricordare, di nuovo, che cos’è riuscito a fare uno statista tedesco con una decisione che, nel 1989, apparve al mondo imprudente e potenzialmente foriera di disastri economico-sociali. A proposito del da farsi, occorre innanzitutto rendersi conto di come il progetto di un’Europa sempre più unita – tanto entusiasmante quanto di ardua realizzazione – richieda il recupero e il rilancio degli ideali che ne sono stati il motore iniziale. Solo una politica d’alto profilo può essere fonte di scelte e comportamenti destinati a generare un benessere maggiore e più equamente distribuito fra tutti i cittadini europei.

La percezione di un’inadeguatezza dell’Ue di oggi dovrebbe accomunare fautori e detrattori dell’Europa – categorie entrambe insoddisfatte, in misura e per ragioni diverse – e unirli nello sforzo comune della ricerca di un percorso più virtuoso, per quanto impervio. Possono sperare, “populisti” e “sovranisti”, di fare man bassa di voti alle prossime elezioni europee mobilitandosi solo per ottenere una sorta di mandato specifico ad abbandonare il campo o a “disfare tutto”, vale a dire tutto quel poco o tanto che esiste delle istituzioni e delle regole europee? Qualunque unione è fondata da un lato sull’esistenza di regole condivise al proprio interno, dall’altro sulla costruzione di un rapporto il più saldo possibile con la realtà che la circonda, vale a dire un sistema di relazioni che la legittimi all’esterno e le dia più forza all’interno.

Sul piano di una politica economica europea, l’esistenza di tali presupposti dovrebbe promuovere le condizioni per:

1) il mantenimento della centralità dell’Euro – e un suo maggior gradimento – attraverso la restituzione di un minimo di flessibilità alle politiche monetarie nazionali, anche a costo di un lieve innalzamento del tasso d’inflazione (per esempio, occorrerebbe concedere ai Paesi più indebitati un margine di manovra per l’emissione di valuta nazionale, ciò che evidentemente richiederebbe una revisione dei Trattati europei);

2) il sostegno di una politica industriale che favorisca il Sud dell’Europa e, più in generale, tutti i Paesi del Mediterraneo, in modo da creare, tra l’altro, condizioni di vita a livello locale idonee a scoraggiare l’emigrazione (per esempio, attraverso forti incentivi alle grandi imprese europee a investire nell’Africa del Nord, in Grecia, in Turchia e nel Mezzogiorno d’Italia).

In sintesi, è fondato il sospetto che un’insufficiente sensibilità delle istituzioni europee per certe istanze dei Paesi economicamente più fragili possa alla lunga far prevalere le tendenze centrifughe su quelle centripete. E sarebbe un vero peccato, poiché le disgregazioni e le frammentazioni possono risolvere nel breve piccoli problemi lasciandone aperti altri, ben più gravi, che le unificazioni hanno per loro natura una migliore attitudine a fronteggiare.”

Ti è piaciuto questo libro? Lo trovi qui: Sognando l’Europa. Grande statista cercasi

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“Così la società ha legalizzato l’oppressione degli animali” – amoreaquattrozampe.it

Condividiamo il bell’articolo pubblicato su amoreaquattrozampe.it e firmato da Teresa Franco sul nostro titolo “Carne da Macello. La politica sessuale della carne” di Carol J. Adams.

“L’attivista Carol Adams, autrice di Carne da macello – La politica sessuale della carne, svela come la società ha legalizzato l’oppressione degli animali.
In Italia è finalmente disponibile un testo fondamentale sui diritti degli animali, che spiega come siamo condizionati dalla società a pensare agli animali come esseri di serie B. Il libro è Carne da Macello, di Carol Adams.
Pubblicato per la prima volta nel 1990, The Sexual Politics of Meat (il titolo originale del libro, che tradotto significa La politica sessuale della carne) è un testo di riferimento nei dibattiti in corso sui diritti degli animali. Nei due decenni successivi, il libro ha ispirato polemiche e un acceso dibattito.

Viviamo in una cultura che ha istituzionalizzato l’oppressione degli animali attraverso la nostra lingua” ha dichiarato Carol Adams al Corriere della Sera. Una prova? Mangiamo carne di animali morti, quindi di cadaveri. Se parliamo del nutrimento degli avvoltoi, usiamo l’espressione “mangiano cadaveri” o “carcasse” ma per riferirci al nostro usiamo l’espressione “consumo di carne”, quasi per nobilitare il gesto e per non nominare l’animale ucciso, alleggerendoci la coscienza.

La Politica sessuale della carne sostiene che ciò che, o più precisamente chi mangiamo, è determinato dalla politica patriarcale della nostra cultura e che “i messaggi visivi e verbali nella cultura popolare e nella nostra società”, tra cui gli spot pubblicitari, “associano il mangiar carne e il machismo ” .

Viviamo in un mondo in cui gli uomini hanno ancora un notevole potere sulle donne, sia in pubblico che in privato. Carol Adams sostiene che la politica di genere è indissolubilmente legata al modo in cui vediamo gli animali, in particolare gli animali che vengono consumati.”

Per leggere l’intero articolo seguire il link:
https://www.amoreaquattrozampe.it/news/carol-adams-societa-legalizzato-oppressione-animali/59491/

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Filosofemme – Recensione “Carne da Macello”

È uscita il 27 marzo sul sito filosofemme.it una bella recensione di “Carne da Macello. La politica sessuale della carne” di Carol J. Adams, firmata da Roberta Landre.

Qui di seguito un estratto.

“Era il 1989 quando per la prima volta negli Stati Uniti venne pubblicato The Sexual Politics of Meat: A Feminist-Vegetarian Critical Theory, di Carol J. Adams e oggi, grazie a VandA Edizioni, possiamo avere il piacere di leggerlo nella sua più recente traduzione italiana: Carne da macello. La politica sessuale della carne (1). Un testo che ha segnato fortemente lo sviluppo dei movimenti femministi e vegetariani grazie alla sua abilità nello svelare le reciproche dipendenze di queste di forme, teoriche quanto pratiche, di resistenza e lotta politica.

L’attivismo praticato da questa autrice è senza dubbio guidato da una riflessione filosofica orientata alla questione femminista-vegetariana: nella vita di Adams (2) possiamo rinvenire i problemi centrali del secolo scorso e di quello attuale, quali la disparità di genere, la violenza che pervade le nostre società, lo specismo e le lotte politiche. Al fine di raggiungere un’inclusività tale da poter mettere in questione ogni aspetto della nostra vita – intesa come perenne relazione con altri corpi e con simboli culturali – e con lo scopo di smascherare ogni forma di violenza che la cultura antropocentrica e patriarcale ci ha consegnato in eredità, Adams si è posta in prima linea.

Come Aristotele ci ricorda nella Poetica l’uomo è per natura un essere che imita, e grazie all’imitazione conosce ciò che lo circonda.”

Per leggere la recensione completa seguire il link:
https://www.filosofemme.it/2020/03/27/carne-da-macello/

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Regolamento dell’iniziativa denominata: “Colora l’Italia”

1. Concorso a premi e organizzatori

Il concorso a premi online “Colora l’Italia” (di seguito “Concorso”) è offerto da VandA Edizioni con sede legale in via Cenisio 16, 20154 Milano (MI), Italia, P.IVA 08179880961.

La partecipazione al Concorso è disciplinata esclusivamente dai seguenti termini e condizioni.

 

2. Partecipazione

Il Concorso è aperto a tutti i bambini dai 5 agli 11 anni con il consenso dei genitori. La partecipazione al concorso è possibile esclusivamente nel periodo che va dal 3/04/2020 al 30/04/2020.

La partecipazione al concorso è gratuita.

Per partecipare al concorso gli utenti possono:

1. Seguire l’account Instagram @VandAedizioni (link qui)

2. Pubblicare sul profilo Instagram una fotografia del disegno ispirato dalla storia di Agnese Bizzarri usando l’hashtag #vandacoloralitalia.

Oppure iscriversi con il modulo nella pagina del concorso (link qui) e caricare il file con la fotografia del disegno.

I disegni migliori verranno ricondivisi dalla casa editrice sul proprio sito e sui canali social.

Gli unici contenuti consentiti per partecipare al Concorso sono fotografie di disegni, non saranno accettate, pena esclusione dal Concorso, fotografie raffiguranti volti di bambini.

È possibile partecipare al concorso solo con un profilo Instagram pubblico.

 

3. Esecuzione e svolgimento del Concorso

I premi in palio saranno così ripartiti:

1° classificato: riceverà la collana Vandini completa, una pergamena come Miglior illustratore d’Italia e il suo disegno diventerà la copertina de “Il tempo dei colori” di Agnese Bizzarri.

2° classificato: riceverà metà collana Vandini e il suo disegno, insieme a quello degli altri due vincitori, farà parte delle illustrazioni della favola “Il tempo dei colori” di Agnese Bizzarri.

3° classificato: riceverà un libro a scelta della collana Vandini e il suo disegno, insieme a quello degli altri due vincitori, farà parte delle illustrazioni della favola “Il tempo dei colori” di Agnese Bizzarri.

I vincitori saranno contattati dalla casa editrice tramite messaggio diretto sull’account Instagram oppure via email. I premi verranno consegnati ai vincitori per posta all’indirizzo che dovrà essere specificato alla conferma.

La selezione dei tre vincitori si terrà nelle settimane successive alla chiusura del concorso.

VandA edizioni esonera il social media Instagram da ogni responsabilità. Instagram non è collegato in alcun modo all’estrazione del premio. Il concorso non è in alcun modo sponsorizzato, supportato o amministrato da, o associato a, Instagram.

 

4. Esclusione dalla partecipazione

In caso di violazione di questi termini e condizioni, VandA Edizioni si riserva il diritto di escludere i partecipanti dal Concorso.

 

5. Norme generali

È vietato ai partecipanti lo svolgimento di qualsiasi attività fraudolenta o illecita durante lo svolgimento dell’iniziativa. Ogni tentativo di uso fraudolento del materiale della campagna rappresenterà un reato perseguibile penalmente e riconducibile pertanto a procedimenti giudiziari.

Tramite la partecipazione alla presente iniziativa, i partecipanti accettano che le società coinvolte possano effettuare delle verifiche, al fine di controllare il corretto svolgimento dell’iniziativa stessa e l’assenza di condotte dei partecipanti in violazione alle indicazioni del presente regolamento. Qualora un partecipante violi i termini del presente regolamento verrà automaticamente escluso dall’iniziativa.

 

6. Trasferimento dei diritti

Il partecipante trasferisce a VandA Edizioni, affinché ne faccia un uso non esclusivo e arbitrariamente frequente per lo scopo del business locale, tutti i diritti di godimento, i diritti d’autore e diritti connessi, nonché altri diritti su fotografie e/o opere fotografiche che venissero da lui concesse nel quadro della partecipazione al concorso, senza restrizioni in merito a contenuto, tempo e luogo.

7. Trattamento dei dati durante il Concorso

I dettagli sui dati trattati nell’ambito del concorso e sui diritti che spettano al partecipante possono essere consultati nelle nostre informazioni sulla protezione dei dati.

I dati potranno essere comunicati a società delegate e/o nominate responsabili e coinvolte nella gestione della iniziativa, nonché ad altri soggetti terzi incaricati dai titolari della fornitura dei servizi strumentali o comunque necessari alla gestione della iniziativa, ma sempre e comunque esclusivamente ai fini dell’espletamento delle procedure relative all’iniziativa, nonché per gli adempimenti di obblighi previsti dalla legge e/o da norme regolamentari e/o da disposizioni delle Pubbliche Autorità. I dati comunicati a soggetti terzi saranno, in ogni caso, trattati nel rispetto delle previsioni del Reg. UE 2016/679 e delle norme di legge.

I dati personali non saranno trasferiti al di fuori dell’Unione Europea. Il Titolare assicura che non cederà alcun dato personale a terzi affinché questi li utilizzino per finalità commerciali proprie. I dati personali saranno conservati per il tempo necessario all’esecuzione del servizio ovvero nei limiti temporali indicati dalla normativa sulla privacy. Gli utenti possono in qualsiasi momento richiedere l’elenco aggiornato dei Responsabili e degli Incaricati ed esercitare i diritti riconosciuti dagli artt. 15 – 22 GDPR (tra cui revocare il consenso all’utilizzo dei dati personali, bloccare parzialmente o completamente le informazioni personali, domandare informazioni sui Dati Personali in possesso del Titolare e richiederne la modifica) scrivendo all’indirizzo info@vandaepublishing.com

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Il tempo dei colori

una favola di Agnese Bizzarri

Una mattina, l’Italia, si svegliò tutta rossa.

Aveva forse troppo caldo? No, per niente, era ancora marzo…

Si era imbarazzata di qualcosa? Non mi pare.

Si era terribilmente innamorata di qualcuno? Non ancora.

Invece sapete cosa: si era ammalata ed era diventata tutta rossa. Non poteva fare spostamenti, né uscire di casa. Allora si era proprio ammalata! Doveva stare tranquilla e aspettare il tempo della guarigione. Pare fosse arrivato un mostro o qualcosa di simile, non si vedeva, era invisibile, ma era molto potente e cattivo che aveva messo l’Italia in questa situazione. Ma non mi soffermerei troppo, parlano tutti di questo, invece, vorrei raccontarvi del tempo altro: quello dei colori.

Ai bambini e alle bambine il rosso piaceva, però preferivano tutti i colori. Bianco, verde, giallo, marrone, rosa, arancione… I tanti colori dell’Italia. I suoi colori. 

“A noi tutta rossa non piace mica tanto, vogliamo ridipingerla come era prima.

Ci penseremo noi! 

Noi siamo molto bravi a colorare. A scuola lo facciamo sempre! Voi grandi siete più portati in altre faccende, ora è il nostro tempo, mettetevi da parte.”

Perché per mischiare e rifare i colori e dipingere l’Italia ci voleva tempo.

Ma soprattutto si dovevano preparare i colori.

Per farlo però i grandi avrebbero dovuto fermarsi.

Era il tempo dei colori.

Così accadde che i bambini e le bambine di tutta Italia si riunirono. Ci volle tempo perché tutti si incontrassero. Erano tanti, tantissimi bambini e bambine! Alcuni arrivarono col grembiule come dei veri pittori, altri vestiti sportivi, altri in pigiama, altri ancora in mutande e canotta, dalla fretta non si erano nemmeno vestiti non c’era poi tutto questo tempo, alcuni bambini arrivarono con le provviste: focacce e merende per tutti, altri con caramelle e ciupa ciupa.

Molti presero il sacco a pelo nel caso mentre coloravano si fossero addormentati, perché sarebbe stato un lavoro lungo. Altri caricando sulle spalle zainetti con i loro peluches, nel caso fossero rimasti lontani da casa parecchio.

Nonostante fossero moltissimi, si organizzarono benissimo. Presero enormi tavolozze di colori, tempere, pennelli di ogni misura e secchi di acqua. Con le loro mani prepararono, mischiandoli tutti, i colori: verde, giallo, arancione, marrone, rosa, viola…

All’inizio erano troppo densi o troppo opachi o poco lucidi… Così con calma e pazienza aggiunsero acqua. Li rimescolarono di nuovo. Doveva uscirne un lavoro perfetto. Così ricominciarono.

Iniziarono ma passò un autobus che fece uno stridulo rumore, che confusione! Poi c’era il via vai dei negozi e della gente che continuava a uscire e andava a mangiare fuori. “Insomma non si riesce a lavorare, ci dobbiamo concentrare, dobbiamo dipingere tutta l’Italia, ma loro hanno capito?”

“Ci insegnano sempre che per studiare bene ci vuole concentrazione e poi cosa fanno?… Mah!”

Così i bambini inascoltati passarono a tenere minacce:

“Se non la smetterete coloreremo anche voi! C’è chi diventerà arancione, chi giallo, chi verde! Avete capito?”

I grandi capirono il messaggio e si fermarono per un po’. I negozi chiusero, tranne quelli per mangiare e curarsi, bisogna mangiare anche per colorare!

E con tanto impegno iniziarono a colorare l’Italia.

Ogni bambino e ogni bambina colorava a suo modo e proprio per questo il colore era ancora più bello.

C’è chi era più meticoloso, chi più fantasioso, chi più estroso.

Il tempo era come sospeso perché loro dovevano colorare senza sosta. Dai che funziona! Colorate! Senza fermarvi! “Non deve uscire nessuno! Il colore si deve asciugare per bene con il tempo. Se uscirete prima lo calpesterete e dovremmo ricominciare di nuovo”.

Minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, mese dopo mese… 

Passò il tempo e piano piano, poco a poco, si ricominciò a vedere il verde, il bianco, il giallo, il rosa, il marrone, il viola, il blu, l’azzurro…

I colori erano tornati… quanta emozione. 

Ma soprattutto che soddisfazione dopo tutto lo sforzo fatto!

Una notte però l’Italia si svegliò ed era di nuovo rossa… Si era innamorata pazzamente. 

Era di tutti i colori ma ora era diventata rossa solo per amore.

Ti è piaciuta la favola?

Partecipa al contest: “Colora l’Italia” (link qui)

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“Homo donans. Per un’economia del materno”, Genevieve Vaughan

Per Genevieve Vaughan linguaggio e scambio (il commercio, il mercato) non sono poi così distanti. In entrambi, secondo l’autrice, non si fa altro che soddisfare un bisogno.

C’è però nel linguaggio un senso di condivisione che nello scambio è del tutto assente. 

In Homo donans. Per un’economia del materno l’autrice rintraccia un aspetto fondamentale del nostro essere umani: la pratica del dono che consiste in un ascolto attento e sincero dell’altro e dei suoi bisogni. 

In un’indagine che si snoda tra femminismo, linguistica, semiotica, economia e antropologia Genevieve Vaughan propone di riscoprire il valore del dono per farne un nuovo tipo di economia. 

Leggine un estratto…

“Secondo quanto sostiene David Gilmore nel suo testo Manhood in the Making (“Mascolinità in costruzione”, 1990), i valori adottati dagli uomini nel processo di formazione della propria identità possono essere ricondotti a una sorta di “copione della mascolinità” che rimane relativamente invariato a seconda delle diverse culture. Valori quali indipendenza, competitività, eccellenza performativa, coraggio, robusta costituzione e grossa taglia compongono i parametri di questo copione che viene adottato e costruito dai maschi per distinguersi dalle madri.

Credo che possiamo facilmente riconoscere quanto questi valori siano analoghi a quelli del capitalismo: autonomia, competitività, eccellenza performativa, attitudine al rischio e status elevato in base alla “taglia” sociale, per possedere più ricchezza o potere. Avendo abbandonato la pratica del dono unilaterale sia come genere sia come modello di produzione e distribuzione, potrebbe sembrare che solo tramite la legge o il rigore morale e religioso gli uomini (e le donne che vivono all’interno di un sistema capitalistico) possano venire persuasi a prestare attenzione ai bisogni altrui.

Eppure il perseguimento esclusivo del proprio interesse è un vicolo cieco dal punto di vista psicologico. Chi lo pratica finisce per trovare la propria vita priva di “significato”. Trovare significati a livello individuale è impresa virtualmente impossibile giacché, nel linguaggio come nella vita, il significato è legato alla comunicazione e all’orientamento verso l’altro. Ci aggrappiamo alla legge del prototipo maschile come misura del nostro comportamento ma ciò non serve a ricondurci sulla strada del dono, che ci appare sempre più un impossibile e non realistico Eden.

Nel frattempo il modello economico proposto dal copione della mascolinità continua a costruire un anti-Eden, creando miseria laddove dovrebbe esserci abbondanza, gratificando pochi con averi in quantità sempre maggiore e penalizzando molti, innalzando un muro oltre al quale l’Eden del donare rimane celato.

Uno dei vantaggi che il capitalismo ha avuto – forse il suo unico risvolto positivo – è che, attraverso l’istituzionalizzazione dei valori appartenenti al copione della mascolinità e all’introduzione delle donne nella forza lavoro retribuita, esso ha dimostrato che quei valori ipoteticamente “maschili” non poggiano affatto su fondamenta biologiche, considerato che le donne sono state in grado di adottarli con altrettanto successo. Una società basata sul dono unilaterale sarebbe in grado di dimostrare, istituzionalizzando il copione delle cure materne, che nemmeno quei processi sono limitati biologicamente alle femmine”.

Ti è piaciuto questo libro: lo trovi qui “Homo donans. Per un’economia del materno ”, Genevieve Vaughan

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Perché le donne competono fra loro

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Il conflitto fra le donne… non è un problemino fra isteriche ma il retaggio di un’antica ferita”, Sofie della Vanth.

Carla Lonzi diceva che la donna appartiene alla specie dei vinti ma non vuole ripetere la storia dei vincitori.

Un’operazione non sempre facile però, soprattutto quando anziché allearsi con le altre si compete. Ma perché proprio noi donne tanto famose per la nostra capacità di tessere relazioni siamo, tra di noi, così in conflitto?

Sofie della Vanth in “Il conflitto fra donne… non è un problemino fra isteriche ma il retaggio di un’antica ferita” indaga a fondo questo tema aiutandoci a fare un esercizio di autocoscienza perché solo ponendo il problema potremo affrontarlo. 

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“Normalmente il conflitto fra le donne viene percepito come una faccenda privata e tacitamente accettato come condizione normale, senza un’analisi del momento storico, del tessuto politico-sociale, del paradigma della nostra società “civilizzata” in cui esso si manifesta.

Ci sono due principali contestazioni sollevate di frequente quando si parla del conflitto fra le donne, che poggiano su un pensiero generico – e non di genere –, come se non si fosse arrivate/i a comprendere fino in fondo il significato rivoluzionario del femminismo per la nostra società di oggi e di domani.

La prima dice: “Io non ho conflitti con le donne e non li conosco, non esistono nella mia vita”.

Senz’altro ci sono donne che non hanno esplosioni conflittuali in atto nella loro storia personale, lacerazioni aperte o sfuriate pubbliche e che stanno bene più o meno con tutte e con tutti, essendo bravissime diplomatiche, capaci di gestire situazioni precarie. Ciò però non vuol dire che non conoscano il conflitto, o che non ci sia. A volte si svela nell’irritata osservazione del comportamento conflittuale di amiche, incompreso come tale e considerato piuttosto una noiosa perdita di tempo e di energie. A volte si nasconde bene, come succede sovente anche tra le donne che subiscono violenza domestica. Bisogna aprire la scatola e spiegare cosa si intende per conflitto, come altrettanto bisogna spiegare come si articola la violenza – una botta di là, una denigrazione di qua – per cogliere la realtà del fenomeno. Soltanto riconoscendolo si può evitare l’applicazione del so­lito giudizio maschile, e spesso delle stesse donne sulle don­ne e le loro bizze, per aprire alla possibilità di accogliere e considerare una verità più ampia.

L’altra contestazione dice: “Non c’è differenza tra i conflitti fra le donne e i conflitti fra donne e uomini o fra uomini”.

C’è invece.

C’è differenza fra un conflitto con un oppressore o tra oppressi. Di fatto non esiste per le donne parità nella società attuale ed è indispensabile riconoscere questo come un aspetto determinante. Il campo in cui si svolge il contrasto definisce una disparità fra i sessi, e quindi le modalità e i limiti del rapporto, le speranze, le aspettative, le valutazioni sociali e il naturale accesso al potere personale.

Un altro elemento determinante è che le donne entrano subito in sintonia fra loro su un livello poco praticato, poco percepito coscientemente – se non proibito – nella cultura attuale. Vivono immediatamente un sapere disponibile e condiviso. Questa coesione tocca e attiva il “campo morfico” (di cui parleremo) femminile, in cui esistono contenuti non condivisibili con altre specie e neanche con gli uomini. Sebbene durante l’Inquisizione siano stati bruciati anche uomini, la maggior parte dei roghi è stata riservata alle donne quali rappresentanti della cultura pagana, matriarcale e del sapere femminile in collegamento con la Natura e la Terra. Questa eredità storica ricopre le donne di vergogna, umiliazione, terrore, sfiducia, negando le loro facoltà intrinseche. Impedisce di vivere serenamente nell’adempi­mento della pienezza e integrità e si riversa in modo differente, rispetto agli uomini, nel rapporto fra loro.

In seguito a questo sconvolgimento culturale la donna nasce, da diversi secoli oramai e ancora oggi, nella convinzione di essere colpevole, sporca, inferiore e incapace, appendice di un “qualcun altro”, il solo in grado di comprendere com’è fatta la vita e come bisogna fare. Sarebbe ingenuo credere che sia un fatto su cui è possibile sorvolare.

Bisogna scavare nel profondo per tematizzare il conflitto fra le donne come fenomeno e inventare un linguaggio adeguato per descrivere cosa sta davvero succedendo, quanto fa male, quanto occupa i nostri pensieri. Spesso rimane lì come un ulteriore avvenimento non definibile anche se ci fa soffrire, anche se limita le possibilità di realizzare progetti fra donne e lascia ferite che ci rendono caute e rassegnate, che ci incitano a rinunciare e a ignorare le vocine che cantano di altro”.

Ti è piaciuto questo brano? Trovi il libro qui: “Il conflitto fra le donne… non è un problemino fra isteriche ma il retaggio di un’antica ferita”, Sofie della Vanth.

 

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“Le radici materne dell’economia del dono”, Genevieve Vaughan

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Le madri sono abituate a dare sostentamento gratis.

Da bambini infatti non possiamo dare alcun ritorno, perciò è compito della madre fare attenzione ai nostri bisogni e trovare il modo di soddisfarli.

Secondo l’autrice di “Le radici materne dell’economia del dono” è verso i 3-4 anni che iniziamo a capire che se diamo per primi qualcosa potremmo ricevere qualcos’altro in cambio. Una logica, spiega Genevieve Vaughan, molto diversa dal dono.

L’economia dello scambio, a differenza del dono, è infatti fondata sull’utilitarismo: do per avere qualcosa. Un sistema che conosciamo bene e che ha portato alla difficile situazione in cui ci ritroviamo oggi ossia un sistema parassitario che arricchisce i molti sulle spalle dei pochi e che trae profitto proprio dal dono.

Un’alternativa c’è ed è possibile per questo l’autrice condivide le esperienze dei popoli indigeni del Nord e del Sud del mondo dove i valori materni sono ancora al centro della società sia per gli uomini che per le donne. 

Leggine un estratto…  

“Siamo forse alla fine? Che cosa possiamo fare? Von Werlhof (2011) sottolinea come una reale alternativa al patriarcato capitalista debba necessariamente essere “profonda”, altrimenti è destinata a fallire. Per questo dobbiamo riconoscere le radici mortali di questo sistema a tutti i livelli della società, della storia, della vita individuale e del pianeta. L’alternativa deve essere non-capitalista e non-patriarcale, incentrata sui resti della cosiddetta “seconda cultura”, una cultura matriarcale e basata sul dono all’interno della società patriarcale senza la quale non potremmo sopravvivere (von Werlhof 2011).

Per quanto queste rimanenze siano state rese invisibili agli occhi della maggior parte di noi attraverso la violenza, possono ancora ritrovare visibilità ed essere riportate alla consapevolezza. Immaginate un mondo in cui non si diano e non si ricevano doni, in cui non ci siano cure materne o accudimento: un simile mondo crollerebbe all’istante, la sopravvivenza sarebbe impossibile. Per poter sopravvivere dobbiamo lasciarci alle spalle la mega-macchina e riconnetterci alle pratiche materne datrici di vita in ogni dimensione della vita: lasciare per vivere!”

Ti è piaciuto questo libro? Lo trovi qui: “Le radici materne dell’economia del dono”, Genevieve Vaughan

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«Così la nostra cultura ha istituzionalizzato l’oppressione degli animali» – Carol J. Adams su Corriere.it

È uscito sul Corriere online un bell’articolo della giornalista Silvia Morosi su “Carne da Macello. La politica sessuale della carne” di Carol J. Adams.

Eccone un estratto:

“Arriva in Italia «Carne da macello», la traduzione del libro considerato la «Bibbia del veganesimo». Il testo esplora la relazione tra patriarcato e consumo di carne, intrecciando le intuizioni del femminismo, del vegetarianismo, della difesa degli animali.

«Viviamo in una cultura che ha istituzionalizzato l’oppressione degli animali su almeno due livelli: in strutture come macelli, mercati della carne, zoo, laboratori e circhi; e attraverso la nostra lingua. Il fatto che ci riferiamo al consumo di carne piuttosto che al consumo di cadaveri è un esempio centrale di come la nostra lingua trasmette l’approvazione della cultura dominante di questa attività». È questo uno dei punti centrali di «The Sexual Politics of Meat» di Carol J. Adams. Uscito per la prima volta negli Usa nel 1990 e da allora ristampato numerose volte, già tradotto in 10 lingue e ampliato dall’autrice in occasione del ventennale («The Pornography of Meat»), il testo arriva anche in Italia per VandA Edizioni come «La politica sessuale della carne» (dall’8 marzo, con traduzione di Matteo Andreozzi e Annalisa Zabonati). Il testo esplora la relazione tra patriarcato e consumo di carne intrecciando le intuizioni del femminismo, del vegetarianismo, della difesa degli animali e della teoria letteraria. Dalle radici storico-culturali ai messaggi visivi e verbali che nella nostra società e nella cultura popolare associano il mangiar carne e la mascolinità. «Ho avuto l’idea nel 1974 quando studiavo la teoria femminista ed ero appena diventata vegetariana (oggi è vegan, nda). Mentre camminavo verso Harvard Square a Cambridge, mi sono resa conto che il consumo di carne faceva parte di una cultura patriarcale», racconta al Corriere della Sera Adams, «rendendomi conto che il femminismo offriva un approccio teorico per comprendere quanto le proteine vegetali siano più sane, meno distruttive per l’ambiente e per gli animali». “

Per leggere il seguito:
https://www.corriere.it/animali/20_marzo_04/carol-j-adams-cosi-nostra-cultura-ha-istituzionalizzato-oppressione-animali-e6cc5658-5d36-11ea-ad92-9d72350309c8.shtml

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SOSPESO – Fiera dell’Editoria delle Donne Feminism 3

Con grande dispiacere dobbiamo comunicare che la Fiera dell’Editoria delle Donne Feminism è stata sospesa.
Di conseguenza, tutti i nostri eventi in programma sono annullati.

Restiamo in attesa di ulteriori aggiornamenti.

VandA Edizioni anche quest’anno parteciperà alla Fiera dell’Editoria delle Donne Feminism che si terrà a Roma dal 5 all’8 marzo 2020.

Ecco qui l’elenco dei nostri eventi:

Giovedì 5 marzo alle ore 17:00 presso la Casa Internazionale delle Donne, Via della Lungara 19, in Sala 2 Caminetto: presentazione di “Carne da Macello. La politica sessuale della carne” di Carol J. Adams. 

Venerdì 6 marzo alle ore 19:00 presso la Casa Internazionale delle Donne, Via della Lungara 19, in Sala 4 Trust VandA: presentazione di “Cosa siamo disposte a fare per la nostra libertà” di Alessandra Bocchetti.

Sabato 7 marzo alle ore 12:00 presso la Casa Internazionale delle Donne, Via della Lungara 19, in Sala 2 Caminetto: presentazione di “Fai la brava. Se il mostro delle favole è mio padre” di Katia M

Non mancate!

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“Carne da Macello” – intervista su Radio Radicale

Radio Radicale parla di noi nell’intervista a Matteo Andreozzi e Annalisa Zabonati, traduttori e curatori dell’edizione italiana di “Carne da macello, la politica sessuale della carne” di Carol J. Adams, realizzata da Cristiana Pugliese con Silvia Molè (membro dell’Associazione radicale Parte in Causa – Associazione Antispecista).

L’intervista è stata registrata martedì 3 marzo 2020 alle 18:45.

Nel corso dell’intervista sono stati trattati i seguenti temi: Animali, Antispecismo, Cultura, Donna, Femminismo, Libro, Societa’.

Potete ascoltare l’intervista al link: http://www.radioradicale.it/scheda/600021