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San Valentino VandA: tutto il catalogo al – 20%

VandA Edizioni quest’anno festeggia San Valentino promuovendo tutto il catalogo al 20% di sconto.

Contro gli stereotipi sessisti, regala libri, libri di libertà, libri sopra le righe, libri d’amore.

Amore romantico, amore totalizzante, amore erotico, amore di tutti i colori, amore senza fine. Scolpito sul rispetto e sul consenso.

Contro la valenza e la discriminazione, festeggiamo (e agiamo) il rispetto e il consenso!

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Donne afghane, vivere tutti i giorni nella guerra

Con Corrispondenze afghane Nico Piro, inviato speciale del TG3, si pone un solo, chiaro obiettivo: raccontare la complessità di un paese problematico come è quello dell’Afghanistan per il quale gli stereotipi cui ci affidiamo per comprenderlo rivelano, alla realtà dei fatti, tutta la loro inefficacia.

Quella che si combatte in Afghanistan è un tipo di guerra in cui “a morire, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono né i buoni né i cattivi, ma persone che non c’entrano nulla”. Le guerre non si combattono solo sui campi di battaglia, ma anche nelle case e nei villaggi. Attraversano la vita dei civili e la cambiano irreparabilmente.

Le condizioni di vita di tutti sono difficili ma quelle delle donne lo sono in particolare.

Leggi l’estratto che abbiamo selezionato per te da Corrisponde afghane di Nico Piro, pubblicato dal nostro marchio associato Poets & Sailors

ADDIO AL BURQA

di Nico Piro

Proprio non riesce a venderne più. Sulle pareti della sua bottega ce ne sono tanti, ormai ridotti a far tappezzeria. Ne afferra uno, se lo stende tra le braccia, e ce lo mostra. Sul viso, l’espressione di chi sa di avere in mano un prodotto di prima qualità e non si rassegna all’idea che nessuno lo compri.
Haji Abdul Sabur è uno storico produttore – l’ultimo di Kabul – di burqa sartoriali, altra roba rispetto a quelli fatti in Pakistan e venduti sulle bancarelle del mercato. La sua bottega è nel bazar lungo il fiume, il cuore della capitale che ne conserva l’antico fascino40. Per anni i suoi burqa si vendevano in automatico, oggi Abdul deve sperare nella visita di clienti che arrivano dalle campagne. Questa tunica che copre le donne dalla testa ai piedi, lasciando loro solo il varco di una finestrella retata per provare a guardarsi intorno, è stata per anni un’icona di Kabul.
Celeste nella capitale, di altri colori – nero e persino giallo sgargiante – nelle province, il burqa è stato anche uno dei simboli più strumentalizzati e agitati dalla politica occidentale per giustificare la presenza internazionale nel Paese.
Ogni volta che la politica ha tentato di sostenere quella missione poi rivelatasi “incompiuta” ha ripetuto lo slogan: “Liberare le donne dal burqa” forse ancor di più che “fermare la produzione di oppio” o “siamo lì per garantirci sicurezza qui, a casa”.
L’obiettivo, quasi due decenni dopo la caduta dei talebani, pare finalmente raggiunto: nelle strade di Kabul ormai di donne in burqa se ne vedono sempre di meno. Molte vanno in giro solo con il chador, il velo intorno alla testa che spesso passa solo intorno alla gola, senza coprire il viso dal naso in giù. A voler fare un paragone limitandosi solo al tema del velo, la situazione a Kabul assomiglia a quella del confinante Iran (ma senza le sanzioni di legge imposte alle donne che il velo non lo indossano) mentre le cose vanno molto meglio rispetto all’ Arabia Saudita, principale alleato occidentale e luogo dove l’estremismo si è fatto Stato. Un cambiamento ben testimoniato anche dai manifesti elettorali. Com’è potuto accadere tutto questo in una città dove fino a sei-sette anni fa le uniche donne coperte solo con il velo le trovavi negli uffici e in generale in luoghi chiusi al pubblico, dove per giunta ricoprivano ruoli importanti?
Non è merito della “democrazia” né del miglioramento della condizione delle donne, un miglioramento certo importante ma limitato e fragile come del resto dimostrano le mai cessate violenze domestiche e i matrimoni combinati, come da antica tradizione tribale.
Per capire cosa sia accaduto, dobbiamo andare sull’Airport Road. Alcune donne in burqa spiccano ai lati della strada, all’apparenza sono lì di passaggio, in attesa di qualcosa. In realtà sono prostitute che usano il burqa per non rendersi riconoscibili, lavorano su questa come su altre strade. Questo tipo di prostituzione – assieme a quella che impiega donne cinesi, cominciata sin dalla fine della prima decade del 2000 – è diventata sempre più una delle attrazioni di Kabul, almeno per gli uomini che vengono dalle province. Si parte da dieci dollari in su a seconda del rapporto ma se prima di pagare vuoi vedere il viso della donna che hai appena fatto salire in auto, devi versare un’altra somma – in moneta locale circa 500 afghani. A questo punto puoi decidere se quella donna va bene per te oppure se farla scendere.
Questa è la prostituzione di “livello” più basso offerta dalla capitale tanto che i clienti occasionali sono spesso bersaglio di furti, le prostitute li borseggiano sapendo che non andranno mai a denunciarle per vergogna, anzi per doppia vergogna: erano con una prostituta e si sono fatti fregare.
Lavorano su strade come la Airport Road, dove c’è meno traffico ed è facile per i clienti fermarsi e farle salire a bordo. Portano il burqa esattamente come quelle donne che trovi accovacciate sui marciapiedi oppure che vedi aggirarsi tra le auto nel traffico, sono poverissime e mendicano la “zakat”, l’elemosina che ogni buon credente ha il dovere di lasciare ai bisognosi.
Le mendicanti e le prostitute hanno in comune due cose: sono vedove di guerra o donne cacciate di casa dai mariti, diseredate di solito per “crimini morali”; nascondono la loro vergogna dietro il burqa.
Le altre donne che non vogliono essere prese né per mendicanti né per prostitute, il burqa l’hanno abbandonato forti anche di una giustificazione morale che ha reso il gesto più socialmente accettabile; fermo restando che è stata comunque una liberazione da quella prigione tessile.
“Le donne che vestono il burqa fanno cose brutte, io e le mie amiche non l’abbiamo mai indossato”. Farzanà avrà sedici, forse diciotto anni, vive a Kabul ma la sua famiglia viene dalla provincia di Logar, dove invece – racconta – indossare quella tunica oppressiva è obbligatorio, per la tradizione e per difendersi dai comportamenti aggressivi degli uomini. Ma, come sempre in Afghanistan, la spiegazione non è mai unica: “Il problema del burqa sono le esplosioni. Le donne hanno smesso di usarlo anche per i problemi che si creavano ai posti di blocco in città, dove c’è più controllo e dove comunque gli uomini hanno cambiato atteggiamento”.
In alcuni quartieri, come il PD22 dove vivono famiglie Pashtūn più conservatrici, al posto del burqa sta prendendo piede lo hijab41, il velo nero, integrale, che copre il viso della donna come in Arabia Saudita, scendendo poi fino ai piedi oppure è accompagnato da un camicione anch’esso nero. Fino a qualche anno fa, a Kabul non se ne vedeva nessuno, oggi lentamente cominciano a spuntare nelle strade ma ancora in maniera episodica visto che la stragrande maggioranza delle donne indossa solo il velo.

Poi ci sono donne come Samira che il burqa non lo indossano perché lei non lavora in strada, si prostituisce solo su “chiamata”, per quanto orribile sia questa definizione.
Ha ventotto anni, i capelli lunghi quasi fino ai fianchi e i tratti mongoli degli Hazāra. A guardarla non capisci se la sua bellezza sia già sfiorita come capita a tante donne afghane, già vecchie a quarant’anni, oppure se quella bellezza semplicemente non ci sia mai stata.
A nove anni, nel suo villaggio nella provincia di Bamyan, è andata a casa del suo vicino, che all’epoca aveva trenta-trentacinque anni. “Mi ha dato dei soldi in cambio di una cosa che non sapevo nemmeno cosa fosse, il sesso”. Quando l’uomo l’ha penetrata, lei è svenuta. “Ricordo solo che al risveglio, intorno a me c’era tutta la mia famiglia che piangeva”.
Una vita segnata sin dall’infanzia, continuata in un campo profughi iraniano dove Samira ha capito che l’unico modo per fare soldi era vendersi. Ha cominciato a prostituirsi a sedici anni per poi scoprire che non avrebbe mai potuto avere figli. Nel 2011 è tornata in Afghanistan ma non ha mai smesso di fare il “mestiere”.
“Io il burqa non lo uso perché ho i miei clienti, non devo andare in strada a cercarmeli. Loro mi chiamano e prendiamo un appuntamento”. “Mia mamma sa che lavoro faccio ma se non lavoro la mia famiglia non va avanti”.
Nell’industria della prostituzione a Kabul, Samira è un gradino sopra rispetto alle donne che vestono il burqa. Non è solo una questione di abito ma di consapevolezza, lei sa che può contrarre malattie sessuali gravissime (l’HIV è una delle nuove piaghe dell’Afghanistan)42 e quindi prova a tutelarsi.
Il mercato del sesso nella capitale è una delle amare novità del post-2001, figlia dell’economia di guerra e quindi di quattro decenni di violenza. E’ un mercato articolato e vario seppur invisibile. Oltre Samira e le altre “squillo”, per i ricchi afghani ci sono le bellezze esotiche in vendita a Dubai, a prezzi altissimi.
Nell’ipocrita Kabul lacerata dalle bombe, il burqa – prigione per il corpo delle donne – da simbolo dell’integralismo religioso è diventato uno strumento di quella che gli zeloti definirebbero corruzione morale.

Se il burqa è stato sconfitto dai miliardi di investimenti occidentali, quest’ultimi non sono riusciti nemmeno a garantire un’effettiva tutela delle donne: in quel baratro che è la giustizia afghana, la protezione delle donne è forse il recesso più recondito.
Dal 2009 in Afghanistan è in vigore una legge contro la violenza sulle donne, la EVAW (Elimination of Violence against Women) ma in realtà è inapplicata.
In generale, per svariati motivi, sono poche le donne che trovano il coraggio di denunciare violenze domestiche o matrimoni combinati e subiti. Il fenomeno viene quindi sottostimato dai dati ufficiali.
Le poche che denunciano si trovano di fronte autorità che, al posto di occuparsi del caso come imporrebbe la legge, le spingono verso la tradizionale mediazione condotta dagli anziani del villaggio43; mediazione che può partire solo dopo aver formalmente ritirato la denuncia penale. Più della metà dei 237 casi vagliati dall’UNAMA tra il 2015 e il 2017 si sono conclusi con una mediazione, un atto che viola la legge ma che è incoraggiato da chi quella e altre leggi dovrebbe applicare.
Il risultato è che gli uomini – anche in caso di reati gravissimi come l’omicidio – se la cavano con impegni del tipo “non lo farò più” assieme al pagamento di risarcimenti di sorta alla famiglia della vittima (e all’anziano che ha condotto la mediazione).
Ci sono poi casi in cui il rimedio “concordato” altro non è che un ripetersi del crimine: per esempio, un matrimonio combinato salta per il rifiuto della sposa “designata”. I mediatori tacitano il marito “mancato” e la sua famiglia, stabilendo una nuova “baar”. Una sorella o un’altra donna della famiglia viene ceduta allo stesso uomo, al posto di quella “ribelle”.
In generale da questa prassi la giustizia, lo Stato, l’autorità nazionale ne escono profondamente indebolite e delegittimate agli occhi delle vittime, presenti e future.
Tra il 2016 e il 2017 dei 280 casi di femminicidio e delitti d’onore documentati dalle Nazioni Unite in Afghanistan, solo 50 sono andati avanti per via giudiziaria con la condanna finale del colpevole.
Una giustizia che – attraverso ordini di giudici, procuratori e poliziotti – fa anche altro per allontanare le donne: continuando a sottoporle a test di verginità scientificamente inconsistenti oltre che umilianti, invasivi e – per giunta – vietati da un ordine del presidente Ghani del 2017 e da un provvedimento del Ministero della Sanità del 2018 44.
Metà delle donne in carcere in Afghanistan (la percentuale arriva al 95% quando si tratta di detenute minorenni) sono dietro le sbarre per “crimini morali”, molti dei quali provati proprio con l’esame dell’imene45.
L’altro paradosso che indebolisce la EVAW è che non tiene conto delle necessità economiche delle vittime: “Come evidenziato dalle donne in questo rapporto, un motivo pratico che influenza le vittime, nel rinunciare alla via giudiziaria a favore di una mediazione, è il fatto che l’EVAW ricorre esclusivamente a pene detentive. (…) La donna che ha denunciato e i suoi bimbi faticano a sopravvivere durante la detenzione del colpevole e quindi la stessa detenzione rappresenta un indesiderato e non sostenibile rimedio ai problemi iniziali. Inoltre, le «sopravvissute» (alle violenze denunciate) hanno paura dello stigma sociale e della marginalizzazione ad opera delle proprie famiglie e del villaggio dove vivono, una volta lasciate sole senza un marito”46. Insomma a queste condizioni perché denunciare? Senza considerare poi che anche quando l’iter giudiziario va avanti, il livello di corruzione nel sistema è tale che non c’è certezza né di una sentenza giusta né della pena.
In sintesi, è come se in Afghanistan avessimo costruito un sistema che alimenta speranze nelle donne ma non garantisce l’incolumità di quelle donne che provano a trasformare speranze e sogni in realtà, né di quelle che si ribellano alla mafia della moschea in nome della loro radicata religiosità né di quelle che non riescono più a subire violenze domestiche e vanno dalla polizia.

Il libro è disponibile in formato cartaceo e in formato ebook e sui principali store online.

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Salario domestico: il lavoro casalingo è un lavoro?

Portata all’attenzione da alcuni gruppi femministi negli anni ’70, la questione del valore economico del lavoro domestico, sempre sottovalutata e mai risolta, viene curiosamente risollevata negli ultimi mesi, negli Stati Uniti, da alcuni Democratici candidati alle presidenziali, che propongono un salario domestico per i genitori che rimangono a casa ad occuparsi dei figli.

Per saperne di più, date un’occhiata all’articolo “Stay-at-Home Parents Work Hard. Should They Be Paid?” di Claire Cain Miller, pubblicato lo scorso ottobre sul sito del New York Times.

Sulla spinosa questione del salario domestico, leggi in “Manifesti Femministi“:

Lo chiamano amore. Noi lo chiamiamo lavoro non pagato.
La chiamano frigidità. Noi la chiamiamo assenteismo.
Ogni volta che restiamo incinte contro la nostra volontà
è un incidente sul lavoro…
Omosessualità e eterosessualità sono entrambe condizioni di lavoro […]
ma l’omosessualità è il controllo degli operai

sulla produzione non la fine del lavoro.
Più sorrisi? Più soldi.
Niente sarà più efficace per distruggere le virtù di un sorriso.
Nevrosi, suicidi, desessualizzazione: malattie professionali della casalinga.

da “Salario contro il lavoro domestico” di Silvia Federici
in “Manifesti Femministi“, edito da VandA Edizioni

Si constata l’esistenza di due modi di produzione nella nostra società:
la maggior parte delle merci è prodotta in base al modo industriale;
i servizi domestici, l’allevamento dei figli e un certo numero di merci sono prodotte in base al modo familiare. Il primo modo di produzione dà luogo allo sfruttamento capitalista. Il secondo dà luogo allo sfruttamento familiare, o più esattamente patriarcale.

“Formalmente libera di lavorare fuori casa, la donna non lo è di fatto. Una parte della sua forza-lavoro resta appropriata, dato che lei deve “assumere i propri obblighi familiari”, cioè fornire gratuitamente il lavoro domestico e allevare i figli. Non solo il lavoro fuori casa non la dispensa dal lavoro domestico, ma esso non deve nuocere a quest’ultimo. La donna è dunque
soltanto libera di fornire un doppio lavoro in cambio di una certa indipendenza economica. La situazione della donna sposata che lavora mette bene in evidenza l’appropriazione statutaria della sua forza-lavoro. Infatti, la fornitura di lavoro domestico non è più giustificata dallo scambio economico a cui viene abusivamente assimilato il servaggio della donna
“a casa”: non si può più sostenere che il lavoro domestico venga effettuato in cambio del mantenimento, che il mantenimento sia l’equivalente del salario e che questo lavoro, quindi, sia pagato. Le donne che lavorano si
mantengono da sole e forniscono dunque il lavoro domestico in cambio di nulla. Inoltre, quando una coppia calcola quello che guadagna una donna che lavora “fuori”, deduce le spese di custodia dei figli, gli oneri aggiuntivi ecc. soltanto dal salario della donna invece di sottrarre queste spese dall’insieme dei redditi della coppia. Ciò dimostra che:
1) si ritiene che tali consumi dovrebbero essere gratuiti, al contrario di consumi come l’alloggio, i trasporti ecc. che non vengono a propria volta dedotti dai guadagni;
2) si ritiene anche che tali consumi dovrebbero essere prodotti esclusivamente dalla donna: una parte del suo salario è considerata come nulla, poiché serve a pagare ciò che lei avrebbe dovuto fare gratuitamente. Alla fine di questo calcolo, generalmente si scopre che la donna non guadagna “quasi niente”. In Francia, secondo il censimento del 1968, il 37,8% delle donne sposate lavora fuori casa (Rouxin 1970).”

da “Il Nemico Principale” di Christine Delphy
in “Manifesti Femministi“, edito da VandA Edizioni

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Il teatro sposa la politica delle donne – Recensione di “Donne che attraversano la scena teatrale”

Nell’ultimo numero della rivista Leggere Donna è uscita una bella recensione del nostro libro “Donne che attraversano la scena teatrale” di Donatella Massara, firmata da Serena Fuart.

Donne che attraversano la scena teatrale” è un sette pièce di Donatella Massara, andate in scena in questi anni con la compagnia teatrale Donne di parola. Un teatro dove prende corpo ora la storia delle donne ora la parola, la politica e l’ironia femminista. Le biografie e l’opera di artiste e scrittrici hanno ispirato la sua drammaturgia, maturata con la passione per la differenza sessuale. L’autrice diventa così una cantora che raccoglie vite ed esperienze del nostro tempo.

Di seguito alcuni estratti della recensione.

“Il libro unisce la passione artistica dell’autrice alla sua pluriennale esperienza politica nel movimento femminista della differenza sessuale. Ne esce un testo che scardina i tradizionali punti di vista della storia e dell’arte per farne una rilettura originale in chiave femminista. In questo libro l’arte teatrale sposa la politica delle donne nel senso che, attraverso l’arte scenica, l’autrice fa anche politica femminista: il libro è, principalmente ma non solo, un viaggio di donne, donne in relazione tra loro, che attraverso i testi teatrali, scritti da Donatella Massara e fedelmente riportati, ci portano dentro la vita e la storia di grandi protagoniste.”

“Un altro aspetto politico del libro è certamente quindi il cambio di prospettiva con cui si legge la realtà: nella cultura mainstream le donne che si sono distinte per aver disatteso i classici ruoli di mogli e madri vengono spesso etichettate come pazze, malate o, nella migliore delle ipotesi si descrive il loro successo in quanto mogli o parenti di qualche uomo illustre. Donatella dà alle protagoniste il ruolo di soggetti attivi, con una loro storia e una loro prospettiva esistenziale.”

“Si tratta insomma di un libro che presenta più piani, più livelli: storico, politico, emotivo. Inoltre la scrittura di Donatella, raffinata ed elegante, ci conduce per mano dentro vite, storie, vissuti, emozioni, arte e cultura. Ci fa gustare delicatamente ogni dettaglio culturale e riferimento politico della differenza sessuale. Un libro che mentre si legge, trasforma, perché, si sa, quando c’è una pluralità di punti di vista avviene il cambiamento dentro e fuori di noi.”

Per la recensione completa vi invitiamo a seguire il seguente link e a scaricare la rivista in formato pdf: https://www.leggeredonna.it/2019/11/03/leggere-donna-n-185/

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Presentazione Ci sei laFeltrinelli di Catania

VandA è lieta di invitarvi alla presentazione del libro “Ci sei” di Anna Maria Briga che si terrà alla libreria laFeltrinelli di Catania, in via Etnea 283/285/287, il giorno martedì 21 gennaio 2020 dalle ore 18:00.

Parlerà del libro con l’autrice la scrittrice Chiara Aurora Giunta, con le letture di Grazia Previtera.

Ci sei” è una raccolta di pensieri di una nonna che aspetta l’arrivo del suo nipotino. Ci avevate mai pensato che anche le nonne sono “in attesa”?

Soprattutto quando la futura madre è la figlia femmina! Una sorta di simbiosi scatta con la propria figlia, che a sua volta genererà un/a erede che continuerà la storia della famiglia e del mondo.
Un teatro di emozioni e sentimenti si schiude alla “grande notizia” per la giovane nonna e il cuore è un fiume in piena. Quante cose da dire allo sconosciuto in arrivo, quante cose da spiegare, quante da svelare, che mondo ricco ha davanti!
Un piccolo libro, un grande dono per il nascituro: una lieve annotazione quotidiana delle emozioni, le gioie, le paure che hanno accompagnato la sua gestazione e la sua nascita! Commovente e autentico, impreziosito da sognanti illustrazioni d’autore.

Vi aspettiamo numerosi alla presentazione!

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Presentazione Innamorate laFeltrinelli di Catania

VandA è lieta di invitarvi alla presentazione del libro “Innamorate” di Chiara Aurora Giunta che si terrà alla libreria laFeltrinelli di Catania, in via Etnea 283/285/287, il giorno lunedì 20 gennaio 2020 dalle ore 18:00.

Parlerà del libro con l’autrice il giornalista Piero Isgrò, con le letture di Francesca Fichera e con l’accompagnamento della musica dal vivo di Sabina Caruso.

“Innamorate” è un romanzo che parla dell’amore tra Francesca e Gaetana, due ragazze che s’incontrano per caso e tra cui scoppia una passione travolgente. Un sentimento fuori dalle regole che coinvolge la loro vita e quella di chi le ama. Una storia moderna, uno spaccato della società che muta, la nascita di una famiglia non tradizionale. Tra menzogne e verità celate, emerge la storia segreta delle loro famiglie d’origine. In un gioco di specchi, le passioni di ieri e di domani si confrontano. Nulla e nessuno si salva, se non la speranza di un avvenire in cui i sentimenti e la tolleranza troveranno spazio.

Potete acquistarlo a questo link: https://www.vandaepublishing.com/prodotto/innamorate-edizione-cartacea/

Vi aspettiamo numerosi alla presentazione!