“Giuseppina Norcia è una garanzia: la sua è una scrittura che viene da “lontano”, da una lontananza fatta di sapienza, saggezza, amore ed elezione. Giuseppina Norcia è una creatura armoniosa, tra le cui mani scivolano sete d’Oriente e lini d’Occidente, nella cui voce c’è la grazia di una poetessa e la potenza oracolare di una profetessa sicana.
Dopo il suo Achille, “compagno di Thanathos”, non mi sarei mai aspettata Elena e, invece, ecco che, sorprendentemente, arriva colei della quale nessuno ha saputo dire “com’era fatta”: del resto, “Nessuno lo sa, perché nessuno l’ha mai guardata: bisognava adorarla come una dea o possederla come una femmina” e gli uomini la amavano “fino ad esserne terrorizzati”.
Con un incipit di tal genere, non si può che immergersi “dentro” l’incantesimo di Elena, del suo odore, che “si respira” anche se lei non c’è.
“Di Elena non si sa niente. Crediamo di conoscerla, non l’abbiamo mai guardata”: è questo il paradosso, Elena, infatti, è la bellezza e la sciagura, è doppia, è carnefice e vittima, è fiamma d’amore, oggetto d’odio.
Elena è una maledizione, per sé e per gli altri: “tutti coloro che hanno desiderato Elena, intorno a lei hanno costruito un’ossessione consumata nella violenza, individuale e collettiva. Nella rovina”. Elena è Lolita, ma è anche vittima sacrificata; Elena è un corpo da espugnare come fosse una citta e, allora, sostiene l’autrice, “il sesso diviene un’esposizione del potere e della guerra”.
E’ maestra di seduzione Elena, come Aspasia, “con lo sguardo da cagna”, ma è figlia di Zeus, forse; oggetto di una contesa divina, è la vittoria amara della bellezza, una bellezza “mai detta”, che solo apparentemente vince, perché “la bellezza è divenuta una prigione” e “mantiene sempre un carico di dannazione”.”
Su TSD.it è uscita una recensione di “A proposito di Elena” di Giuseppina Norcia.
Eccone un estratto:
“Prima di addentrarci nel libro che più che romanzo storico, definirei “saggio divulgativo sulla figura di Elena nella letteratura”, mi pare opportuna una breve inquadratura su tempi e luoghi. La guerra di Troia è storicamente provata, è durata una decina d’anni e si è conclusa probabilmente attorno al 1250 a.C.. Gli scavi effettuati dall’archeologo Schliemann seguendo le descrizioni riportate nei testi omerici hanno evidenziato testimonianze riconducibili a un’antica città che si trovava in Asia Minore, all’entrata dello stretto dei Dardanelli, suddivisa in più strati appartenenti a epoche diverse, uno dei quali bruciato attorno al 1250 a.C. Non è storicamente attendibile il fatto che la guerra sia stata scatenata dal rapimento di una donna, Elena. Il motivo va ricercato in un contesto commerciale, in quanto la posizione sopra descritta apriva la via a transiti navali, scambi di merci e quindi buoni introiti economici. Troia, o Ilio, appariva in tutto e per tutto una piazza da conquistare. Sulla scia di questa antica guerra, le cui testimonianze potevano essere state tramandate per via orale, si è poi ricavata la leggenda. E, la leggenda, racconta che Elena, bellissima regina di Sparta, sposa di Menelao, venne rapita per amore da Priamo e portata a Troia. E per riprendersi l’amata, il re spartano mosse l’esercito aprendo la via a una guerra che avrebbe visto la caduta di Troia e, in seguito, la nascita di due grandi poemi: l’Iliade e l’Odissea.”
Su Camminosiracusa.it è uscito un bell’articolo firmato da Giuseppe Matarazzo su “A proposito di Elena” di Giusi Norcia.
Eccone un estratto:
“«Crediamo di conoscerla, Elena – scrive Norcia -, eppure per certi versi di lei non si sa niente, se non l’effetto sugli altri. Desiderata e temuta dagli uomini, disprezzata (e temuta) dalle donne. Non riabilita il femminile, non è un’eroina come Antigone o Ifigenia, donne del coraggio e del sacrificio. La sua Bellezza è “imperdonabile”. Così sembrerebbe». «Non c’è più tempo, è questo il Tempo. Voltati. Prima che si sbricioli la bellezza del mondo. Voltati, e per la prima volta guardami», grida Elena. Ieri, oggi. «Alcuni miti o personaggi possono rimanere quasi sopiti, per poi risvegliarsi, attivarsi quando risuonano con un dato tempo – riprende Norcia -. Credo, ad esempio, che in questo momento un personaggio come Elena sia interprete di temi urgenti, dall’uso dei corpi delle donne alle cause (o ai pretesti…) dei conflitti, dal rapporto tra verità e mistificazione al potere tremendo o salvifico che la bellezza ha sul cuore umano. “La bellezza, senza dubbio non fa le rivoluzioni. Ma viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei”. Quale bellezza, dunque, salverà il mondo?». Da Elena a Dostoevskij. La domanda è lì. Per la risposta «non c’è più tempo». È questo il tempo.”
La recensione, di cui lasciamo un estratto, è firmata da Franca Tombari.
“Scritto nel 1990, viene pubblicato ora in Italia per la prima volta, ma è ancora molto attuale perché esplora la relazione tra il patriarcato e il consumo di carne. Libro chiaro e potente, è un classico del movimento vegano e femminista, conosciuto in vari paesi.
I motivi per non consumare carne, o se si preferisce, i prodotti di origine animale, sono molti: ambientali (gli allevamenti intensivi sono una delle principali fonti di inquinamento da Co2 e quindi del cambiamento climatico), salutisti (troppa carne fa male), etici (la soppressione di altri esseri viventi animali non è ammissibile secondo gli antispecisti), ed infine culturali, per la stretta relazione tra il dominio patriarcale e l’ideologia del consumare carne. Adams si concentra su quest’ultimo fatto: evidenzia la stretta relazione tra la violenza sui corpi degli animali e quelli femminili, ugualmente trattati come pezzi di carne, e sottolinea come la carne stessa sia simbolo del patriarcato perché è l’alimento che, si dice, apporta forza muscolare. Quindi è prediletta dai maschi e serve a costruire una certa idea di mascolinità, mentre, nella cultura in cui è la normalità la sopraffazione e il dominio, il cibo vegetariano e/o vegano viene associato ai gay, alle donne e ai soggetti moralmente e fisicamente deboli. Perciò sono stati osteggiati e ridicolizzati coloro che volevano astenersi dal consumo di animali morti: proprio questo avviene quando si mangia carne, si mangiano animali uccisi spesso in modo cruento. La violenza viene allontanata e mascherata: l’animale reale, con la sua vita fisica, viene separato da ciò che viene messo sulla nostra tavola e per nascondimento diventa semplicemente “carne” che si può consumare ed anche abusare. L’autrice conclude: “Il vegetarianismo può essere una parte integrante dell’identità femminile autonoma: è una ribellione contro la cultura dominante, indipendentemente dal fatto che si è dichiarata o meno una rivolta contro le strutture maschili. Resiste alla struttura del referente assente, che rende oggetti le donne e gli animali”.”
“Abbiamo intervistato Barbara Balsamo, che insieme a Silvia Molè, Matteo Andreozzi e Annalisa Zabonati ha collaborato alla pubblicazione dell’edizione italiana di La politica sessuale della carne di Carol J. Adams, pubblicato da Vand.A.edizioni. Barbara Balsamo ha anche curato, e in parte tradotto, Liberazione totale del filosofo americano Steven Best, edito da Ortica Editrice.
Ricordiamo che “Carne da macello” sarà presentato a Roma Martedì 28 Luglio, dalle 18:30 alla Casa Internazionale delle donne.
VOCI SINISTRE: Come nasce l’idea di portare in Italia, a trent’anni dalla sua pubblicazione negli Usa, La politica sessuale della carne di Carol J. Adams?
BARBARA BALSAMO: L’impatto della pubblicazione del libro di Carol J. Adams, ormai 30 anni fa, è stato dirompente e grazie a questo studio i movimenti di lotta sociale, in particolare quello femminista, hanno subito una grande trasformazione rispetto al passato. Ha contribuito e sostenuto l’intersezionalità. In particolare, le istanze antispeciste che fino ad allora non avevano ancora trovato una collocazione tra le lotte sociali hanno iniziato a circolare in ambito femminista. In questi anni chi propone e teorizza l’antispecismo politico ha suggerito numerose prospettive e strategie di lotta. Certamente la prospettiva intersezionale è tra le più significative. The Sexual Politics of Meat è stato tradotto in moltissime lingue, anche in italiano grazie ad Annalisa Zabonati e Matteo Andreozzi e finalmente quest’anno pubblicato dalla casa Editrice Vand.A.edizioni.
VOCI SINISTRE: Nella postfazione curata da te e Silvia Molè c’è questa frase: “Immaginiamo cosa si potrebbe fare se ci si unisse tutti e tutte”. Il tema delle alleanze è molto dibattuto sia all’interno del femminismo che dell’antispecismo. Se, da una parte, la questione femminile e quella animale faticano a guadagnare il giusto riconoscimento da parte degli altri movimenti per la giustizia economica e sociale, dall’altra, gli stessi movimenti femminista e antispecista si trovano continuamente frammentati all’interno, con correnti più radicali ed altre che, spesso, strizzano l’occhio ai fondamenti ideologici che dovrebbero proporsi di combattere. Lo stesso mancato riconoscimento, ad esempio, della necessità di allargare lo sguardo alla schiavitù animale da parte di una buona fetta di femminismo ne è un esempio tangibile. Quali chiavi pratiche offre, secondo te, Adams affinché si riemerga da questa situazione di stallo?
BARBARA BALSAMO: La questione, come hai già esposto nella domanda, è complessa e purtroppo difficile da districare. Tuttavia, ogni cambiamento nei movimenti porta momenti di riflessione e resistenza, come quando sono state elaborate le istanze del femminismo postcoloniale africano. Anche in quel caso ci fu una certa resistenza, oggi, per fortuna, ampiamente superata. Ritengo che queste forme di diffidenza e chiusura siano (ahimé) fisiologiche. L’atteggiamento di chiusura e pregiudizio verso i Rom anche da parte di una certa sinistra radicale ne è un esempio. La questione animale, forse la più ostica da cogliere e accogliere, non è esente da queste dinamiche. Al contempo, la frustrazione derivante dal senso di impotenza che colpisce molti attivisti, soprattutto in ambito antispecista, induce all’identitarismo e quindi all’esclusione sia nelle riflessioni teoriche che nelle prassi degli altri movimenti di lotta. Il testo di Adams è stato un apripista in questo senso, argomentando e analizzando la prospettiva intersezionale tra oppressione della donna e oppressione animale. Ogni giorno assistiamo all’”animalizzazione” della donna. Il punto centrale del testo è il corpo. La reificazione del corpo, delle donne come degli altri animali, e la conseguente sua mercificazione sono un nodo cruciale nell’analisi della studiosa statunitense. Purtroppo, spesso le donne si sentono discriminate nel momento in cui si stabilisce il legame donna / animale come se questa connessione fosse di per sé già discriminatoria. Siamo al paradosso: pensare che sia discriminatorio assimilare la donna all’animale è proprio ciò che dimostra la Adams in Carne da macello. Lo specismo radicato strutturalmente nel pensiero sociale non solo impedisce di cogliere i nessi causali tra specismo e oppressione della donna ma ostacola la riflessione su queste dinamiche di potere interconnesse. In sintesi, le donne rifiutano di essere associate agli altri animali (come spesso si rifiuta l’associazione schiavitù animale/schiavitù umana) poiché considerati per antonomasia inferiori! Un cortocircuito del pensiero che la Adams ha tentato di interrompere, a mio avviso con un discreto ma lento successo. Il corpo è il luogo fisico e simbolico sul e nel quale si manifestano mercificazione e guerre ideologiche. Ed è anche il campo dell’intersezione. Questo processo di gerarchizzazione e de-formazione dei corpi è lo stesso che applichiamo agli altri animali. Proprio dall’oppressione degli altri animali – corpi completamente “altro da quelli umani” – deriva infatti il concetto stesso di smembramento dei corpi. L’analisi della Adams parte da qui e arriva alla teorizzazione del referente assente che è il cardine generativo delle gerarchie e delle oppressioni della donna e degli altri animali. Per poter comprendere a fondo il fenomeno delle oppressioni e la questione intersezionale delle lotte bisogna però chiarire un aspetto imprescindibile: il capitalismo. La genesi strutturale delle società di dominio culmina con il capitalismo moderno. Il fil rouge che passa dalla questione animale gettando un’abbagliante, pionieristica luce sulla prospettiva intersezionale delle oppressioni deve necessariamente partire dalla lotta al capitale che genera e struttura i rapporti di forza e di dominio.”
Francesca è una ragazza del Nord che sembra aver assunto su di sé le regole severe impostale dalla famiglia, Gaetana invece è di tutt’altra tempra: giovane, sportiva e determinata nella vita come sulle discese in assetto variabile di cui è campionessa.
Tra loro nasce una forte intesa che presto si trasforma in amore, un amore per cui dovranno essere disposte a cambiare se non vorranno rinunciarvi.
Leggine un estratto…
“Francesca e Gaetana uscirono dal locale mano nella mano, passeggiando per corso Como tra la folla rumorosa. In silenzio percorsero la rampa pedonale che s’inerpicava fino a piazza Gae Aulenti, un gioiello luccicante racchiuso tra le torri cromate degli edifici che la circondavano, incastonandola come un diamante prezioso.
La piazza brulicava di attrazioni, attorno alle quali si accalcavano persone di ogni età; faticarono a smarcarsi tra i capannelli di chi guardava giocolieri e chi faceva la fila per pattinare sull’emiciclo montato allo scopo, chi si attardava tra i baracchini di un mercato racchiuso tra casette di legno e chi comprava dolcetti e frittelle da una moto Ape dai colori sgargianti. Sul lato opposto della piazza, raggiunsero il ponte proteso su viale Melchiorre Gioia. Dai parapetti di acciaio potevano scorgere lo spettacolo di un fiume ininterrotto di auto i cui fari tracciavano ghirlande di giochi di luce. Alzando il capo, ammirarono la punta d’acciaio del cono avveniristico della torre Unicredit, una freccia luminosa protesa verso il cielo limpido e terso, punteggiato di stelle velate dal riflesso delle luci della città. Francesca e Gaetana camminavano senza proferire parola, le mani strette, timorose di perdersi ancora. Fu solo all’estremità opposta del ponte che raggiunsero il palazzo d’acciaio e vetro dove era l’appartamento di Gaetana. L’androne, illuminato da faretti fluorescenti, sembrava un palcoscenico pronto per la recita, al centro del quale campeggiava un tavolo trasparente di cristallo azzurrino su cui un portiere gallonato osservava gli schermi dei computer di controllo. Non appena le vide, l’uomo si alzò di scatto e si fece loro incontro con modi cordiali e professionali. «Buonasera, contessina. Felice di rivederla.» «Grazie, Filippo. Tutto bene a casa?» «Certo. Devo ringraziarla per il regalo a mio figlio.» «Lascia stare, solo un pensiero.» Francesca era un po’ confusa: non era abituata a tanta opulenza e ne era un po’ intimidita. Gaetana le strinse la mano e l’avvisò: «È solo apparenza, quando saremo sopra, vedrai che tutto sarà perfetto!» «Ma è già perfetto. Solo che mi sembra… troppo.» Entrarono nell’ascensore dalle cromature lucide e le porte si chiusero con un lieve sibilo. Finalmente erano sole. Gaetana l’attirò a sé e la strinse forte come se avesse temuto di perderla da un momento all’altro. Francesca affondò il viso tra i riccioli scuri e inspirò il profumo di Angel che sulla pelle di Gaetana assumeva un che di sensuale e fanciullesco al tempo stesso. Ebbe una vertigine di piacere. Le loro bocche non riuscivano a staccarsi, mentre l’ascensore saliva silenzioso fino a fermarsi dolcemente al piano. Solo allora riuscirono a riprendersi e si voltarono all’unisono mentre le porte si aprivano su un ampio soggiorno open space dalle cui vetrate si poteva ammirare uno spettacolo ancora più suggestivo di quello della passeggiata. Milano era ai loro piedi, colorata e ammiccante. Le luci soffuse della sala contribuivano a creare un’atmosfera rarefatta che metteva in risalto il chiarore della città in movimento, come un quadro vivente appeso alla parete del cielo nero. «Ma è stupendo!» esclamò Francesca, non sapendo se era più stordita per la vicinanza di Gaetana o per quanto le era apparso all’improvviso. «Sì. È vero, ma tu sei più bella» in effetti non aveva staccato gli occhi dalla compagna che teneva stretta per mano. Non aggiunsero altro. In pochi minuti i vestiti erano in terra e loro due stavano salendo una scala a vista che tagliava elegantemente la sala. «Dove… dove andiamo?» riuscì ad articolare Francesca, facendosi trascinare docilmente. «In camera mia, vedrai, ti piacerà» disse con un sorriso Gaetana, ma dovette fermarsi presa dalla voglia irresistibile di baciarla ancora e di accarezzare il suo corpo nudo. Pochi passi ancora e furono in una grande camera con un immenso letto rotondo, alle pareti specchi fumé riflettevano ogni angolo della camera e facevano da cornice a una grande finestra a parete illuminata dalla notte cittadina. Gaetana porse la mano a Francesca e si sdraiarono sul materasso fissandosi mute negli occhi. La passione bruciava sulla loro pelle e quasi esitavano a darle corso nel timore di rovinare la magia del momento. Le mani presero a sfiorarsi prima timidamente poi con audacia. Fu Gaetana a fermarsi, quando sembrava che nulla avrebbe potuto frapporsi fra loro. «Non mi hai detto se hai pensato a me in questi giorni…» «A volte, soprattutto la notte…» «E…» «Sì, mi sono toccata pensando a te…» «Ahhh» Gaetana si piegò su di lei e la sua lingua prese a scorrerla fra i seni. «Questo è troppo. Ora però devi farmi vedere come hai fatto» la tentò. Francesca si sentì avvampare, l’inguine in fiamme. «Io non so…» Gaetana le prese una mano e la guidò verso il suo sesso. «Fammi vedere, ti prego…» La mano di Francesca prese a muoversi tra i riccioli biondi, le dita premevano e formavano lenti cerchi premendo sul suo punto più sensibile. Gaetana la fissava avida delle sue reazioni, accarezzandosi un seno languidamente. «Non lo avevi mai fatto prima, vero?» chiese con voce roca. «No» mugolò Francesca.
Le piaceva sentirsi guardata da lei, accresceva il piacere che continuava a darsi. Il suo corpo sembrava incamerare l’energia che quelle carezze suscitavano in lei, pronte a esplodere in un orgasmo che ancora non voleva assecondare. Gaetana le si avvicinò e cominciò ad accarezzarla anche lei. Le sue dita scivolarono umide dentro il sesso di Francesca, muovendosi al suo ritmo, invadendo ogni suo orifizio. «Oh, Gaetana, è bellissimo!» esclamò Francesca e il suo corpo si abbandonò a un orgasmo tanto violento da toglierle il respiro. Inarcò i fianchi e si protese verso Gaetana che le chiuse la bocca con un bacio rovente, la lingua che saettava tra le sue labbra. Il silenzio della camera fu invaso dal respiro affannoso di Francesca, quasi un canto di passione. Quando il suo corpo si placò e il suo respiro si fece più regolare, Gaetana sussurrò al suo orecchio: «Tutto questo è troppo per te?» «No, Gaetana non è mai troppo» e non mentiva. In fondo, però, ma molto in fondo, si sentiva in colpa: non le aveva detto di avere un marito. Soprattutto di essere andata a letto con lui, rientrata a Milano. Ma era sicura che Gaetana sarebbe ripartita in breve tempo e che ogni cosa sarebbe tornata alla normalità. Allora perché creare problemi e rovinarsi un momento così bello?”
“Grecista e scrittrice, collaboratrice di lunga data dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa, Giuseppina Norcia è molto legata alla sua città, cui ha dedicato il primo libro che ha scritto: Siracusa. Dizionario sentimentale di una città (uscito per VandA nel 2014). Appassionata e studiosa di storia antica e miti, nel 2017 ha pubblicato il romanzo per ragazzi Archimede. Una vita geniale (VerbaVolant); nel 2018 è uscita con L’ultima notte di Achille (Castelvecchi); da qualche mese è in libreria con A proposito di Elena (VandA), nel quale la storia della donna diventata simbolo assoluto di bellezza viene riletta e analizzata da nuovi (e moderni) punti di vista, lontanissimi dagli stereotipi.
Qui Giuseppina ci rivela la “sua” Siracusa. Tre luoghi iconici visti e raccontati da Giuseppina: attraverso una riflessione, un ricordo, una storia…“
Su Sulromanzo.it è uscita una bella recensione di “A Proposito di Elena” di Giusi Norcia firmata da Eva Luna Mascolino.
Eccone qui uno stralcio:
“A proposito di Elena di Giuseppina Norcia, uscito per VandA edizioni in versione digitale nel mese di maggio e in edizione cartacea lo scorso giugno, è una pubblicazione che fin dal titolo fa riferimento alla sua struttura e al contenuto, pur mantenendo viva la curiosità di chi si appresta a leggere una trattazione ragionata su una delle figure mitologiche più celebri e decantate dell’antica Grecia. Proprio per questo, da una parte, il focus su Elena di Sparta sembrerebbe avere fin troppi precedenti autorevoli per suscitare interesse, anche se dall’altra parte la scansione scelta dell’autrice ne chiarisce l’originalità e gli approfondimenti svolti a monte.
Il testo, infatti, si configura come uno studio ragionato sulla natura archetipica e allo stesso tempo inevitabilmente umana della giovane figlia di Tindaro, che si sviluppa per lo più in ottica tematica, oltre che temporale, nel tentativo di scorporare le voci circolate su questo personaggio, le sue caratteristiche, le diverse versioni del suo mito e le parole che pronuncia secondo l’uno o l’altro autore classico. È per tale ragione che Giuseppina Norcia esordisce evidenziando innanzitutto il più grande paradosso legato alla sua storia, ovvero l’assenza di una qualsiasi descrizione fisica di Elena nonostante la fama di donna più bella del mondo, per poi concentrarsi sull’effetto che tanto fascino ha esercitato sulle persone intorno a lei e sul suo stesso destino individuale.”
Su Rivista Blam è uscita una bella recensione di “A proposito di Elena” di Giusi Norcia.
Eccone un estratto.
“A inizio giugno è uscito nelle librerie il nuovo lavoro di Giuseppina Norcia, pubblicato da Vanda edizioni, casa editrice indipendente che si definisce “dalla parte del femminismo” e si occupa di dar voce alle donne e al dibattito sul femminile. Per questo nel suo catalogo trova spazio anche un saggio bello quanto complesso come A proposito di Elena.
Elena di Sparta, emblema della bellezza: figura enigmatica ma contemporanea
“I miti non hanno vita per sé stessi, attendono che noi li incarniamo”, solo allora ci offriranno intatta la loro linfa.
Le vicende di Elena di Sparta, emblema della bellezza assoluta per la cultura occidentale, ci sembrano note. Crediamo di conoscerle dai banchi di scuola, dove abbiamo studiato l’assedio decennale di Troia da parte degli Achei, generato dal desiderio di possedere Elena. Moglie del re Menelao, rapita per amore (o per l’inganno di Afrodite) dal principe troiano Paride, Elena appare sin da subito il pretesto dello scontro tra i due schieramenti, la merce di scambio per la pace, il trofeo di guerra.
Ma cosa realmente sappiamo su Elena? Nessuno la descrive, nessuno ne considera la volontà o le inclinazioni, i pensieri e i sentimenti. Elena è un enigma, è espressione del desiderio ma anche dell’inganno. Gli uomini la desiderano, ma non l’hanno mai realmente osservata; le donne la odiano e la temono assoggettate dall’invidia e dal continuo confronto.
Elena non è dunque ancora oggi un simbolo potentissimo della mercificazione del corpo femminile? Della bellezza da possedere a tutti i costi ma che diventa schiavitù, prigione?”
“Aphro-ism: Essays on Pop Culture, Feminism, and Black Veganism from Two Sisters (2017), tradotto in italiano da feminoska e edito da VandA edizioni – Afro-ismo Cultura pop, femminismo e veganismo nero (2020) – è il tentativo ben riuscito di rendere in libro l’esperienza che Aph e Syl Ko hanno sperimentato scrivendo sul loro blog aperto nel 2015 sotto il nome di Aphro-ism, tra insicurezze e bisogni.
Loro stesse ci indicano le loro intenzioni: “Dedichiamo questo libro a chi s’impegna a creare una nuova architettura concettuale per il futuro. Speriamo che sia uno dei mattoni per la sua fondazione.”
Quindi un testo che si propone di sfidare le nostre categorie concettuali, la nostra visione del mondo, attraverso lo spirito critico, al fine di creare una nuova base teorica che sostenga delle pratiche inedite di vita. Ed è proprio questo iato di possibilità quello che le sorelle Ko vogliono aprire; riappropriarsi della capacità immaginativa per scardinare le dicotomie su cui l’attuale sistema sociale si regge.
Il Veganismo Nero è il mezzo con cui intendono combattere: è sia una forma di resistenza politica, che uno strumento metodologico entro il quale inquadrare le oppressioni sistemiche prodotte e sostenute dal pensiero coloniale.
La loro analisi prende le mosse dal pensiero antirazzista, che nel suo intrecciarsi con l’antispecismo – attraverso i movimenti di liberazione nera e animale – origina una riflessione circa la comune dipendenza delle nozioni di “umanità” e di “specie”. Nella prospettiva del veganismo nero questi -ismi (antirazzismo e antispecismo insieme a tutti gli altri) sono necessariamente conciliabili.”
Su Letteratitudine è uscito il pezzo di Daniela Sessa su “A proposito di Elena” con una bella recensione e un’intervista a Giusi Norcia.
Eccone uno stralcio:
“Già chiamarla Elena di Sparta o Elena di Troia apre immensi e fecondi scenari. Ma apriamone un altro: se Elena fosse un calligramma, una bella poesia disegnata da Teocrito fino ad Apollinaire. Immaginiamo le parole di Elena intorno al ventre del cavallo di Troia pieno di greci (amici o nemici?) o le parole per Elena dette da Gorgia o inflitte dall’euripidea Ecuba: cosa diventerebbero sulla pagina? Un uovo e un punto interrogativo.
Perché Elena e il suo mistero stanno in quell’origine divina così poetica e violenta assieme. Figlia di Nemesi o di Leda, Elena è quell’uovo appeso al soffitto della reggia di Sparta il cui fato coincide con il rapimento. Ogni attributo di Elena rimanda all’enigma, al bifrontismo, alla fuggevolezza, alla parvenza. Paride la porta a Troia “fittamente velata” come scrive Christa Wolf eppure tutti ne vedono la stravolgente bellezza, luminosa e seducente. Pure il rapimento ha la sua doppia semantica: Elena rapisce e viene rapita.
Soprattutto su questo ruota l’ultimo libro di Giuseppina Norcia “A proposito di Elena” che racconta, con quell’incanto verbale che è proprio della scrittrice, la storia di Elena, il suo destino di rapita attraverso i secoli. Un personaggio aereo appare l’Elena di Norcia, metamorfico nell’attraversare il tempo degli uomini con la stessa sfingea consistenza di Orlando di Virginia Woolf. Solo che qui si gioca su una sorta di eterno femminino che rimanda al corpo della Bellezza, un corpo voluttuario e cavo su cui, nella visione di Norcia, si gioca ogni guerra. “Lei, la multiforme, la mutaforme, sa bene di essere molte cose, vittima e maestra di contemplazione, oggetto del desiderio e tessitrice visionaria chiamata a rappresentare la sua stessa storia. A rappresentare la storia del mondo”.
Norcia ricostruisce la storia della preda mitologica da una Elena zero a un’Elena 2.0 : un viaggio tra il mito e la contemporaneità intrecciando Saffo e Nabokov, Virginia Woolf e Omero, Albert Camus ed Euripide, Simone Weil e Zeusi. Scrive Norcia in uno dei passi più interessanti del libro che per il pittore ateniese ci vollero “Cinque donne per fare un’Elena”. Lo stesso può dirsi di Giuseppina Norcia che per fare la sua Elena fa i ritratti in parole di Briseide, Aspasia, Ifigenia, Kore e… Alcibiade, il giovane e camaleontico stratega innamorato di Socrate, per cui Norcia, sulla scia di Plutarco si chiede “Che donna è Alcibiade?”.
È un tessuto “A proposito di Elena”, forse lo stesso che Elena ricamava nelle stanze infide di Troia: un libro fatto di rimandi e di incursioni sul presente che consentono a Norcia di gettare sul tavolo del mito alcune domande universali: sulla guerra, sulla marginalità delle donne, sulla violenza della guerra contro il corpo delle donne, sulla distruzione della Bellezza e sulla sua incessante ricerca. Il congedo lirico con l’immagine dell’albero di Elena, il platano del bosco fuori Sparta dove si celebravano le feste Helenie fa da controcanto a un secondo congedo, quello dell’esilio di Elena di Camus: si tradisce il bosco nell’epoca delle grandi città.
È un libro prezioso “A proposito di Elena” perché ha l’aspetto di Elena stessa: Norcia dissemina il libro di domande come a ribadire il segno ortografico che Elena incarna nel suo destino di drammatica Bellezza. Perché è esso stesso proteiforme: il racconto pare spezzare (o è il contrario?) una bozza di teatro. Ci sono un prologo e un dialogo dove Norcia si sdoppia nella voce narrante perché doppia (amore e terrore, dono e malattia) è l’idea di Elena, quattro monologhi e un epilogo affidati al personaggio Elena “Simulacri, accuse inconsistenti si contendono la vostra mente: non è bellezza ciò che crea infelicità; o se lo è, è una bellezza tradita, vilipesa, capovolta.”. La voce dell’Elena di Norcia è vellutata, evocativa, soffusa, blu. O forse è la voce di Norcia stessa, della sua scrittura limpida e con il ritmo di un esametro.”
“Il pensiero antispecista vive nel nostro paese un certo fermento negli ultimi anni. Le parole d’ordine del “primo” antispecismo di matrice anglosassone (ma anche – occorre ricordarlo – bianca, maschile, cisgenere e accademica) si accompagnano a riflessioni che muovono da prospettive più ampie e, soprattutto, che dialogano serratamente con altri ambiti di lotta e di elaborazione teorica. Le prospettive foucaultiane in relazione all’ agency animale , la teoria critica seguente alla “svolta” suggerita da Derrida in relazione alla questione animale; gli intrecci con le teorie queer, esplorati interpellando sia la teoria della performatività di Judith Butler sia il versante anti-sociale del queer ), ma anche con altre “correnti” del femminismo, come l’ecofemminismo , l’opera di Carol J. Adams (da poco tradotta ) e l’etica del care. Senza contare il gran lavoro di traduzione, che spesso è sottorappresentato (forse anche perché è prevalentemente femminile), sui blog o a livello editoriale, che si è rivelato preziosissimo per far conoscere ai lettori/trici italian*, soprattutto militanti, alcune voci e alcuni momenti salienti dei dibattiti esteri (si veda il sito del collettivo Les Bitches ). In questo scenario, un ritardo certamente significativo è quello relativo alla messa a tema dell’intreccio tra questioni razziali e questione animale. Sebbene gli elementi non manchino, e sebbene una certa diffusione del metodo intersezionale abbia preparato il terreno per aprire una discussione su tale ambito, è stata fino ad oggi pressoché clamorosa la mancanza delle voci non bianche sulle teorie e le prassi antispeciste/animaliste. Inizia a colmare questo vuoto la traduzione di Aphro-ism. Essays on Pop Culture, Feminism, and Black Veganism from Two Sisters , di Aph e Syl Ko ( Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero , Vanda Edizioni, traduzione di feminoska, 2020), in uscita in questi giorni.
Le autrici, due sorelle afroamericane, hanno dato alla luce un libro per certi versi atipico, costruito a partire dall’omonimo blog, articolando una serie di riflessioni in forma non lineare, non accademica, militante nello spirito e nel linguaggio, ma al tempo stesso ben radicata nelle fondamenta delle riflessioni teoriche del campo dei Critical Animal Studies . La prospettiva delle sorelle Ko è quella di chi si trova, in prima persona, a dover denunciare il biancocentrismo dell’animalismo mainstream, evidenziando gli aspetti escludenti di alcune parole d’ordine apparentemente neutrali dal punto di vista razziale (una su tutte: veganismo ), e il retaggio coloniale di molte pratiche di solidarietà interspecie. Al tempo stesso, però, si tratta di una postura che rivendica la piena considerazione dell’animalità nelle pratiche di decolonizzazione. Come sintetizza Breeze Harper nella prefazione all’edizione originale, “Afro-ismo mette in discussione la narrazione popolare secondo cui antispecismo, liberazione nera e antirazzismo siano incompatibili e causa di divisioni”. Tale prospettiva si radica nel rifiuto della favola del “post-razziale” e trova nel movimento Black Lives Matter un costante riferimento concreto, talvolta anche critico, per scardinare il mito del sapere oggettivo bianco in grado di elaborare una teoria a tutto tondo dello sfruttamento animale in cui sarebbe la buona coscienza dei privilegiati a traghettarci nell’eden vegano. Come emerge dalla pubblicistica che ruota intorno allo slogan go vegan , la liberazione dovrebbe materializzarsi come somma di atti di volontà individuale, generati da un’empatia indifferente agli assi della razza, del genere o della classe e, in definitiva, del tutto disincarnata.
In questo scenario, quella delle sorelle Ko è, sempre prendendo a prestito una fortunata espressione di Breeze Harper, “un’avventura di giustizia epistemica”. Non è solo la determinazione del soggetto nero escluso dal discorso animalista bianco a demolire il trasversalismo politico di chi, anche in Italia, afferma incessantemente che tutti “gli altri discorsi” non fanno altro che sottrarre energie alla liberazione animale; è anche la storia della razza e dell’animalità che, riscritta da un soggetto nero con gli strumenti decoloniali, mostra come sia semplicemente impossibile parlare di due elementi distinti. Le autrici illustrano infatti come razzializzazione e animalizzazione siano legate in modo molto più stretto di quanto lascino pensare gli stessi argomenti che da qualche anno iniziano a circolare in alcune nicchie antispeciste.”
Trovate l’intera recensione nell’edizione di giugno di Ghinea.
Domenica 28 giugno 2020 ricorre il cinquantesimo anniversario del primo Pride, tenutosi a New York nel 1970 per celebrare i Moti di Stonewall dell’anno precedente.
In occasione di questa ricorrenza, noi di VandA Edizioni vogliamo contribuire al sostegno della battaglia per i diritti LGBTQ+ con una lista dei nostri libri a supporto di questa causa.
“Innamorate“, di Chiara Aurora Giunta Francesca e Gaetana s’incontrano per caso e tra loro scoppia una passione travolgente. Un sentimento fuori dalle regole che coinvolge la loro vita e quella di chi le ama. Una storia moderna, uno spaccato della società che muta, la nascita di una famiglia non tradizionale. Tra menzogne e verità celate, emerge la storia segreta delle loro famiglie d’origine. In un gioco di specchi, le passioni di ieri e di domani si confrontano. Nulla e nessuno si salva, se non la speranza di un avvenire in cui i sentimenti e la tolleranza troveranno spazio.
2. “#ioquestamelasposo“, di Agata Baronello È la cronaca vera di due anni di chat. Due anni di vita di una professionista semigiovane e dei suoi goffi tentativi di trovare una compagna – la compagna. Ventiquattro mesi alla ricerca dell’“Amore”. Settecentotrenta giorni di speranze, di sesso a perdere, di mani, occhi e labbra che non si ricordano, di disastri annunciati, conquiste inattese e fallimenti straordinariamente ben riusciti.
3. “Basta che paghino“, di Alessandro Golinelli Quando questo romanzo fu pubblicato, nel 1992, suscitò scandalo. Non solo perché raccontava senza falsi pudori la prostituzione maschile, ma anche perché, per la prima e ultima volta in Italia, la descriveva dall’interno, attraverso gli occhi di un ragazzo che vende il proprio corpo. La storia di Kurt, che si offre sulle strade di Milano con estrema consapevolezza e lucidità intellettuale, dei suoi incontri con clienti e colleghi, la sua curiosità nei confronti delle culture altre, rappresentate dai giovani brasiliani e arabi con cui condivide il lavoro, la sua spietata analisi delle leggi di quel mercato, trasformato in misura di tutte le cose, impongono il libro come una potente metafora dell’etica del commercio che domina i nostri tempi, ma soprattutto come un’incalzante costruzione narrativa, come il corrosivo ritratto di un mondo non tanto marginale quanto si potrebbe supporre. Ambientato in un quotidiano notturno percorso da ragazzi e uomini maturi alla disperata ricerca di un amore impossibile da vendere e da acquistare. Basta che paghino è un romanzo di formazione al disincanto del mondo, alla perdita della purezza, all’inaccettabile vittoria dell’avere sull’essere.
4. “I miei meravigliosi amanti“, di Massimo Scotti “Da giovani si scrive per cercare l’amore, da grandi per liberarsene; mi riferisco ovviamente a quel tipo di amore narcisistico che fa solo soffrire. Un tempo scrivevo per sedurre, perché i miei grandi amori trovassero struggenti le poesie che avevo composto unicamente per loro, i quali d’altra parte non le hanno mai lette (non era gente molto interessata alla lettura). Le mie amiche, più sveglie, non perdevano tempo in madrigali. Infatti hanno raggiunto i loro scopi, in genere piuttosto concreti, mentre io mi accontentavo di aspettare, riempiendo quaderni. Tutte quelle poesie sono rimaste inedite e forse è meglio così. Passate tante notti fra smanie inutili e superflue composizioni, arriva il tempo dei ripensamenti, si leggono autori come Dorothy Parker, regina del disincanto, e si scopre che su quei vecchi tormenti si può ridere un po’, cosa che non fa mai male.
5. “Maschiaccio“, di Liz Prince Maschiaccio è una graphic novel che parla del rifiuto delle costrizioni di genere, ma anche di come del genere si possano involontariamente far propri gli stereotipi, per poi rendersi conto più avanti nella vita che si può essere una femmina sia in jeans e t-shirt che in tutù rosa. Autobiografia narrata per aneddoti, Maschiaccio segue Liz dalla primissima infanzia fino all’età adulta, esplorando le sue tribolazioni e i suoi desideri – in costante evoluzione – rispetto.
6. “La piccola principe“, di Daniela Danna Possono i minorenni voler cambiare sesso? Da dove viene questa strana richiesta, dal momento che cambiare sesso non è realmente possibile? L’attuale confusione tra “sesso” e “genere” indotta dalla filosofia postmoderna, secondo la quale il mondo è un testo e la realtà materiale non ha alcuna importanza, sta dando una spinta potentissima alla normalizzazione delle nuove generazioni. Se sei un bambino effeminato, diventerai bambina. Se sei un maschiaccio, allora sei “veramente” un ragazzo. Big Pharma ti sorride: ti venderà ormoni per tutta la vita.
7. “Trilogia SCUM“, di Valerie Solanas Composta prima del risveglio della seconda ondata femminista degli anni Settanta, a cui ha fornito un impulso decisivo, e prima della rivolta di Stonewall e della nascita del movimento LGBTI e queer, l’opera di Solanas rivela tutta la sua straordinaria attualità. Un umorismo cinico, incendiario, a tratti sconcertante, si dispiega in una pratica di scrittura che sfugge a facili classificazioni letterarie e apre invece uno squarcio sulla “fogna” da cui la scrittrice fa recapitare il proprio messaggio. La sua verve polemica anticipa temi dibattuti ancora oggi, tra i quali l’uso della tecnologia (inclusa quella riproduttiva), l’esclusione delle donne dalla cultura, dall’arte, dalla scienza e dalle risorse economiche, il lavoro domestico non retribuito delle donne, il sessismo psichiatrico e la critica radicale all’eterosessualità obbligatoria.
8. “In culo a te“, di Valerie Solanas Up Your Ass (In culo a te), che tanto terrorizzò il guru della provocazione Andy Warhol, è un atto unico che racconta la giornata di una giovane prostituta, Bongi Perez – spiritosa, lesbica, implacabile castigatrice delle dinamiche di potere uomo-donna a colpi di battute folgoranti, nonché palesemente alter ego della stessa Solanas – e della variegata fauna metropolitana con cui quest’ultima si trova a interagire: drag queen, marchettari più o meno sfortunati, attempati sporcaccioni, dinamici intellettuali, casalinghe disperate e ragazze emancipate. Di ognuno di essi Bongi, con esilarante e scanzonata puntualità, rivela idiosincrasie, paradossi e contraddizioni – non ultima la grottesca assurdità dei comportamenti tramite cui le donne passivamente adagiate su modelli patriarcali tentano di compiacere gli uomini.
Tazi-Preve in Contro la maternità patriarcale critica il concetto di maternità elaborato dai padri.
Questo saggio mostra come gli uomini abbiano trasformato la maternità svuotandola del suo vero significato e facendo sparire la figura della madre compiendo un “matricidio storico”.
La verità è che questo omicidio può essere compiuto solo in modo simbolico perché gli uomini della madre non possono fare a meno. Non solo perché da lei vengono generati ma perché l’equilibrio della società intera si regge sul suo incondizionato donare.
Eppure sebbene la società si regga sul suo contributo la madre scompare dietro le mura domestiche, isolata e privata di parola.
Ma noi per riprenderci la nostra maternità e la nostra capacità generativa cosa possiamo fare?
Leggine un estratto…
“Secondo la mia tesi, l’odierno concetto di maternità, che io chiamo “maternità patriarcale” (Tazi- Preve 2013), si basa sul matricidio storico (Tazi- Preve 1992), che possiamo rinvenire nel mito, nella psicologia, nella scienza, nella medicina, nella legge, nella politica, nella filosofia e nella religione.
La madre è ancora viva fisicamente, essendo necessaria come fattrice, nutrice e lavoratrice, ma i vincoli e le coercizioni a cui è sottoposta sono il risultato di una violenta trasformazione; peraltro, la seconda ondata del movimento delle donne non è riuscita ad apportare alcun mutamento sostanziale.
Per comprendere come mai la “questione femminile” non sia stata risolta, ma anzi stia peggiorando, è necessario sviluppare quanto prima nuovi strumenti analitici. La maggior parte delle ricerche accademiche non indaga in modo critico e appropriato. Il modo in cui la ricerca sulla maternità è svolta nell’ambito delle scienze sociali, principalmente in sociologia, scienze politiche e psicologia, riferisce di un destino di madri vincolato alle premesse economiche della vita familiare e della forza lavoro (Rille-Pfeiffer e Kapella 2007), o del loro stato psicologico (Klepp 2003) durante la gravidanza, dopo la nascita e nella crescita della prole. L’approccio è descrittivo, segue l’ottica di un’unica disciplina ed è apolitico.
L’intero quadro delle numerose coercizioni a cui le madri sono sottoposte (che io definisco violente) è del tutto trascurato. Johan Galtung (1988) ha mostrato che la violenza non si manifesta soltanto in forma fisica diretta, ma anche a livello strutturale e culturale. L’assenza di risposte appropriate negli studi femministi e nelle teorizzazioni politiche ha portato la cosiddetta Scuola di Innsbruck a sviluppare la Teoria critica del patriarcato.
Si tratta di un approccio che presenta una meta-teoria sistemica interdisciplinare (von Werlhof 2013, Projektgruppe 2009), ma è molto più di questo. È una concezione epistemologica meta-teorica della civiltà in tutte le sue dimensioni. Attraverso i suoi strumenti appare chiaro come lo scopo finale della politica, dell’economia e della società sia la costante distruzione della natura e degli esseri umani volta a una loro ri-creazione artificiale ipoteticamente migliore. Si spiega inoltre come l’idea delirante di un mondo in apparenza migliore possa essere sviluppata solo a partire da «lo shock e il terrore reverenziale» (Klein 2008).
La parola chiave è “patriarcato”, termine usato all’inizio della seconda ondata del movimento femminista per indicare un sistema globale di dominazione delle donne. La Teoria critica del patriarcato parte da un approccio etimologico e mostra come il termine provenga dal latino pater e dal greco árche, che ha diversi significati: può indicare il dominio, ma anche l’inizio (Gemoll 1965). È il padre che vuole prendere il posto della madre come origine e creatore, obiettivo che viene perseguito a livello materiale, ma anche simbolico e mitologico, come nel mito di Zeus
che “fa nascere” la figlia Atena dalla propria testa. Ciò che la versione storicamente più recente del mito nasconde è che, prima di questo presunto parto, Zeus aveva ingoiato la dea Metis incinta della loro figlia. Allora come oggi il patriarcato dipende dall’assimilazione della potenza materna per poter imitare la creazione della vita. Il modo in cui la maternità è attualmente concepita si basa su due tendenze principali. Una è la direzione verso cui stanno virando le teorie e le pratiche femministe. Quello che è successo nelle ultime decadi è che l’approccio di Michael Foucault e la sua teoria critica della modernità sono stati applicati alla teoria femminista e hanno spodestato l’approccio femminista alle scienze sociali. Judith Butler (2013) e altri hanno sviluppato la teoria della performatività di genere, negando che ci sia alcunché di naturale nel corpo femminile e rendendo così impossibile parlare di donne in senso collettivo.
Questo concetto, ampiamente accettato in ambito accademico, ha provocato inoltre una svolta verso l’individualizzazione del “problema femminile” e l’abbandono di una prospettiva sistemica. In un mondo “neutrale a livello di genere”, la possibilità di una concezione collettiva delle donne svanisce e l’attivismo politico contro l’ingiustizia e la violenza strutturali diventa impossibile. Favorendo una
visione individualistica, l’“essere donna” è ridotto a una questione di retorica e il femminismo perde il suo potere trasformativo. Ci si può domandare se fosse effettivamente questo lo scopo della teoria di genere, quel che sappiamo per certo è che tale approccio contribuisce al progetto patriarcale dell’abolizione della madre.
Il discorso pratico politico è dominato dal femminismo liberale e socialdemocratico, secondo il quale è l’occupazione che assicura la libertà, mentre la maternità è una questione personale; le soluzioni proposte si concentrano principalmente sulle strutture per una completa assistenza all’infanzia.
In secondo luogo, i concetti propri del femminismo liberale sono alla base delle misure di gender mainstreaming, come le leggi dell’Unione Europea volte ad aumentare la ricchezza dell’Unione includendo la capacità produttiva delle donne come lavoratrici e madri. In un’“empia alleanza” tra l’approccio liberale e quello di genere, temi come l’intersezionalità e la teoria dell’identità dominano sia il discorso accademico sia quello politico.
I Women’s Studies vengono sostituiti dai Gender Studies e negli ultimi dieci anni anche dai più recenti Sexuality Studies, che si concentrano sull’orientamento sessuale. In questo modo l’attenzione della cultura e della politica, e i soldi che l’accompagnano, si rivolge alla ricerca apolitica sulla “questione di genere”.
L’immagine della madre è anche fortemente influenzata dalla nuova concezione di ciò che un tempo s’intendeva con la parola economia (oikos nomos), secondo l’originario significato greco di fornire alle persone i beni necessari.
Oggi la dottrina distruttiva del neoliberalismo, «in cui i governi nazionali europei sono ora definiti come nulla più che collettori di denaro per banche e multinazionali» (von Werlhof 2011, p. 28), ha portato alla “meccanizzazione” degli esseri umani e dell’intero mondo animato (Genth 2002). Ogni forma di vitalità è distrutta a favore di un mondo trasformato in una “macchina da soldi”.
L’economia del mercato finanziario è basata sul lavoro delle donne come procreatrici e prestatrici di cure. Nel mondo neoliberista la madre è trasformata in un ingranaggio della macchina-famiglia, sradicando così la coesione sociale, la mutualità e un’intera cultura di interazione sociale”.
“Fai la brava. Se il mostro delle favole è mio padre (VandA edizioni)di Katia M. racconta una storia vera di violenze perpetrate da un padre sulla figlia per quattordici lunghi anni, ma soprattutto racconta del riscatto di una donna che è riuscita con incredibile coraggio a rompere il muro di silenzio che ha circondato la sua infanzia negata. Gli abusi sessuali sono iniziati quando Katia aveva quattro anni e proseguiti in un crescendo di perversione fino a quando, raggiunta l’adolescenza, è venuto a galla in seguito alla denuncia della stessa vittima, tutto lo squallore di una vicenda assurda accaduta in un piccolo paese ligure come assurde soltanto possono essere tutte le storie che riguardano la violenza sui minori. Moltissime delle quali rimangono purtroppo sommerse. Si tratta di storie scioccanti che troppo spesso non trovano voce. Questa di Katia dopo essere finita al centro di una vicenda giudiziaria complessa che ha portato alla condanna del padre-bruto, è una di quelle che fortunatamente grazie all’eroismo della persona offesa si è potuta conoscere e costituisce oggi un esempio di come se ne possa uscire, portando un messaggio di speranza alle vittime che per paura o vergogna non hanno trovato ancora la forza di raccontare.
Katia, che ha deciso di pubblicare il suo libro tacendo il proprio cognome per tutelare la figlia, non risparmia nessun particolare della vicenda che l’ha vista protagonista ma ce ne parla con una dignità rara e vitale che trasforma il male in bene con parole necessarie: Usare il male che mi è stato fatto per diventare una persona migliore anziché consumarmi nell’odio o nell’autodistruzione è stata la mia regola, la mia filosofia. Se dal male nasce altro male non si arriva da nessuna parte; ma se dal male nasce anche solo una briciola di bene questo sarà duro come l’acciaio, perché temprato dalle difficoltà e dalla sofferenza, e bisogna usarlo per generare altro bene.
Storie come quelle di Katia si verificano sempre e ovunque, e sarebbe bello pensare ci possa essere anche sempre qualcuno che si accorga che “c’è qualcosa che non va”, qualcuno in grado di vedere un po’ più in là e possa così denunciare, rompendo il circolo vizioso che vede le vittime isolate da tutto e tutti. Servirebbe forse una coscienza collettiva più sviluppata, una responsabilità ancora maggiore e solida e la voglia di urlare, non solo da parte della vittima. Ciò che fa più paura di queste storie, come si apprende dal libro edito da VandA edizioni, è il silenzio che le circonda, come una cortina di nebbia attraverso cui è difficilissimo vedere. Vicki Satlow, agente letterario ed editore, con la sua casa editrice ha avuto a sua volta il coraggio di dare voce a questo memoir perché è necessario che queste storie trovino posto nel mondo editoriale potendo essere lette da chi può trovare in esse un motivo in più di forza per reagire. Chi è vittima di violenza deve combattere molti mostri prima di arrivare ad ottenere giustizia sconfiggendo il proprio carnefice: la confusione, la vergogna e il senso di colpa che porta a mentire a se stessi, ma soprattutto la solitudine. Come se non bastasse deve fare i conti – se trova il coraggio di denunciare e venire allo scoperto – con la reazione di certa “gente” che per ignoranza non è in grado di capire che la vittima è soltanto tale e la vergogna deve appartenere esclusivamente agli aguzzini.
Il paese si divise a metà, chi diceva che non dovevo parlare, che avevo svergognato la mia famiglia inutilmente, che visto che ormai aveva smesso potevo stare zitta; chi invece mi difendeva e diceva che avevo fatto bene a reagire e a denunciarlo. Chi vive in paesi piuttosto piccoli può immaginare quanto si parlò della vicenda. Io non volevo nemmeno uscire di casa, mi stavo chiudendo a riccio, nel mio dolore e col fastidio che chiunque incontrassi ormai sapeva di me.
Non si può mai tacere la violenza se si vuole ricominciare, come ha fatto Katia, a vivere per davvero e il coraggio di denunciare con tutto quello che di molto arduo può conseguire – quel coraggio che sempre troppe poche vittime riescono a trovare – è una lezione importante che tutti abbiamo il dovere di imparare.”
Su La Ventisettesima Ora è uscito un nuovo articolo di Caterina Capparello su “A proposito di Elena” di Giusi Norcia.
Eccone un estratto:
Ogni due secondi, da qualche parte nel mondo, una donna è costretta a sposarsi. E molto spesso dopo un rapimento. Secondo le stime del World Health Organization, sono circa 22 milioni le ragazze che hanno contratto un matrimonio in giovane età. Giovani donne rapite per essere costrette a sposarsi, obbligate a lasciare dietro di sé la propria famiglia, i propri sogni e il proprio futuro. Considerate oggetti privi di qualunque volontà e diritto, queste donne si ritrovano sole, faccia a faccia con uomini che non vogliono affatto la loro felicità: impediscono di avere un’istruzione completa e le costringono a subire violenze. Un fenomeno, quello dei matrimoni forzati, molto diffuso in Rwanda, Etiopia, Nigeria, Kenya, Kirghizistan, India e Cina. Mette letteralmente i brividi l’Ala Kachuu del Kirghizistan (letteralmente “prendi e scappa” nella lingua locale), dove le ragazze vengono rapite allo scopo di diventare spose dei propri rapitori.
Una pratica che, nonostante sia illegale solo dal 2013 (punibile con una pena fino a 10 anni di prigione), ancora continua indisturbata. Secondo le Nazioni Unite, infatti, sarebbero quasi 12.000 le kirghise che ogni anno vengono rapite e costrette a sposarsi. E sono poche le donne che si rifiutano, pena lo stupro o la morte anche per suicidio, circa l’84%, finisce quindi per accettare il proprio destino.
Rapimento e matrimonio hanno un’origine molto lontana, ingiustificabile, ma proveniente da un antico passato. Rapire una donna e farla sua per colpire la società nel profondo, soprattutto in guerra. Ma nell’antichità anche la bellezza di una donna era un’arma a doppio taglio. Rapire la donna più bella significava togliere il bello di una città, togliere ad un uomo il suo trofeo, privarlo della dignità. Chi non conosce la storia di Elena, sposa di Menelao e causa della famosa guerra di Troia. Una ragazza che, per la sua bellezza o per il semplice fatto di essere una donna, aveva già subito due rapimenti. Teseo il primo, Paride il secondo. In entrambi i casi fu riportata a casa, ma a quale prezzo?”
Ricondividiamo la bella intervista di Giusi Sciacca alla nostra Giuseppina Norcia per l’uscita del suo nuovo libro “A proposito di Elena”, uscita sulla sezione culturale de La Sicilia.
Tutto ha avuto inizio in una casa privata di Milano. È il 1960 ed è qui che Masal Pas Bagdadi fonda con la fiducia di sette genitori un asilo che diventerà «un po’ diverso dai soliti».
In Ti cuocio, ti mangio, ti brucio e poi ti faccio morirel’autrice racconta l’esperienza vissuta tra il 1966 e il 1997 e di come, dopo numerose peripezie e avventure, sia nato “il centro giochi” un luogo di ascolto, dialogo e inclusione.
L’approccio di Masal si fonda su un punto saldo: in questo luogo tutto è importante. Ogni gesto, parola e fantasia dei più piccoli è portatore di una valenza simbolica di cui bisogna prendersi cura.
Leggine un estratto…
“Il gioco simbolico
Capita a volte che l’adulto (educatore o genitore) pensi al gioco del bambino esclusivamente come a un’attività peculiare dell’infanzia, la cui funzione è quella di divertire il bambino oppure, in casi specifici, di insegnargli delle cose (gioco didattico). È vero che forse oggi c’è più disponibilità di ieri a capire che il gioco ha una sua funzione nella vita del bambino, ma la maggior parte delle persone non sa in che cosa consista. Per illustrare brevemente come il gioco abbia anche e soprattutto un significato simbolico, in questo capitolo ho cercato di analizzare in modo semplice e sintetico alcuni giochi fatti dai bambini “all’asilo”.
Il lettore potrà seguire così la struttura del gioco, le parole dei bambini e i miei interventi durante lo svolgimento del gioco.
Le interpretazioni riportate di seguito, elaborate in un momento successivo per motivi di ricerca, sono state inserite per guidare il lettore nella comprensione delle dinamiche caratteristiche di questi momenti. Sono convinta che queste osservazioni sull’attività del gioco (che devo in parte alla sensibile collaborazione di Susanna Raimondi e Susanna Cohen) possano stimolare e far riflettere in modo più profondo anche tanti genitori ed educatori. L’acquisizione della capacità di osservare un gioco può essere infatti uno strumento utile per capire che cosa sta a cuore al proprio bambino e per fare, di conseguenza, interventi più appropriati.
Negli esempi riportati è abbastanza evidente il piacere sensoriale e intellettuale che il gioco procura al bambino. Attraverso l’osservazione si possono notare le diverse emozioni, le angosce, le gioie, gli affetti, la rabbia, che sono indice di una vita interiore ricca e complessa.
Eppure, l’aspetto più coinvolgente riguarda proprio l’energia emotiva che ogni bambino proietta sui personaggi, che rappresentano così in modo vivo la sua vita interiore. Nel momento dell’analisi ho cercato di mettere in evidenza le motivazioni interne che spingono il bambino a fare un certo gioco, in modo che il lettore si possa rendere conto di come le spinte interiori non siano casuali.
La mia modalità di intervento è legata all’osservazione attenta di quel che accade a livello conscio e inconscio, per dare una risposta adeguata sul piano della realtà. In genere uso l’interpretazione analitica solo in momenti di necessità, per alleviare un’ansia troppo forte, sia a livello individuale sia a livello di gruppo.
Va detto che la ‘lettura’ a occhio nudo del gioco simbolico non è così immediata, ma richiede studio ed esperienza. Spero comunque che il mio lavoro serva a stuzzicare la curiosità di genitori ed educatori e forse ad aprire una porta verso il mondo affascinante e originale del gioco infantile.”
Il gioco della palla e lo scivolo: un’elaborazione simbolica della separazione
Alessandra (due anni e mezzo) arriva all’asilo e va direttamente sullo scivolo. Mentre sale e scende più volte, con l’aria un po’ incantata, si racconta le sue storie sottovoce, restando poi a lungo seduta in fondo allo scivolo. Non si guarda in giro per non vedere l’ambiente, che le è ancora estraneo e ostile (viene all’asilo da poco più di un mese).
Il fatto di andare sullo scivolo appena arrivata esprime una sua modalità specifica attraverso la quale elabora l’ansia della separazione dalla madre. Con la scivolata, veloce, violenta e ripetuta più volte, simboleggia il suo vissuto interiore al riguardo (lo scivolo-mamma è qualcosa a cui si può attaccare e da cui si può staccare). La ‘coazione a ripetere’ esprime il suo sforzo di impadronirsi del processo di separazione-individuazione, accompagnato da un dialogo immaginario tra lei e la madre (parlare sottovoce), in cui la madre è presente in modo allucinatorio.
“L’ebbrezza della velocità placa le sensazioni di ansia e il piacere fisico dà benessere alla bambina in un momento in cui sperimenta sentimenti spiacevoli. Essendo piccola, Alessandra non riesce a superare il momento del distacco fisico in modo tranquillo, ma lo vive come espressione violenta.
Esaurita la prima tensione attraverso il gioco dello scivolo, Alessandra prende una palla, la tiene stretta sotto la pancia, la stringe forte, poi la ributta e va a riprenderla con espressione più allegra e presente. Il gioco si ripete parecchie volte.”
“Riflessione. Se nella prima parte la bimba vive la sua separazione dalla madre con violenza e abbandonandosi a fantasie allucinatorie, il gioco della palla rappresenta ora la sua capacità di possedere una mamma-palla e di separarsi da lei come desidera, traendo piacere dal dominio dell’oggetto e provando felicità nel riabbracciarlo (il tutto ricorda il ‘rocchetto’ di Freud). Tenendo conto della modalità di porsi di Alessandra, taciturna e diffidente, non l’ho presa in braccio all’arrivo, come faccio di consueto, rispettando così la sua difficoltà emotiva a essere maneggiata e toccata.
L’ansia iniziale di separazione è comune ai bambini di quest’età e lo scivolo è un ottimo strumento per liberarsene. Se in Alessandra il problema era particolarmente forte, quasi tutti, all’arrivo nell’asilo fanno un paio di scivolate a cui seguono immediatamente le scivolate di bambole, pezzi di lego, macchinine e così via. I vari oggetti che rappresentano il Sé sono l’elaborazione simbolica della separazione dalla mamma. Ciò permette al bambino di tollerare il senso di frustrazione legato alla separazione e di trasformarlo in un momento di piacere, di benessere. Superate le prime difficoltà, il bambino è pronto a rivolgere la sua attenzione ad altri interessi”.