Questa settimana su radio inBlu si lascia spazio ai bambini, in una bella intervista Agnese Bizzarri presenta la favola sul Coronavirus “Il tempo dei colori” che ha ispirato il contest ricondiviso anche dall’ONU.
Su Volture.com è stata pubblicata un’intervista a Mary Harron, la regista canadese di American Psycho, L’altra Grace e Ho sparato a Andy Warhol, film del 1996 basato sulla vera storia di Valerie Solanas, femminista radicale e autrice dei nostri “Manifesto SCUM“, “Trilogia SCUM” e “Up your ass“.
Valerie Solanas sta vivendo un momento di grande riconoscimento. Negli ultimi vent’anni, Solanas è stata il soggetto di numerosi libri accademici e di critica e ha ispirato ben tre opere teatrali e un romanzo. Nel 2017 è stata persino ritratta in un episodio della serie televisiva statunitense American Horror Story.
Qui di seguito un estratto dell’intervista originale:
“And then I Shot Andy Warhol was a hit at Sundance
In 1996, Variety’s Todd McCarthy wrote, “Filmmakers have been dancing around the idea of dealing with Andy Warhol and his world ever since his death. Now that it’s been done, the result, as well as the angle taken on the material, is as unexpected as it is riveting.”. The offer to do the script for American Psycho came in right after I got back from Sundance. That’s what happens if you have a first film that does well at Sundance.
Valerie Solanas is having a big moment now
Over the last two decades, Solanas has been the subject of a number of academic and critical books and the inspiration for three plays and a novel. In 2017, she was portrayed in an episode of American Horror Story: Cult by Lena Dunham.. At the time, feminism was not cool. At all. Now everyone wants to say they’re a feminist. But at the time — I never denied it. I always said I was, because I felt like, without feminism, I would never be doing this.
Where do you think your feminism comes from?
It was pretty instinctive. My mother was very old school in a lot of ways. She believed men were superior to women with two exceptions — my sister and myself. She was very ambitious for me and wanted me to be an artist. She would’ve been horrified if I hadn’t. She was very upset that my sister married and had kids early. At the same time, we’d disagree. She thought feminism was silly. She ran a radio program, and on her show, they used to excerpt books, and she refused to do Simone de Beauvoir. Still, I always thought I was going to have a career. That’s how I thought about my future — my career, my work, my ambition.
But I always felt like people were saying “Are you a feminist?” back in the day because they wanted to pigeonhole you as an ideological filmmaker, which I’m not, I don’t believe.”
di Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini, Grazia Villa
Firmato da quattro autrici: la sociologa Daniela Danna, la costituzionalista Silvia Niccolai, la storica Luciana Tavernini e l’avvocata Grazia Villa, “Né sesso né né lavoro” è un testo fondamentale per chi voglia capire un po’ di più il dibattito su prostituzione e sex work in Italia.
Un libro scritto a più voci ma con una visione comune che intende aiutare chi legge a sfilare la testa dalla sabbia dei luoghi comuni, andare oltre slogan sempre più diffusi che, volendo sdoganare la questione, negano gravi problemi sociali e mentono spudoratamente.
Il sex work non è un lavoro come un altro, il concetto stesso di sex work stravolge il senso sia del sesso sia del lavoro.
Forti di competenze specifiche, le quattro autrici mostrano i differenti aspetti del fenomeno in un’analisi calata nella peculiare realtà dell’abolizionismo tradito nel nostro paese, dove la lotta alla tratta non è una priorità e dove sulla prostituzione vige il laissez faire. Dall’esame dei modelli di politiche internazionali all’analisi della Legge Merlin (male interpretata) e delle numerose proposte parlamentari di modifica della legge, all’appassionata riflessione sulla portata della prostituzione negli attuali rapporti umani.
Leggine un estratto…
“Ho capito il mio atteggiamento e quello di diverse mie amiche verso la prostituzione quando li ho associati a un episodio della mia infanzia. Avevo quasi tre anni quando mi sono allontanata dalla casa dei nonni per cercare i miei genitori, usciti a fare la spesa. Inerpicandomi per un sentiero fra i boschi, arrivai a un maso vicino e, sentendo il cane abbaiarmi contro, mi coprii il viso con le mani, lasciando aperte le dita. Nel mio pensiero magico, nascondendo il viso mi sarei resa irriconoscibile e il cane non mi avrebbe vista, mentre io lo avrei controllato e mi sarei avvicinata il meno possibile.
Con la prostituzione è andata così.
Sapevo che esisteva, non avevo bisogno che restasse nelle “case chiuse” con i vetri oscurati; non era la buona educazione o il bon ton a non farmene parlare, piuttosto la sottile paura che la cosa mi riguardasse. Insomma, intravedere era un modo per tenere lontane le sue implicazioni. Intuivo quanto la prostituzione fosse connessa al contratto sessuale degli uomini tra loro per avere accesso al corpo femminile, e dunque anche al mio; alla pretesa che i desideri maschili fossero gli unici legittimi, che il ruolo delle donne fosse quello di supportarli e di essere lo specchio in cui l’uomo diventa grande (dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna). Ma io non volevo vivere all’ombra di qualcuno e il mio desiderio, proprio per l’incontro col femminismo, continuava e continua ad accendersi. Un desiderio che ha reso evidente quanto mi andasse stretta la divisione patriarcale delle donne in due grandi categorie: le procreatrici e le donne di piacere, le donne per bene e le donne per male. Le prime devono garantire la certezza e la continuità della discendenza, un’ossessione maschile che ha prodotto nei secoli una serie di abomini: dalle spose ignoranti e molto giovani alla prova della verginità della prima notte, dall’escissione della clitoride, non solo fisica (mia madre neppure sapeva della sua esistenza, guai a toccarsi lì ), alla fasciatura dei piedi delle donne cinesi durata secoli, dall’organizzazione di harem custoditi da eunuchi ai delitti d’onore, dai matrimoni riparatori alla patria potestà che toglieva le creature alla madre in caso di adulterio, solo per fare qualche esempio. Le altre, le donne per male, devono garantire il piacere sessuale maschile, un’esperienza così attraente da far “perdere la testa” e per la quale, come per la funzione delle prime, le donne sono necessarie. Anche qui invenzioni a dir poco obbrobriose: dalle molestie, considerate modi naturali di rapportarsi alle donne fin da bambine e adolescenti, allo stupro individuale come manifestazione di controllo sull’altra, dallo stupro di gruppo come forma di coesione tra uomini alle diverse modalità di organizzare la prostituzione, dove il denaro paga la prestazione richiesta cancellando chi la fornisce.
Soprattutto nelle istituzioni maschili segregate, per esempio negli eserciti, le donne prostituite, anche con l’inganno, erano una costante ritenuta inevitabile e solo da poco si comincia a esprimere parole di condanna. Basti pensare alle comfort women per le truppe giapponesi, all’invenzione del “madamato” per quelle italiane nelle colonie, per non parlare del sistema di R&R ( rest & recreation ), in particolare per le truppe USA durante la guerra del Vietnam. Nella Roma papale del Cinquecento, piena di celibi, vi era uno stuolo di cortigiane, spesso costrette a questo ruolo dopo il cosiddetto “trentuno”: uno stupro collettivo a cui partecipavano trentuno uomini – come si racconta accadde a Lorenzina, la figlia di un fornaio (Lawner, 1988, pp. 10-11).
Del resto, nei casini italiani del primo dopoguerra la media di quaranta “marchette” era considerata bassa (Merlin e Barberis, 1955, pp. 25 e 30). E dal 1995 alcune suore cominciano a presentare rapporti-denuncia ufficiali sugli abusi di preti verso le consorelle. Per tenere ben separate le due categorie femminili, sulle donne che non rispettano le regole maschili da un lato ricade la vergogna, dall’altro s’innesca la paura di punizioni sia per le prime sia per le seconde, basti pensare che nel Cinquecento, il secolo del cosiddetto Rinascimento, una cortigiana che non si era mostrata disponibile a tempo debito poteva essere punita dall’amante con uno stupro organizzato con l’inganno e la complicità di ottanta uomini (Lawner, 1988, pp. 75-77).
Ho potuto vedere le violenze connesse a questa divisione innaturale quando, oltre quarant’anni dopo, ho definito con altre “molestia” quello che un medico mi aveva fatto e che continuavo a minimizzare, situazione che m’impediva di fidarmi del mio sentire e di prendere parola pubblicamente in modo autentico. Non avevo timore a fare lezioni anche davanti a trecento persone come ripetitrice di pensieri altrui o nascondendo con l’ironia i miei, di cui non riuscivo a essere sicura (Tavernini, 2012 e 2014).
Vivere attenta a non cadere nella vergogna e ad allontanare la paura mi aveva spinta a introiettare il desiderio maschile pensando così di esaudire anche il mio, a non voler vedere la violenza a cui ero stata sottoposta per continuare a percepirmi viva: la violenza ti fa diventare cosa, ed è quanto di più vicino alla morte ci sia.
Le pratiche femministe che, pur modificandosi nel tempo, hanno mantenuto l’interrogarsi tra donne a partire da sé, mi hanno permesso di tenere le dita aperte per non cancellare l’esperienza di quelle che vivevano con la prostituzione. Anch’io ho gridato nei cortei non più puttane, non più madonne, solo donne: la separazione dunque doveva crollare, ma non significava l’instaurarsi di un nuovo e unico modello. Con le amiche dell’autocoscienza, con cui continuo a incontrarmi, e con quelle con cui ricerco da decenni, ho compreso che il nostro immaginario era colonizzato da film e racconti che confermavano le modalità maschili d’incontro sessuale e in un primo tempo ho rischiato di accontentarmi della liberazione sessuale.
Essere sessualmente disponibili si rivelò uno scacco, desideravamo invece scoprire, con chi decidevamo di provare, il piacere nostro e anche suo. Insomma, volevamo la libertà sessuale”.
“La piccola principe” di Daniela Danna si apre come una lettera in cui l’autrice si rivolge a chi legge immaginando che anche lei, specie se nella fase di crescita, si stia interrogando sulla sua identità sessuale.
«Se pensi che potresti essere un maschio perché hai una fortissima simpatia, un’attrazione, un desiderio di stare insieme a un’altra ragazza, o a una donna, devi sapere che questo sentimento non deve essere fonte di vergogna, anche se non è irrazionale la tua paura di rivelarlo». L’autrice infatti racconta con naturalezza la paura che spesso accompagna chi si fa queste domande e gli effetti che queste possono avere.
Leggine un estratto…
“Ciao! Scrivo a te che sei giovane, che stai per svilupparti e diventare un’adulta e che ti stai interrogando su come crescere e identificarti… Mi rivolgo a te al femminile perché – anche se pensi che potresti essere maschio – nella tua prima parte di vita in questa società ti hanno trattata come si è soliti trattare le femmine, cioè sei stata cresciuta con una certa pressione, sociale se non familiare, verso l’adesione ai modelli sociali femminili.
Se pensi che potresti essere un maschio perché hai una fortissima simpatia, un’attrazione, un desiderio di stare insieme a un’altra ragazza, o a una donna, devi sapere che questo sentimento non deve essere fonte di vergogna, anche se non è irrazionale la tua paura di rivelarlo. Sappi che stare insieme a un’altra ragazza, o a una donna, non è mai stato facile, che anche noi lesbiche abbiamo tenuto dentro questo sentimento prima di parlarne a chiunque, timorose di essere etichettate negativamente, di essere ostracizzate.
I legami tra femmine – a partire da quelli tra madre e figlia – nella nostra società non sono incoraggiati, non sono ben visti, sia che si tratti di amicizia, di affetto, di amore, o anche di trasmissione culturale. Ci insegnano che il primo posto nel cuore di una femmina deve essere occupato da un maschio (fidanzato, marito, padre, Gesù, Dio) ed è una delle ragioni per cui chiamiamo patriarcale la società in cui viviamo. Noi che amiamo le donne pensiamo che questo imperativo sia sbagliato, che le femmine dovrebbero essere lasciate libere, anche di darsi forza l’una con l’altra. Noi ci chiamiamo lesbiche perché diamo importanza a questa forza, come fece la maestra e poeta Saffo, e vogliamo dire al mondo che amiamo le donne, vogliamo stare con loro. Potrebbe non essere il tuo caso, chissà.
Quello che succede nell’infanzia o nell’adolescenza non è un destino ineluttabile. Ma è importante – lo si scopre nella vita – essere fedeli a se stesse per poter essere felici.”
“Il mercato è fatto così: ne fa sempre una questione di soldi, riconduce tutto alla misura universale del denaro”, così inizia “Temporary mother” di Marina Terragni per riflettere su come oggi la maternità a pagamento sia un colossale giro d’affari da almeno 3 miliardi di dollari.
Se inizialmente la surrogacy poteva sembrare un mezzo di liberazione per le donne oggi, anche secondo i possibilisti, le donne non si sono affatto liberate, anzi sono diventate mezzi di produzione.
Invece di riflettere su come la libertà riproduttiva delle donne sia oppressa ovunque e di come ciò infici sulla possibilità di avere o meno figli ci affidiamo al capitalismo perché ci fornisce la soluzione dimenticando che ha anche creato il problema.
Quei figli che non ci è consentito avere possiamo sempre comprarli. Basta pagare.
Leggine un estratto…
“Tante di noi resistono all’idea della maternità per contratto e per soldi, e si dicono invece possibiliste sull’“utero” solidale.
L’associazione Arcilesbica ne parla in un documento dove si dice che la GPA “se realizzata per solidarietà è altruistica, se si dà per un compenso è commerciale. La GPA può sussistere nel momento in cui risulta essere un atto volontario, per sottolineare questa volontarietà è necessaria la gratuità, anche economica, del gesto…”. Gratuità che peraltro si realizza solo in un numero pressoché insignificante di casi: normalmente si tratta di una transazione economica.
Anche in quei paesi, come il Canada, dove la legge riconosce alle gestanti per altri un’indennità comprensiva del rimborso delle spese mediche, si tratta in realtà di un compenso a tutti gli effetti. Le donne si offrono per avere quei soldi. Secondo Arcilesbica, il fatto che in una GPA non passi denaro costituirebbe una garanzia sufficiente. La faccenda mi pare più sottile.
Chiedere a una donna che si offra gratis o quasi gratis per il suo biolavoro è farle una richiesta molto ambigua. Su questa “generosità” è costruito tutto il marketing delle agenzie che vendono surrogacy – ci torneremo più avanti. Ma il punto è un altro.
La madre di mio padre lavorava, e aveva dato “a balia” il suo bambino neonato. Com’era giusto, le balie da latte ricevevano un compenso per il loro dono prezioso: si trattava in genere di donne povere a cui quei soldi facevano comodo.
Mio padre fu sempre affezionato alla sua balia e ai figli di lei che chiamava, come si diceva allora, fratelli di latte: c’era un lessico affettuoso che conferiva esistenza simbolica a quelle relazioni. Con lei e con quei fratelli rimase sempre in legame. Lì passavano soldi, ma la relazione rimaneva al centro. Oggi le balie da latte non esistono quasi più, ma esistono donne, spesso straniere, che affiancano o sostituiscono la madre nel lavoro di cura della creatura e per questo ricevono un compenso. Si tratta in questo caso di accudimento, di nutrimento affettivo e non del latte. Anche qui i soldi non surrogano la relazione, sono solo una componente della relazione, dalla quale peraltro la madre non scompare.
In questione non è nemmeno il quanto, come tante e tanti ritengono: e allora la cosa va bene se si tratta di un semplice rimborso, non va bene se è un canone di locazione pieno. Si tratta piuttosto di capire che cosa si compra, con quei soldi. Se si compra il diritto di rompere la relazione e fare sparire la madre dalla vita della creatura. Se i soldi diventano un sostituto, un surrogato di quella relazione. Vero che in una GPA autenticamente solidale io quella donna non dovrei pagarla. Ma potrei decidere di farle un gran dono, o anche di darle dei soldi: il fatto non è questo. Quello che conta è che io non paghi quella donna perché sparisca e si lasci cancellare dalla vita della creatura e dalla mia. Che io non pretenda di surrogare quella relazione con il denaro.
Il modello potrebbe essere quello di una libera relazione tra due donne, come nel caso delle balie da latte, in cui nessuna debba scomparire dalla vita della creatura e dell’altra madre. Una relazione in cui la gestante accetti il rischio e la gioia di quella relazione possibilmente per la vita, e non solo di offrire per nove mesi il suo grembo. In questo modo non sparirebbe la madre. Sparirebbe invece la gran parte dei problemi che pesano sulla vita di questi bambini. Sarebbe chiaro da subito com’è andata. E che loro sono i figli fortunati di un plus d’amore.
Per Rosemarie Tong il problema non sta nella GPA in sé, ma nell’uso che ne viene fatto in un contesto patriarcale: “La maternità surrogata diventa fonte di sfruttamento se gli uomini hanno il controllo delle regole, dei tribunali, del corpo delle donne”, dice. “L’etica femminista richiede che le donne denuncino, resistano, e sconfiggano questi e altri tipi di controlli di stampo patriarcale. Solo allora saremo in grado di poter determinare se la maternità gestazionale abbia realmente un futuro come una modalità di riproduzione veramente collaborativa – un processo che aumenti la libertà e la felicità delle donne che scelgono di aiutarsi le une con le altre per avere un figlio” (Nuove maternità).
Quando sono gli uomini a decidere, quando le leggi, e in particolare le leggi di mercato, sono le loro, apri la porta all’utero “etico e solidale” e di lì passerà il business della GPA commerciale: di tutto viene fatto profitto.
#iorestoacasaconvanda è un format che VandA ha creato per mantenere viva la relazione fra lettori e autori in questo periodo di “reclusione”.
Per non perdere il filo del pensiero. Per mettere al lavoro la nostra sapienza accumulata e non restare attoniti e in contemplazione di qualcosa che sembra più grande di noi. Perché solo il pensiero e la saggezza che da esso deriva porta alla coscienza e quindi alla libertà.
Come ci ha insegnato il femminismo, autocoscienza e relazione sono le due grandi leve dell’emancipazione. Ed è su questa strada che vogliamo proseguire.
Dunque parliamoci e ascoltiamoci!
Quello che sta capitando ha molto a che vedere con le cose a cui da tempo VandA sta riflettendo: la crisi di un modello di società e di economia, i danni del mercatismo e della globalizzazione, il maschile tossico, la violazione dei corpi, della Natura, della Terra, la libertà intesa come individualismo e assenza di limiti.
I nostri autori in video riprenderanno le loro tesi, i loro libri e ci intratterranno con storie, interventi, brevi lectio, riflessioni, letture, narrazioni, audio.
Ecco la programmazione del format #iorestoacasaconvanda:
Martedì 7 aprile Lectio economia (durata circa 20’’) Pierangelo Dacrema, “Dov’è l’Europa?”
Venerdì 10 aprile Narrativa: presentazione con autrice e lettura (durata 9’’) Chiara Giunta, “Innamorate“, Letture di Francesca Fichera
Martedì 14 aprile Saggistica: presentazione con autrice e lettura (durata 10”) Carol J. Adams, “Carne da Macello“, Letture di Barbara Mugnai
Venerdì 17 aprile Narrativa: presentazione con autrice e lettura (durata 10″) Agnese Bizzarri, “L’Italia a Colori“, Letture di Marco De Francesca
“Le dimensioni del debito pubblico italiano sono un fattore di rischio che ostacola qualunque politica di sviluppo della nostra economia. Un problema annoso, tema di dibattito e di scontro a ogni vigilia del voto. Le politiche di austerità volte ad arginare il debito si sono rivelate inefficaci, oltre che dolorose. In un’Italia afflitta da disoccupazione e vaste sacche di indigenza occorrono provvedimenti adatti a promuovere consumi, investimenti, occupazione e reddito. E il loro ineludibile presupposto è la disponibilità di moneta”.
Pierangelo Dacrema in “La buona moneta” offre una raccolta di spunti per un’economia del futuro.
Se, come spesso accade nei ragionamenti economici, il denaro è sia causa che soluzione come procurarsi moneta?
Leggine un estratto…
“L’idea all’origine della proposta che formulerò in modo articolato nella terza parte di questo lavoro non è affatto nuova. Nuova semmai è la proposta, anche sotto l’aspetto tecnico.
L’idea, infatti, è stata non solo formulata ma anche applicata con successo nella prima metà degli anni Trenta del secolo scorso, ed è alla base del “miracolo” compiuto dalla politica economica del governo nazionalsocialista prima della sciagurata decisione di scatenare la guerra in Europa e nel mondo.
A tale proposito credo che si possa trovare ormai ampio consenso sul principio per cui una condanna senza appello del nazismo per gli orribili delitti e le devastazioni di cui si è reso responsabile sia compatibile con un’analisi degli apprezzabili risultati da esso ottenuti, fino al 1937, sul piano economico-sociale. Studiosi come Joachim Fest non hanno esitato ad ammettere 1 che, se Hitler fosse morto prima del 1938 – o non avesse invaso l’Austria perseverando poi nel folle disegno che avrebbe scatenato la seconda guerra mondiale –, sarebbe stato ricordato come un grande statista tedesco, forse il più grande.
Quando Adolf Hitler, nel gennaio del 1933, riceve da Paul von Hindenburgh l’incarico di formare il nuovo governo, la Germania è un Paese allo stremo. Sono fatti noti, ma è il caso di ricordarli brevemente. Una trentina di partiti e sei milioni e mezzo di disoccupati – poco meno di un quarto della forza lavoro del Paese – rendono la situazione potenzialmente esplosiva. La nazione è oberata di debiti per le riparazioni di guerra, praticamente impossibili da pagare, l’indigenza è diffusa, un gran numero di famiglie e di individui è alla fame. Ed è proprio cavalcando questo malcontento che lo NSDAP – Nazionalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei – ottiene un risultato elettorale più che soddisfacente. Con le parole roboanti e lo stile tipici di un dittatore che si trova a un passo del potere assoluto, Hitler fa alcune promesse ai tedeschi. E le mantiene. Con un Rudolph Hess sorridente e ammiccante al suo fianco, si rivolge a un pubblico osannante ricordando che lui e i suoi seguaci erano in sette, all’inizio. E che ora sono diventati milioni.
Per questo potrà permettersi di selezionare, allontanare gli opportunisti e gli incapaci, scegliere i migliori. Parlando d’economia, giura di avere come unico obiettivo il benessere del popolo tedesco, e assicura di tenere ben presente come la prosperità nasca dal lavoro, dall’attività del popolo, e non dal denaro, che ne è banale e meccanica conseguenza. Promette che lo Stato non lascerà isolati gli individui operosi, volenterosi e intenzionati a collaborare, a entrare in azione a vantaggio di tutti. Garantisce un controllo dello Stato sull’attività dei privati e un rapporto di collaborazione tra Stato e industria destinato ad aumentare la produzione e una distribuzione della ricchezza nazionale attenta ai meriti e ai bisogni individuali.
Con la nazionalizzazione di diverse grandi imprese, ma sempre in dialogo con l’industria privata, lancia un programma di investimenti pubblici volto a rivoluzionare il sistema dei trasporti, a potenziare le infrastrutture, a dare ai tedeschi nuove prospettive. Artefice della politica economica del governo nazista dall’inizio del 1933 alla fine del 1937 è Hjalmar Schacht, che non è nazionalsocialista (e per di più ha origini ebraiche). Ciò a riprova di come certi giudizi possano, e forse debbano, tenersi separati. È probabile che Schacht avesse visto in Hitler il capo di una forza politica – eccentrico sia il capo che il partito da lui creato – capace di mettersi alla guida di un Paese bisognoso soprattutto di: a) godere di un periodo di stabilità politica; b) approfittare di tale periodo per risollevare le sorti di un’economia che versava in condizioni disastrose. È probabile, anzi, quasi certo, che Hitler accarezzasse fin dal 1933 i suoi perniciosi disegni di guerra e di dominio sull’Europa, e che avesse visto in Schacht l’uomo giusto per realizzarli (senza un’economia forte alle spalle, la guerra sarebbe parsa una follia anche al più folle dei dittatori). Perché la scelta del Führer si è rivelata (malauguratamente) intelligente? Stiamo parlando, ripeto, di eventi e di uomini ben conosciuti. Ma ripercorrere in estrema sintesi alcuni brani del passato può rendere più facile l’analisi del presente e l’individuazione di possibili soluzioni per il futuro.
Si consideri che Schacht è già un eroe nazionale. Diventato responsabile economico della Repubblica di Weimar su incarico del cancelliere Gustav Stresemann nel 1923, nonché presidente della Reichsbank nel 1924, diffonde sul mercato una nuova valuta, il Rentenmark, che soppianta il vecchio marco, ormai inservibile, e sconfigge l’iperinflazione di quel tempo. Rimane al vertice dell’istituto di emissione fino al marzo del 1930, sei mesi dopo l’inizio della Grande Depressione. Hitler si esprimeva in modo enfatico, drammatico. Era amato, il suo eloquio era estremamente appassionato. Un tipo strano. Ma strana era anche la situazione.
Nel marzo del 1933 Schacht accetta di tornare a essere il presidente della Reichsbank, e nell’agosto del 1934 diventa ministro dell’Economia. I risultati ottenuti dall’economia tedesca sotto la sua guida, in pochi anni, sono oggettivamente straordinari. Già alla fine del 1936 la disoccupazione è ridotta al minimo e tutti i settori dell’industria registrano fenomenali incrementi della produzione.
È giudizio unanime che il successo di questa operazione di rilancio del sistema economico sia dovuto in buona misura ad alcune innovazioni introdotte da Schacht nel sistema dei pagamenti. Si tratta in particolare di due accorgimenti, entrambi volti all’esigenza di offrire liquidità al sistema evitando di creare un eccesso di base monetaria con la deprecabile conseguenza dell’inflazione, un problema di cui la Germania ha un ricordo fresco e drammatico. La prima innovazione riguarda le modalità di finanziamento delle importazioni, vale a dire delle merci di cui il Paese ha un estremo bisogno, soprattutto in campo alimentare.
L’idea è semplice e centrata sull’obiettivo: non deprimere il marco, la valuta nazionale. Il che significa non costringere la banca centrale a emettere marchi o a spendere valuta estera, che la banca si trova costretta ad amministrare con molta parsimonia. Le importazioni, pertanto, vengono pagate con cambiali spendibili solo in Germania, sul mercato tedesco. Il risultato è che ogni spesa all’estero (importazione) destinata a rifornire il sistema produttivo tedesco si traduce in una spesa dall’estero che alimenta il sistema ulteriormente (esportazione). Si tratta in sostanza di un baratto con esiti virtuosi, capace di scavalcare qualunque forma di intermediazione finanziaria associata di norma a qualsiasi operazione economica (considerando economica un’operazione per cui esiste un soggetto che produce e che vende – l’offerta – e un altro che acquista e consuma – la domanda). Facile fornire un esempio. L’Argentina è ricca di grano e di carne, che può esportare in abbondanza. E la Germania è in grado di produrre macchine utensili di cui l’Argentina ha bisogno per favorire un progresso tecnologico che non è capace di promuovere da sola. Benissimo. La Germania avrà il grano e la carne di cui necessita in cambio di tecnologia pagata dall’Argentina con strumenti finanziari spendibili solo in Germania. È un baratto, nient’altro che un baratto assistito e garantito dallo Stato.
La seconda idea, per quanto in tutto simile alla prima, è ancora più ardita, e si risolve in un meccanismo di finanziamento della spesa pubblica senza il ricorso a emissioni di moneta né al collocamento di veri e propri titoli di Stato. Nella Germania che i nazisti si accingono a governare la liquidità scarseggia, le aziende licenziano o, nella migliore delle ipotesi, non assumono, ed esiste una capacità produttiva largamente inutilizzata.
Occorrerebbe una politica monetaria di stimolo, fortemente espansiva, che trova però un ostacolo insormontabile nel pericolo dell’inflazione e nella diffidenza dell’Europa nei confronti di una valuta come il marco e di una nazione come la Germania, che si ha ragione di considerare risentita, umiliata, e sempre pronta a varare una politica del riarmo. Schacht decide allora di creare la Metallurgischen Forschungsgesellschaft, Società per la ricerca metallurgica (abbreviata in MEFO). L’organismo, interamente posseduto dalla Reichsbank, è una scatola vuota: non fa nulla e non possiede nulla. Però ha la peculiare e pregiata caratteristica di poter emettere cambiali garantite, di fatto, dallo Stato (più esattamente dalla Reichsbank). Queste cambiali – i titoli MEFO – rendono il 4 per cento su base annua e hanno scadenza breve, trimestrale o quadrimestrale. Possono tuttavia essere rinnovate fino a cinque anni. Attraverso di esse la MEFO – indirettamente la Reichsbank, e in sostanza lo Stato – può raccogliere denaro ma può anche pagare in via dilazionata le commesse industriali, vale a dire sostenere la spesa pubblica, finanziare la produzione e la domanda globale. Da notare che i soggetti, per lo più industriali, che accettano titoli MEFO in pagamento si rendono conto di poter decidere di non rinnovarli, o di scontarli presso la Reichsbank ottenendo moneta ufficiale, marchi. Ma non lo fanno, vuoi perché i titoli hanno un rendimento interessante, vuoi, soprattutto, perché hanno fiducia in questi titoli.
Per le aziende tedesche è prevista poi la possibilità di emettere cambiali garantite dalla MEFO, circostanza, quest’ultima, che accredita i titoli in loro possesso come strumenti di pagamento del tutto affidabili. Il risultato è che i titoli MEFO proliferano, circolano come moneta e, come la moneta, servono al finanziamento e al funzionamento del sistema economico. Si tenga presente che i MEFO sono spendibili solo in Germania. Ma è quanto si è pianificato fin dall’inizio: doveva essere la Germania a trarne beneficio. E così fu. La Germania godette per diversi anni di un regime di doppia circolazione della moneta che si rivelò molto utile per la rivitalizzazione dell’industria nazionale.”
“L’idea di un’Europa economicamente e politicamente unita – o un poco più unita di quanto lo fosse stata fino ad allora – nacque dopo il secondo conflitto mondiale. E fu di uomini che, avendo assistito alle sofferenze dei loro Paesi, immaginarono la possibilità, o meglio la necessità, che un continente devastato dalla guerra, per secoli teatro ricorrente di discordie e lotte armate, si dimostrasse finalmente capace di costruire un lungo periodo di prosperità e di pace.”
Eppure proprio questa unione ha deluso le aspettative di molti. L’euro più che un mezzo e una possibilità è stato troppo spesso percepito come un ostacolo alla realizzazione di politiche economiche adatte a diffondere il benessere.
Con “Sognando l’Europa” l’economista Pierangelo Dacrema presenta il disegno di un’Europa unita politicamente ed economicamente. Un’Europa che sia più importante della sua moneta e che torni ad essere guidata dalla grande politica.
Leggine un estratto…
“Quella di un’Europa unita sul piano economico e politico è, di per sé, un’idea forte ed edificante, ma potrebbe sembrare a molti un’utopia. Accade tuttavia che certi sogni si avverino.
Quanti obiettivi apparentemente irraggiungibili, nel corso della storia e in ogni campo, sono stati perseguiti con tenacia da individui coraggiosi e poi, con l’aiuto di qualche circostanza favorevole, sorprendentemente realizzati? Ho un vivo ricordo del momento in cui, nel corso di un’intervista radiofonica rilasciata nella tarda primavera del 1989, Giulio Andreotti – all’epoca ministro degli Esteri, e quindi persona presumibilmente “informata dei fatti” – dichiarò, chiamato a esprimersi sul punto, che della caduta del Muro di Berlino avrebbero forse, e non senza un po’ di fortuna, potuto parlare i suoi nipoti.
È noto invece che il Muro cessò di dividere la parte occidentale da quella orientale della capitale tedesca a partire dal 9 novembre dello stesso anno, e che Helmut Kohl non si lasciò sfuggire l’occasione per diventare artefice di un evento storico formidabile come la riunificazione delle due Germanie. Ciò premesso, sarebbe difficile sostenere, da parte di chiunque, che l’attuale Unione europea si stia rivelando capace di muovere passi sicuri e spediti verso i suoi stessi obiettivi originari e non abbia deluso le aspettative di buona parte dei cittadini europei: la Brexit ne è una prova tangibile, e purtroppo non la sola.
È evidente come l’Europa sia più importante della sua moneta – parlo dell’Euro, a tutt’oggi la sua creatura più compiuta –, mentre sembra talora valere il contrario. Ed è così che l’Euro viene percepito da alcuni come un ostacolo per la realizzazione di politiche economiche adatte a diffondere il benessere e non come un primo, fondamentale, strumento per il perseguimento degli scopi essenziali dell’Unione.
L’Euro è la valuta più protetta del pianeta, e questa ossessiva difesa tecnica della moneta (per statuto, l’unico imperativo della Bce è il contenimento del tasso di crescita del livello generale dei prezzi entro il 2% su base annua), con le politiche d’austerità che ne conseguono, possono sortire l’effetto di mettere in cattiva luce non solo e non tanto la moneta unica quanto l’unione di Stati che ne ha deciso l’emissione e l’utilizzo in via esclusiva. Più in generale, l’Unione europea sembra incline a occuparsi di fini limitati, specifici, e poco propensa a fronteggiare emergenze gravi: sono emblematici il ritardo e la scompostezza con cui è stato trattato un problema epocale come quello dell’immigrazione.
Gli stessi pilastri dell’Europa di Maastricht – il rispetto della soglia del 3% del rapporto deficit/Pil e del 60% del rapporto debito pubblico/Pil – privilegiano una visione rigidamente economico-finanziaria di un contesto complesso, articolato ed eterogeneo, rispetto a un’altra più flessibilmente, e più opportunamente, politica.
Eppure è noto come l’economia, non solo nel suo aspetto macro, si trovi legata, spesso in modo indissolubile, alle vicende della politica. Ragione per cui può accadere che un provvedimento di politica non economica (per esempio, un decreto del ministro dell’Interno o della Pubblica istruzione) abbia ripercussioni sul sistema economico più evidenti, se non addirittura più immediate, di un provvedimento di politica economica in senso stretto (per esempio, una diminuzione o un aumento dei tassi d’interesse, o un aumento o una diminuzione della pressione fiscale).
La sensazione è che l’Europa unita sia oggi orfana della grande politica. E non è fuori luogo ricordare, di nuovo, che cos’è riuscito a fare uno statista tedesco con una decisione che, nel 1989, apparve al mondo imprudente e potenzialmente foriera di disastri economico-sociali. A proposito del da farsi, occorre innanzitutto rendersi conto di come il progetto di un’Europa sempre più unita – tanto entusiasmante quanto di ardua realizzazione – richieda il recupero e il rilancio degli ideali che ne sono stati il motore iniziale. Solo una politica d’alto profilo può essere fonte di scelte e comportamenti destinati a generare un benessere maggiore e più equamente distribuito fra tutti i cittadini europei.
La percezione di un’inadeguatezza dell’Ue di oggi dovrebbe accomunare fautori e detrattori dell’Europa – categorie entrambe insoddisfatte, in misura e per ragioni diverse – e unirli nello sforzo comune della ricerca di un percorso più virtuoso, per quanto impervio. Possono sperare, “populisti” e “sovranisti”, di fare man bassa di voti alle prossime elezioni europee mobilitandosi solo per ottenere una sorta di mandato specifico ad abbandonare il campo o a “disfare tutto”, vale a dire tutto quel poco o tanto che esiste delle istituzioni e delle regole europee? Qualunque unione è fondata da un lato sull’esistenza di regole condivise al proprio interno, dall’altro sulla costruzione di un rapporto il più saldo possibile con la realtà che la circonda, vale a dire un sistema di relazioni che la legittimi all’esterno e le dia più forza all’interno.
Sul piano di una politica economica europea, l’esistenza di tali presupposti dovrebbe promuovere le condizioni per:
1) il mantenimento della centralità dell’Euro – e un suo maggior gradimento – attraverso la restituzione di un minimo di flessibilità alle politiche monetarie nazionali, anche a costo di un lieve innalzamento del tasso d’inflazione (per esempio, occorrerebbe concedere ai Paesi più indebitati un margine di manovra per l’emissione di valuta nazionale, ciò che evidentemente richiederebbe una revisione dei Trattati europei);
2) il sostegno di una politica industriale che favorisca il Sud dell’Europa e, più in generale, tutti i Paesi del Mediterraneo, in modo da creare, tra l’altro, condizioni di vita a livello locale idonee a scoraggiare l’emigrazione (per esempio, attraverso forti incentivi alle grandi imprese europee a investire nell’Africa del Nord, in Grecia, in Turchia e nel Mezzogiorno d’Italia).
In sintesi, è fondato il sospetto che un’insufficiente sensibilità delle istituzioni europee per certe istanze dei Paesi economicamente più fragili possa alla lunga far prevalere le tendenze centrifughe su quelle centripete. E sarebbe un vero peccato, poiché le disgregazioni e le frammentazioni possono risolvere nel breve piccoli problemi lasciandone aperti altri, ben più gravi, che le unificazioni hanno per loro natura una migliore attitudine a fronteggiare.”
“L’attivista Carol Adams, autrice di Carne da macello – La politica sessuale della carne, svela come la società ha legalizzato l’oppressione degli animali. In Italia è finalmente disponibile un testo fondamentale sui diritti degli animali, che spiega come siamo condizionati dalla società a pensare agli animali come esseri di serie B. Il libro è Carne da Macello, di Carol Adams. Pubblicato per la prima volta nel 1990, The Sexual Politics of Meat (il titolo originale del libro, che tradotto significa La politica sessuale della carne) è un testo di riferimento nei dibattiti in corso sui diritti degli animali. Nei due decenni successivi, il libro ha ispirato polemiche e un acceso dibattito.
“Viviamo in una cultura che ha istituzionalizzato l’oppressione degli animali attraverso la nostra lingua” ha dichiarato Carol Adams al Corriere della Sera. Una prova? Mangiamo carne di animali morti, quindi di cadaveri. Se parliamo del nutrimento degli avvoltoi, usiamo l’espressione “mangiano cadaveri” o “carcasse” ma per riferirci al nostro usiamo l’espressione “consumo di carne”, quasi per nobilitare il gesto e per non nominare l’animale ucciso, alleggerendoci la coscienza.
La Politica sessuale della carne sostiene che ciò che, o più precisamente chi mangiamo, è determinato dalla politica patriarcale della nostra cultura e che “i messaggi visivi e verbali nella cultura popolare e nella nostra società”, tra cui gli spot pubblicitari, “associano il mangiar carne e il machismo ” .
Viviamo in un mondo in cui gli uomini hanno ancora un notevole potere sulle donne, sia in pubblico che in privato. Carol Adams sostiene che la politica di genere è indissolubilmente legata al modo in cui vediamo gli animali, in particolare gli animali che vengono consumati.”
“Era il 1989 quando per la prima volta negli Stati Uniti venne pubblicato The Sexual Politics of Meat: A Feminist-Vegetarian Critical Theory, di Carol J. Adams e oggi, grazie a VandA Edizioni, possiamo avere il piacere di leggerlo nella sua più recente traduzione italiana: Carne da macello. La politica sessuale della carne (1). Un testo che ha segnato fortemente lo sviluppo dei movimenti femministi e vegetariani grazie alla sua abilità nello svelare le reciproche dipendenze di queste di forme, teoriche quanto pratiche, di resistenza e lotta politica.
L’attivismo praticato da questa autrice è senza dubbio guidato da una riflessione filosofica orientata alla questione femminista-vegetariana: nella vita di Adams (2) possiamo rinvenire i problemi centrali del secolo scorso e di quello attuale, quali la disparità di genere, la violenza che pervade le nostre società, lo specismo e le lotte politiche. Al fine di raggiungere un’inclusività tale da poter mettere in questione ogni aspetto della nostra vita – intesa come perenne relazione con altri corpi e con simboli culturali – e con lo scopo di smascherare ogni forma di violenza che la cultura antropocentrica e patriarcale ci ha consegnato in eredità, Adams si è posta in prima linea.
Come Aristotele ci ricorda nella Poetical’uomo è per natura un essere che imita, e grazie all’imitazione conosce ciò che lo circonda.”