di Valeria Palumbo (La 27esima ora, 28 giugno 2018)
– «Ti ho amato al primo twit».
Ammetto che, di 400 pagine densissime e tutte da leggere di Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita (Morellini editore), la prima cosa che mi viene in mente è: «Ti ho amato al primo twit». Perché è forse l’espressione che, nell’indagine di Michela Fontana, matematica, saggista e giornalista, riassume meglio le contraddizioni e le difficoltà delle saudite (e, in parte, dei sauditi). Ovvero l’assurdità di una segregazione totale che non solo rende impossibili i rapporti tra i giovani (in un Paese giovanissimo) ma, di fatto, complica perfino la possibilità di sposarsi, obiettivo per il quale le ragazze vengono ancora educate. Al tempo stesso la diffusione di Twitter svela la scappatoia formidabile offerta, pur tra mille ostacoli, da Internet.
Orgoglio e pregiudizio
La situazione è paradossale perché ricorda incredibilmente quella dell’Inghilterra georgiana di Jane Austen, unita all’ossessione per “l’onore” di pirandelliana memoria e all’abbigliamento delle donne sarde ancora negli anni Sessanta. “Ricorda” non vuol dire che la situazione è uguale ma la somiglianza smonta un pregiudizio (loro e nostro). Ovvero che il mondo islamico non può vivere la progressiva conquista dei diritti umani e civili dell’Occidente, in particolare per quanto riguarda le donne, perché è “diverso”. Le donne Occidentali hanno subito gran parte dei soprusi che oggi opprimono le saudite. Fuori tempo massimo: secondo il World Economic Forum l’Arabia Saudita è al 138esimo posto su 144 nell’indice mondiale delle pari opportunità.
Il peso del guardiano
Così, se è vero che anche le italiane hanno avuto, fino al 1919, la tutela maritale, che non potevano testimoniare nelle cause di diritto civile fino alla riforma post-unitaria del 9 dicembre 1877, voluta da Salvatore Morelli, e che le antiche romane avevano un tutore per qualsiasi atto, proprio come le saudite oggi (teoricamente, le matrone dovevano pure uscire di casa velate), è anche vero che 2mila anni, come pure cento fanno la differenza. E un istituto surreale come quello del wali al-amr, del guardiano (padre, marito, fratello, figlio, zio…), che fino a qualche tempo fa autorizzava persino una donna ad andare in ospedale a partorire, appare fuori dal tempo in quasi tutto il mondo musulmano. E se è vero che una certa segregazione vale anche nel maggior e avversario dell’Arabia Saudita, l’Iran (dove le donne si battono ancora per andare allo stadio, al contrario delle saudite che possono farlo dal gennaio 2018), la totale divisione dei sessi è un ricordo a Teheran. E una realtà a Riad.
Un mondo di sole donne
Michela Fontana ha passato due anni e mezzo, dal luglio 2010 al dicembre 2012 a intervistare saudite di classi, età, istruzione, idee, inclinazioni diversissime. Ha potuto farlo proprio in quanto donna. Come già notava la scrittrice statunitense Edith Wharton in Harem, moschee e cerimonie (nella traduzione italiana di Editori Riuniti) gli uomini occidentali non sanno nulla degli harem e ci fantasticano su (con un buon grado di perversa fantasia) semplicemente perché non possono entrarci. In Arabia Saudita nemmeno le sale d’attesa degli ospedali sono miste. La segregazione è ossessiva ma, a spiega Fontana, così interiorizzata che spesso le saudite non ci fanno caso. Almeno le più anziane. Perché le giovani appaiono sempre più diverse: rappresentano, non a caso, il 58% della popolazione universitaria. Paradossalmente sono oggi spesso i padri a spingerle a studiare: una donna istruita può valere di più sul mercato matrimoniale.
Internet piace a progressisti e conservatori
Quello che appunto rende prezioso Nonostante il velo è il tempo che Michela Fontana ha dedicato agli incontri e anche la sua totale “laicità”, nel senso che ha accettato senza ribattere qualsiasi risposta (soprattutto i giudizi tranchant sulle donne occidentali), ha insistito davanti alle ritrosie, ha cercato di capire anche gli atteggiamenti più contraddittori. Che non mancano: la poligamia, molto diffusa, è sostenuta sul web da alcune ragazze istruite. La religione, onnipresente, non ha eliminato le credenze magiche. I social piacciono ai progressisti come ai conservatori. I divorzi sono diffusissimi e le single sono sempre di più. Ma spesso a rendere impossibile un matrimonio è il radicato razzismo tra tribù. La segregazione rende gli abiti sexy e i discorsi sul sesso ben più diffusi che tra noi. La maternità è un totem, ma il numero di figli è crollato. L’inglese è diffuso, come pure la tendenza di studiare all’estero. Ma alla fine i progressi che la società sta facendo, con la concessione della guida alle donne, la riapertura dei cinematografi e la nomina di alcune donne in posti di rilievo, sono dovuti a un principe ereditario, Mohammad bin Salman Al Saud, che ha studiato in patria.
Vision 2030
Condensare qui le 400 pagine di Michela Fontana senza banalizzare le risposte delle donne intervistate e senza dimenticare aspetti importanti (per esempio la violenza familiare, l’ipocrisia dei matrimoni “a termine”, la povertà diffusa, non soltanto tra vedove e divorziate) è impossibile. Una cosa è certa: rispetto al periodo della sua indagini anche l’Arabia Saudita è cambiata. Vision 2030, il programma reale di sviluppo, pur viziato da una caratteristica di fondo (il Paese è una monarchia assoluta ed è proprietà della famiglia regnante), sta imponendo mutamenti rapidi, anche in opposizione con una potentissima classe religiosa, quella degli ulema, che garantiscono da quasi cent’anni l’esistenza stessa del Regno. Per questo le saudite sanno che tutto può cambiare. O tutto può tornare indietro all’improvviso. È successo, in Iran, ma non solo. E, come diceva Primo Levi, se è successo può ancora accadere.