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Il potere segreto della Bibbia


di Luciano Zanardini (La Stampa, 20 agosto 2017)


– Nel suo nuovo libro Simone Venturini spiega come il Testo Sacro rappresenti una grande opportunità per scoprire Dio e ritrovare se stessi.

La Bibbia, oltre ad essere il libro più venduto al mondo, è stato il primo ad essere stampato nella seconda metà del 1400 da Johann Gutenberg con l’aiuto di caratteri mobili. Nel tempo ha ispirato la letteratura e l’arte ed è entrata a far parte del nostro linguaggio. Se dell’Antico Testamento, eccetto la Genesi, conosciamo molto poco, del Nuovo abbiamo come riferimento i quattro Vangeli. È evidente, però, che oggi viviamo un preoccupante analfabetismo religioso: il Libro dei Libri corre il rischio di essere letto a catechismo, quando va bene…

Da questo punto di vista è interessante l’operazione di Simone Venturini che nel suo libro “Il potere segreto della Bibbia. Per scoprire Dio e se stessi” cerca di mettere a fuoco i contenuti del Testo Sacro per renderli più fruibili. Venturini dal 2004 lavora presso l’Archivio Segreto Vaticano ed è docente di Scienze Bibliche presso l’Università della Santa Croce. In questa sua nuova fatica il direttore emerito della Biblioteca dell’Università Lateranense parte dai fondamentali («Chi ha scritto la Bibbia?») per approdare ad alcune riflessioni più complesse («L’innominabile e inafferrabile realtà di Dio»).

Con questo testo, edito da VandA.Epublishing (in vendita su Amazon e a Roma presso la Libreria Coletti), l’autore cerca di avvicinare il lettore alla conoscenza della Bibbia, perché «va letta in profondità, superando le contraddizioni superficiali e le interpretazioni della teologia: solo così essa – scrive nell’introduzione – diventa una vera e propria guida universale alla scoperta di se stessi e di come trovare il vero Dio». Non è poi così lontana dal nostro vissuto perché i protagonisti sono gli uomini: «Parla di persone che hanno provato le nostre emozioni (paura e gioia, odio e amore). La Bibbia è il libro in cui il divino e l’umano si compenetrano sino a fondersi insieme, diventando quasi inscindibili l’uno dall’altro».

Nel volume si trova anche una rilettura dei tanti simboli che abitano queste pagine: «Erano il mezzo più efficace per rendere trasparenti le storie che raccontavano, per far sì che attraverso quello che essi dicevano, i loro destinatari riconoscessero non solo se stessi, i propri problemi, le proprie ansie, ma anche Dio». Ricercare se stessi e ricercare l’Assoluto sono le due azioni che da sempre hanno interessato il cuore dell’uomo. In un capitolo (“La legge e il cuore”) prende in esame la rivoluzione copernicana del capitolo 32 del libro di Geremia e invita a leggere l’esperienza religiosa a partire dall’amore: «Finché l’uomo non scopre il Dio che parla al cuore, ci sarà sempre bisogno di qualcuno che guidi la sua vita. Ci sarà sempre bisogno di qualcuno che lo istruisca su cosa fare e come farlo. Soprattutto, ci sarà sempre una legge pronta a condannarlo e a sottolineare la sua inadeguatezza, il suo essere sbagliato, i suoi errori».

Nel Nuovo Testamento ci interroghiamo anche sulla croce e sulla sofferenza, ma «Gesù non visse per morire sulla croce, ma per indicare a ciascuno la strada che porta oltre la croce». L’uomo, invece angosciato dalla paura, decide la morte per Colui che insegnava e insegna semplicemente «ad amare e a non aver più paura di Dio né del prossimo. La croce, dunque, non è il simbolo della rinuncia a se stessi, bensì l’emblema di una vita spesa per ciò che davvero conta, un simbolo d’amore e di vita più che di morte e sofferenza». Ecco, allora, che riprendere in mano la Bibbia può significare riprendere in mano la propria esistenza.

“Il potere segreto della Bibbia. Per scoprire Dio e se stessi” di Simone Venturini (VandA.Epublishing, pp 174, 12,75 euro). Il libro è disponibile presso la Libreria Coletti di Roma (via della Conciliazione 3a).


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A testa in giù, 12 racconti di Raffella Formillo. L’intervista di Fattitaliani: “Guardare indietro aiuta ad andar avanti”


di Giovanni Zambito (Fattitaliani, 13 agosto 2017)


– Dopo l’esordio con Tè alla Fragola, Raffaella Formillo, psicoterapeuta scrittrice, invita a guardare il mondo «A Testa in giù» attraverso una raccolta di dodici racconti brevi tenuti insieme da uno stratagemma  letterario e pubblicati in formato e-book dalla casa editrice indipendente VandA. 

Dopo l’esordio con Tè alla Fragola, Raffaella Formillo, psicoterapeuta scrittrice, invita a guardare il mondo «A Testa in giù» attraverso una raccolta di dodici racconti brevi tenuti insieme da uno stratagemma  letterario e pubblicati in formato e-book dalla casa editrice indipendente VandA. Due bambini, una donna abbandonata, un internato, un ladro, un bombolaio e un tassista, sono alcuni dei personaggi di queste storie sbagliate, cattive, ingenue, folli e romantiche.

Dodici storie che si rincorrono, come una giostra, attraversando tutti i generi letterari, dal diario al pulp, dalla confessione intimistica all’horror e conducono il lettore a ritmo serrato fino all’ultimo racconto dove, ancora una volta, ci si ritroverà capovolti. I racconti, speculari alla frammentarietà dell’animo umano, si ricongiungono in un’unica narrazione che assembla i cocci di esistenze sbagliate e apparentemente disperse, riconducendole alle proprie radici. Il flashback, la ricostruzione della memoria attraverso episodi non integrati nel flusso autobiografico non è soltanto uno stratagemmaletterario ma il percorso che conduce il disagio alla sua origine, dalla quale non si può fuggire, anche quando l’esistenza si ritaglia uno statuto autonomo che si conclude nello spazio di un singolo racconto. Fattitaliani ha intervistato Raffaella Formillo.

Rispetto a un romanzo la gestazione e la concezione dei racconti in che misura cambiano nei tempi e nella scrittura?

I racconti sono spesso oggetto d’interesse secondario in Italia rispetto al romanzo, ma la difficoltà narrativa per la scrittura di un buon racconto è spesso superiore per diversi aspetti. In un romanzo la costruzione del personaggio, della storia, degli eventi narrati ha un tempo dilatato. Lo scrittore può lavorare ai vari capitoli del testo, approfondendo temi diversi in tempi diversi e sapendo che ha più di un’occasione, il tempo appunto di un intero libro, per sedurre il lettore. Chi scrive un racconto deve essere capace di condensare tutto in uno spazio breve, deve in poche pagine creare personaggi che abbiano da subito un impatto emotivo, narrare una situazione forte di per sè sulla quale sia possibile generare una tensione narrativa e un ritmo in grado di catturare il lettore. Ogni racconto deve bastare a se stesso, essere percepito dal lettore come concluso, deve avere in sé la ragione della sua esistenza, indipendentemente da quello che lo precede o lo segue in una raccolta. Chi scrive racconti non ha molte occasioni per far amare un testo, ma solo un’occasione, quella appunto dello spazio di un racconto.

La diversità e la varietà dei personaggi della raccolta hanno un substrato comune?

I  personaggi sono apparentemente molto diversi tra loro, ma in un modo o nell’altro connessi e non solo per l’architettura complessiva del libro, che qualcuno ha definito un ipertesto. Sono personaggi accumunati da una perdita, subita o provocata, dalla fragilità, dalla solitudine, dal tema della colpevolezza, reale o vissuta. Sono legati da quella che un mio lettore ha definito in una recensione su Amazon “la soave malinconia del vivere”.

Che contesto, che ambiente fa loro di sottofondo?

I contesti e gli ambienti sono i più diversi. Ogni racconto ha un suo genere narrativo. Spaziano dal diario, alla confessione intimistica, dal noir all’horror. Il sottofondo è costituito semmai dal filo conduttore che li accomuna, dalla tecnica narrativa che ha nel titolo stesso la chiave di lettura.

La sua formazione e gli incontri dovuti alla sua professione quanto hanno inciso sulla creazione e sulla vita dei personaggi?

La mia formazione ha inciso moltissimo, non solo per ciò che racconto, ma per lo stile narrativo e la struttura stessa del libro. Dovrei parlare del terzo assioma della comunicazione umana e dell’organizzazione dei ricordi nella memoria di una certa tipologia di pazienti, ma non credo di avere sufficiente spazio per farlo!  Potrei sintetizzare  che il mio è un invito a invertire, ribaltare il punto di vista, cercare il significato oltre l’apparenza.

Ce n’è uno in particolare con cui si è proprio lasciata andare nella fantasia e nella libertà di narrazione?

Elencherei: “Il bambolaio” perché  per il mio stile è stato in assoluto il  più sperimentale; “Reverse” che ha richiesto tutta la fantasia possibile e non svelo volutamente il perché; “L’aeroporto” perché credo che superi l’immaginazione di qualunque lettore.

Il flashback è molto utilizzato nei racconti: secondo lei, oggi ci si sofferma su quello che si è stati o si è avuto?

Non voglio generalizzare, ma se mi guardo intorno credo ci si soffermi nella misura in cui si affidano i propri ricordi ai diari fotografici dei social network, alla tristezza degli autoscatti, alla cronistoria della propria vita in pubblico. Come se si potesse essere certi di esistere solo attraverso una foto, spesso un selfie autoreferenziale. Mi chiedo come si possa passare il tempo a pubblicare quotidianamente dove si è, dove si è stati, che si sta facendo, cosa ci piace fare. Il prodotto è un’autobiografia falsata e un’identità fragile. Erri De Luca scrive in un suo libro che le fotografie sono per chi non ha memoria. Affermazione che trovo calzante per questi tempi in cui viviamo troppo legati all’immagine.

Lei personalmente lo fa?

Personalmente mi soffermo molto sul passato, ma la mia è più una modalità riflessiva che contempla il pudore e la riservatezza della sfera privata. Credo che guardare indietro aiuti per molte cose ad andare avanti, a strutturare quel senso di appartenenza necessario per poi avere la forza di andare oltre nella formazione della propria identità. Quando però ciò che si è stati o si è vissuto diventa un rimuginare sul passato oppure un’idealizzazione mitizzata, allora il prodotto non può che essere lo stallo, la mancata realizzazione del progetto di vita che ognuno di noi è chiamato a realizzare.

Che rapporto ha con gli e-book? preferisce il cartaceo?

Sono nata nel 1974 e subisco ancora il fascino del cartaceo, così come prediligo il corporeo al virtuale, la relazione diretta a quella mediata dei social network, ma credo sia anche un fattore culturale e di abitudine. Considero  il libro un vero e proprio pezzo d’arredo. Amo le case con enormi librerie, anche nella zona pranzo perché per me il libro è la forma più evoluta di nutrimento umano. Tuttavia penso che l’e-book sia il futuro, soprattutto per chi legge molti libri, per chi ama leggere in viaggio o semplicemente per chi non ha spazio sufficiente in casa. Credo che sia il futuro anche per i bassi costi che ha per l’editore e per il lettore quando acquista. Aiuterebbe i libri a non diventare introvabili dopo un certo lasso di tempo, li aiuterebbe ad arrivare ovunque, aiuterebbe un intero sistema sociale nella diffusione della cultura. Credo inoltre sia un processo inarrestabile, così com’è avvenuto per i cd e gli mp3 nel mondo della musica, sebbene siano meno romantici dei Vinili. L’ideale in questa fase sarebbe dare al lettore sempre una doppia scelta: cartaceo ed e-book. Si potrebbe poi fare una considerazione ecologica. Ultimamente  per la promozione del libro dico: salva un albero, compra un e-book!