di Gabriella Grasso (Q Code Magazine, 2 marzo 2016)
– Intervista alla scrittrice Michela Fontana su Arabia Saudita e donne.
Di come vivono le donne in Arabia Saudita qualcosa si sa, ma poco. Sappiamo, per esempio, che non hanno il diritto di guidare e che negli ultimi 25 anni piccole rappresentanze femminili hanno fatto qualche tentativo (il primo nel 1990, l’ultimo nel 2014) per superare un divieto che, pur non essendo scritto, viene considerato assoluto. Quando la giornalista Michela Fontana si è trasferita nel Paese a seguito del marito diplomatico, ha quindi pensato che si trattasse di un’occasione unica per indagare l’universo femminile saudita. Durante due anni e mezzo (dal luglio 2010 al dicembre 2012) la giornalista ha incontrato, intervistato, ascoltato molte saudite, alcune delle quali sono diventate sue amiche. Ne è venuto fuori il libro Nonostante il velo (Vanda Publishing, euro 15) che è un documento prezioso anche per il tono con cui è scritto, che non quello dell’occidentale che giudica o compatisce o disprezza chi vive in maniera diversa. Ma quello di una giornalista – e donna – che ascolta, cerca di comprendere e dà voce.
Innanzitutto, com’è stata per te questa esperienza dal punto di vista umano? Sei ancora in contatto con le donne che hai conosciuto?
«È stata un’esperienza che mi ha arricchito molto: con quasi tutte le donne che ho incontrato si è creato un bel rapporto umano e con qualcuna siamo diventate amiche. Ma a riprova della chiusura del Paese, da quando sono tornata in Italia ogni tentativo di mantenere i rapporti via mail è stato frustrato dal silenzio. Mi hanno risposto in poche e, chi lo ha fatto, ha adottato toni formali, per paura».
Tra gli incontri di cui racconti mi ha colpito quello con Zinah, una donna con il viso gonfiato dal botulino che ti accoglie nel suo sontuoso giardino barcollando su scarpe con la suola rossa e i tacchi altissimi e che poi, durante il vostro colloquio, stigmatizza la libertà delle occidentali e difende il modo di vivere delle saudite.
«Zinah, che però ho incontrato solo una volta, esprime le contraddizioni del Paese: nonostante sia ricca e abbia mandato i figli a studiare all’estero, parlando con me si è subito messa in una posizione di difesa della sua cultura e di attacco alla nostra. Sono molte le donne che, pur viaggiando e godendo delle libertà dell’Occidente, giudicano negativamente i nostri costumi e difendono aspetti della loro cultura che per noi sono inconcepibili».
Come la poligamia. Tu dici che, davanti all’argomento, lo sguardo di ogni donna si riempie di sgomento…
«Sì, tutte quelle che ho intervistato a lungo, con cui ho instaurato un rapporto di fiducia, persino le più religiose, davanti alla parola poligamia hanno mostrato paura e gelosia nei confronti delle altre mogli. A riprova del fatto che i sentimenti delle donne sono identici in tutto il mondo. Ricordo che una di loro, che poi è diventata un’amica, quando abbiamo iniziato a parlare mi ha subito detto, con sofferenza: “Sono la seconda moglie. Non perché lui è divorziato, sono proprio la numero due”. Tutte, alla domanda: “Cosa faresti se tuo marito prendesse un’altra moglie” hanno tradito panico. Una mi ha risposto, mesta: “Mi domanderei dove ho sbagliato”. Certo, ho anche incontrato una professoressa di studi coranici che, insieme a due sue allieve, ha difeso l’istituto della poligamia e del guardiano (in Arabia Saudita le donne hanno bisogno dell’autorizzazione di un wali, un guardiano di sesso maschile, per qualunque decisione legalmente rilevante, per iscriversi a scuola, lavorare, uscire dal Paese, ndr): ma si capiva che recitava a memoria una lezione. Era propaganda. D’altra parte, le saudite sono sottoposte a un lavaggio del cervello sin da bambine».
E per fartelo capire Afifah ti mostra i testi scolastici della figlia e ne traduce per te alcuni passaggi: le donne sono paragonate a gioielli, torte o pistacchi, che devono essere tenuti nascosti per non “ingolosire” i maschi che altrimenti potrebbero volerli “leccare”. Oppure sono descritte come agnelli indifesi e gli uomini come “lupi pronti a divorarle”. Per paragonare la condizione femminile in Occidente e in Arabia Saudita vengono usati due disegni: nel primo c’è una caramella scartata e coperta di mosche e, sullo sfondo, una ragazza in jeans; nell’altra una caramella intatta, avvolta in una bella carta stagnola e, sullo sfondo, una donna velata con il capo chinato…
«Gli argomenti religiosi sono oggetto di studio per cinque ore al giorno fino all’università. La religione viene affrontata in tutti gli aspetti: il Corano, gli Hadith del Profeta, la legislazione, la moralità. In libreria ho trovato un volume dal titolo Fatwas che riguardano le donne che mi ha sconvolto: vi era elencato nei dettagli tutto ciò che si può e non si può fare durante il ciclo mestruale (non si può toccare il Corano, per esempio, ma si può recitarlo) e c’era un capitolo intero intitolato: “Regole riguardo alle secrezioni”. Insomma: esistono norme per tutto, per ogni gesto da compiere e in ogni momento del mese. Sin da bambine le saudite vivono in un mondo di divieti e prescrizioni religiose che non possono trasgredire. La blogger EMAN che è una giovane molto sveglia e brava che ha vissuto in Gran Bretagna mi ha detto chiaramente: “Voi occidentali non lo capite, ma noi veniamo educate così, non possiamo cambiare la nostra mentalità facilmente”. Imparano che l’uomo è predatore e che l’unico modo per difendersi è coprirsi. E in effetti nel Paese quando gli uomini si trovano nei pressi di una donna sembrano davvero dei lupi affamati: ma è la conseguenza della separazione dei sessi. I giovani sauditi sono disposti a fare delle gimcane pazzesche con l’auto pur di intravedere di sfuggita una donna. C’è un’enfatizzazione degli aspetti sessuali che da noi non esiste perché siamo abituati alla mescolanza dei sessi sin da bambini».
Mi ha stupito che anche molte delle giovanissime che hai incontrato – quelle della “generazione Twitter” – difendano certi aspetti della loro cultura come l’istituto del guardiano.
«È vero, parecchie sono convinte che il guardiano sia una protezione. Per certi versi è vero, ma occorre essere molto fortunate. Se hai un padre illuminato che ti concede di studiare e di viaggiare (in compagnia di tua madre) e poi trovi un marito altrettanto aperto che ti consente di lavorare (nel caso tu trovi un impiego, cosa non facile) o di prendere il tè con le amiche, la sensazione di protezione è reale, perché secondo le regole vigenti nel Paese l’uomo deve provvedere alla donna in tutto, lei non deve occuparsi di nulla. Ma il confine è sottile e basta che il guardiano cambi idea o prenda un’altra moglie, perché ogni libertà svanisca. Le donne in Arabia Saudita sono delle eterne adolescenti, non persone con gli stessi diritti civili di un uomo. Ma ora internet sta mostrando ai giovani un modo diverso di vivere: in rete maschi e femmine si parlano e questa è già una vera rivoluzione. Certo, non basta per modificare un’intera società, e internet non è sempre un luogo sicuro, perché si può essere messi in prigione per un Tweet. Però il cambiamento è in atto. Ho conosciuto una giovane che, quando si è tolta il velo, ha scoperto capelli cortissimi e decine di orecchini, oltre a essere essere piena di entusiasmo e idee. Sapendo che non è mai uscita dal Paese e appartiene a una famiglia conservatrice le ho chiesto da dove venissero le sue idee: dal web, mi ha risposto».
Leggendo il tuo libro sembra di capire che molte donne saudite siano convinte che le occidentali vivano nel pericolo.
«Una frase che mi sono sentita ripetere molto spesso – anche da chi ha viaggiato – è questa: “Da voi le donne vengono violentate per strada”. La propaganda antioccidentale è forte: nelle moschee si parla dell’Occidente come luogo di ogni peccato, dove le donne sono tutte prostitute. Ma non è solo questo. Un uomo, parlando con mio marito della possibilità di trasferirsi all’estero con la moglie per un periodo lungo, gli ha detto: “Se sarà costretta a togliere il velo, per lei sarà traumatizzante: ne sarà terrorizzata”. È normale che sia così: se sei abituata a vivere velata, senza velo ti senti nuda. Inoltre, se io in Italia vedo per strada una giovane con una minigonna inguinale, può anche darmi fastidio, ma sono in grado di contestualizzare. Una saudita no, e sarà quindi portata a pensare che da noi non esistano regole morali. Non voglio giustificare i loro pregiudizi, che sono pesanti, ma comprenderli. Per gli uomini sauditi, anche quelli abituati ad andare all’estero, le occidentali sono facili: nel libro racconto di una diplomatica alla quale un tizio, in aereo, si è sentito autorizzato a mostrare delle immagini porno, perché lei viaggiava sola».
Come ti spieghi il massiccio ricorso alla chirurgia estetica da parte delle saudite?
«Ammetto di non aver affrontato con loro l’argomento, che comunque riguarda solo le classi medio-alte, ma ho rilevato che le donne sono interessate a tutti gli interventi estetici che si possono realizzare sotto il velo: non a caso sono le maggiori consumatrici di make-up del mondo arabo e, quando possono, si vestono in maniera estremamente sexy. Sotto l’abaya (un leggero soprabito nero che copre il corpo fino ai piedi, ndr) c’è molto sesso, o meglio molta rappresentazione del sesso. Le donne hanno un rapporto poco sereno, esasperato con la femminilità, perché per loro è tutto: essere donna vuol dire riuscire ad attrarre un uomo, sposarlo, tenerselo. Per molte l’essenza della vita è quella: sposarsi e avere dei figli, specialmente un maschio. Questi sono valori ancora fortissimi».
Qamar era una vera amica, per te. Ma i vostri rapporti si sono incrinati quando ti ha raccontato di aver esultato durante l’attacco alle Torri Gemelle…
«Qamar è la donna più occidentalizzata che abbia conosciuto lì: diventare amiche è stato facile perché avevamo codici comuni, molti argomenti di cui parlare. Lei è l’unica che mi abbia confessato di essere atea (in Arabia Saudita l’apostasia è un reato, ndr). Sono rimasta molto male quando mi ha rivelato la sua gioia in occasione dell’11 settembre: ma dopo ho capito che, probabilmente, nel suo rapporto con me aveva sempre mantenuto un’ambiguità di fondo. Una donna mi ha spiegato che per i sauditi l’ambivalenza nei confronti degli occidentali è normale: mentire agli infedeli non è considerato un peccato, anzi. La parola che è stata impiegata per spiegarmi questo fenomeno è: dissimulazione. Mi ha colpito perché ricordo che era la stessa che avevo incontrato studiando il periodo dell’Inquisizione, quando se avevi idee diverse da quelle della Chiesa dovevi dissimulare per sopravvivere. Evidentemente pure Qamar nel rapportarsi con me ha dissimulato tenendo nascosta da qualche parte, dentro di sé, l’idea che gli occidentali sono nemici. E, in quanto nemici, si può gioire se vengono sterminati in un attacco aereo».
In un capitolo affronti il caso delle donne maggiormente in difficoltà: quelle più povere.
«Sono venuta a contatto con una realtà terrificante e, purtroppo, ho compreso che si tratta solo della punta dell’iceberg. Le donne che vengono arrestate dai mutaween (i membri della polizia religiosa) perché hanno fatto anche un minimo gesto contro la morale – come rivolgere la parola a un uomo – sono considerate disonorate e spesso vengono rinnegate dalla famiglia. Finiscono quindi in centri di accoglienza gestiti da attiviste o da società di carità della Casa Reale. Lì ricevono aiuto, ma essendo senza onore, senza famiglia e senza guardiano, la loro vita è praticamente finita. Sono abbandonate, in povertà, non escono nemmeno più dagli istituti. In generale le donne povere sono nelle situazioni più critiche perché sono anche le più conservatrici: non hanno strumenti per aprire la mente, non hanno studiato, non hanno il computer e spesso nemmeno la televisione. Rispetto a loro, Wadha, la ragazza di cui racconto nell’ultimo capitolo, che vive una situazione pesantissima di abusi familiari, è comunque una privilegiata, perché parla inglese, ha studiato, lavora…».
Ecco, parliamo di lei. La contraddizione maggiore in quella storia è che il padre, che la picchia e la tiene reclusa in casa per mesi, vuole però che lei studi, perché senza cultura non troverà marito…
«Più in un Paese ci sono limiti – imposti dalla religione e da regole tribali – più le contraddizioni emergono numerose. Il padre di Wadha, che pure è un violento, all’inizio quando portava le figlie all’estero non le costringeva a velarsi: finché qualche parente non le ha viste e lo ha giudicato male. Il controllo sociale è serrante e provoca grandi angosce. E più il rigore è estremo, più le contraddizioni scappano fuori, è impossibile che sia altrimenti».
Nel libro riporti questa frase del poeta e attivista Hamza Kashgari: «Nessuna donna saudita finirà all’inferno, perché non si può essere condannate all’inferno due volte». Ecco: io, nonostante abbia molto apprezzato il distacco con cui tu racconti ciò che hai visto e sentito, ho pensato che avesse ragione.
«Mentre vivi lì ti abitui a tutto: a infilarti l’abaya con gesti rapidi prima di uscire in strada, a entrare solo nei posti riservati alle donne altrimenti vieni cacciata… Poi prendi un aereo e quando, atterrata da un’altra parte, vedi donne e uomini che interagiscono tranquillamente, ti stropicci gli occhi e ci metti un attimo a ricordare: ah, è vero, questo è il mondo normale. Non dimentichiamo però che l’Arabia Saudita è un Paese importante nello scenario internazionale, che riesce a conciliare principi rigidi – che poi sono gli stessi di Daesh – con il fatto, per esempio, che ci siano donne che vanno a laurearsi all’estero e poi tornano per mettersi sotto la tutela di un guardiano. Insomma, è troppo facile dire: è l’inferno. Se fosse così, sapremmo che prima o poi è destinato a finire. Invece quello che voglio far capire con questo libro è che ci sono inferni che possono stare in piedi a lungo. Inferni che, in qualche modo, funzionano. Però occorre dire che il cambiamento sta avvenendo. Per i nostri ritmi è lentissimo, ma è indubbio. Molte saudite ottimiste mi hanno detto: “Tu non hai idea dei passi avanti che sono stati fatti rispetto a qualche anno fa; ora ci sono argomenti di cui si inizia a parlare”. Anche il fatto di concedere il voto alle donne e di inserire membri femminili negli Shura Council, seppure siano atti più che altro simbolici, sono comunque significativi in un Paese così chiuso e refrattario ai mutamenti. C’è ovviamente da augurarsi che il progresso continui, perché con quello che sta avvenendo in Medio Oriente, si potrebbe anche tornare indietro».