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Erotismo al femminile: le italiane sanno fare anche da sole


di Francesca Amè (Io donna, 31 luglio 2015)


– Oggi 31 luglio è la giornata internazionale dell’orgasmo. E, dati alla mano, le donne italiane si stanno dimostrando sempre più emancipate nel campo dell’eros e capaci di ricercare da sole il piacere. Anche con sex toys e pornografia al femminile.

L’erotismo? Sostantivo femminile plurale. Declinato come le donne di oggi: mature, indipendenti, libere. C’è una nuova rinascita del piacere, tra le italiane – qualcuna parla addirittura di ‘rivincita’, dopo anni di sottomissione – e per ogni Anastasia Steel di carta, c’è una donna in carne e ossa che si mette davanti al computer per comprare accessori, gustarsi film o leggersi libri ad alto tasso erotico. Il tasso giusto però, ovvero un cocktail ben dosato di sesso, seduzione, intelligenza, realismo.

Il nuovo erotismo delle donne italiane è fatto di una ricerca del piacere che rifugge modelli stereotipati e maschili, che accarezza narrazioni complesse e pretende verità nella rappresentazione delle storie e dei corpi. In questa bollente estate 2015, le donne italiane hanno imparato a cercare da sole gli spazi appaganti per il proprio eros. Lo dimostrano anche i dati che Sexalia.it fornisce a iodonna.it in anteprima. La piattaforma italiana di e-commerce specializzata nella vendita di sex toys, lingerie e accessori erotici e gestita da Alessandro Fabiani, il ceo, che è laureato in fisica, con DarIo Ferretti e Maurizio Ruffo, e che si è data come obiettivo quello di sdrammatizzare il settore, ha appena lanciato un sondaggio tra i suoi utenti sui prodotti più appetibili.

I sex toys più venduti in rete sono quelli per il piacere femminile: vibratori e dildo, preferibilmente realistici. Diciamolo subito: non è roba da ragazzine. La fascia di età delle clienti è compresa tra i 35 e i 50 anni: sono donne disposte a spendere in media 51 euro a testa per soddisfare i propri desideri e pronte ad acquistare accessori e toys anche su canali di larga fruizione, ad esempio con campagne su gruppi di acquisto on line. Segno evidente – questo – che la soglia del pudore femminile in Italia si è abbassata, specie nelle grandi città (Roma, Milano, Torino, Brescia sono i centri di maggiore acquisto nel settore).

Si sono alzate invece le esigenze delle donne, eccome. In questa nostra inchiesta sul piacere femminile, ci siamo fatte guidare da Erika Lust, pluripremiata regista e scrittrice svedese, classe ’77, natali a Stoccolma e ora di casa a Barcellona dove da una decina d’anni realizza con successo film “erotici e femministi” (parole sue). Noi diamo i dati: la sua casa di produzione, che vive di autofinanziamento ed opera al di fuori delle logiche delle major del settore, ha un team quasi esclusivamente femminile e un pubblico fedele che ha permesso a Erika Lust di accreditarsi anche tra i critici come autrice intelligente ed innovativa del genere erotico.

«L’erotismo ha sofferto molto negli ultimi anni. Tutta colpa del porno mainstream che ha confuso le persone, trasformando l’eros in qualcosa di volgare, facile ed economico. Per fare film erotici servono invece immaginazione, capacità seduttiva, stimolazione sessuale», racconta Erika. L’occasione è la presentazione, in anteprima per iodonna.it, del suo nuovo progetto cinematografico. Si chiama «Xconfessions» ed è una serie di cortometraggi erotici dall’animo social. L’idea è semplice: perché non sfruttare i reali desideri del pubblico per costruire sceneggiature realistiche? Ogni mese gli utenti del sito xconfessions.com inviano in forma anonima le loro fantasie sessuali e la regista svedese sceglie le due storie più stuzzicanti e le trasforma in cortometraggi che poi riversa on line.

È la prima volta che il settore dell’intrattenimento per adulti si apre ai social in questo modo: un altro segno, l’ennesimo, che l’erotismo sta maturando. Che gli utenti cercano una partecipazione attiva, non una fruizione veloce e banale dei prodotti. Cercano un’esperienza del piacere. Per Erika Lust si tratta in fondo di un ritorno al porno d’autore: «Pensiamo ai registi degli Anni 70, persone come Bob Chinn e Bud Townsend, che giravano pellicole in cui l’eros era il simbolo e l’affermazione del potere delle donne: il porno mainstream ha trasformato tutto questo in un erotismo triviale, teso a degradare le donne e i loro corpi.

Un danno enorme, specie per le giovani generazioni che non conoscono le vecchie produzioni e on line cercano solo gratificazione immediata: vogliono un piacere veloce, gesti rapidi, senza prendersi il tempo giusto per indagare a fondo i loro desideri. Ma ora la sensualità si sta prendendo la rivincita: le donne vogliono mostrare a tutti che non sono strumenti nelle mani del piacere maschile ma persone seduttive e desiderose, a loro volta, di essere sedotte». Secondo la regista svedese, si può parlare di un nuovo femminismo nel settore.

«Registe come Jennifer Lyon Bell, Tristan Taormino, Ovidie, Vex Ashley, solo per citarne alcune che stanno rivoluzionando e ridefinendo il genere, non mostrano più donne in attesa di cavalieri pronti a iniziarle ai piaceri del sesso – spiega -. Tutte noi cerchiamo donne sicure di sé, femminili, piene di curiosità senza essere volgari: questo nuovo modo di pensare all’erotismo femminile nasce dal desiderio di mettere sullo schermo la parità tra i sessi, anche sotto le lenzuola, e si batte per una valida rappresentazione delle donne, dei loro desideri e dei loro corpi».

Ma che cosa cercano le donne nel porno d’autore? «Un sesso veramentale piacevole. Cercano storie con una buona sceneggiatura e narrazione, una scrittura e un’interpretzione capace di accendere la loro immaginazione e i loro sensi. Cercano vere donne e veri uomini che si danno piacere, amano che si indugi su dettagli quali l’espressione facciale. Le donne apprezzano una buona regia, la scelta delle location, dialoghi non approssimativi. Attenzione: non sto dicendo che le donne vogliono un porno ‘epurato’, fatto di petali di rosa e lenzuola di seta. Vogliono un sesso “sporco” come spesso piace anche agli uomini ma girato meglio, in modo più convincente e – diciamolo – senza che il membro maschile sia il solo oggetto di attenzione. Vogliono il corpo degli uomini si mostri in tutta la sua bellezza e complessità: il volto, le mani, il busto, così come accade per quello delle donne».

Una declinazione particolare dell’erotismo al femminile sta venendo timidamente allo scoperto anche nelle librerie italiane. Parliamo del mondo lesbo. Lo dimostra l’ebook, disponibile da questi giorni per vanda.epublishing (al costo di 5,99 euro), #ioquestamelasposo, inedito, divertente ma non poco sofferto viaggio nel piacere declinato tutto al femminile. A guidare le lettrici è Agata Baronello, nom de plume dell’autrice, professionista single, che ha vissuto sulla sua pelle «la fine di un amore, il dolore, l’elaborazione del dolore, l’iscrizione ad un’app di incontri lesbici, gli incontri voluti, cercati, sperati». Si tratta del racconto, quasi il report, di due anni di chat suddivisi in dieci incontri che si aprono su un universo femminile a tratti inaspettato: dietro il nick, ci sono donne sposate e infelici, donne spavalde, donne che cercano attraverso il sesso un ruolo che non hanno, donne buone e donne truci, donne fedele e donne fedifraghe.


 

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Donne con il velo a #CasaCorriere


di Ida Bozzi (ViviMilano, 22 luglio 2015)


 Cosa si nasconde dietro al velo di una donna saudita? Sottomissione, religione, volontà di libertà?

Cosa si nasconde dietro al velo di una donna saudita? Sottomissione, religione, volontà di libertà? La milanese Michela Fontana ha vissuto due anni in Arabia Saudita per cercare di capirlo e di entrare in contatto con una cultura per molti versi distantissima dalla nostra. Racconta la sua esperienza venerdì 24 luglio a #CasaCorriere nell’incontro “Una matematica milanese in Arabia Saudita” (ore 18.30). Partendo dal suo libro “Nonostante il velo”, intervistata da Viviana Mazza, propone uno sguardo femminile e occidentale sulle donne con il velo.


 

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Nonostante il velo, l’Arabia Saudita delle donne


di Marta Traverso (Mentelocale, 18 luglio 2015)


– Se dico Arabia Saudita, quali sono le prime parole che ti vengono in mente?

Se dico Arabia Saudita, quali sono le prime parole che ti vengono in mente? Tento un’ipotesi: petrolio, Islam, La Mecca, re, Osama Bin Laden, Raif Badawi. Se dico Arabia Saudita dopo aver letto Nonostante il velo e parlato con l’autrice Michela Fontana, queste le prime parole che vengono in mente a me: abayahijabniqabhalalharamShuramahrammutaween. Immersa nella melodia dei termini più pronunciati tra le donne in quel Paese, scopro ancora una volta che ogni luogo e ogni comunità di questa terra non è un unicum – sebbene spesso lo percepiamo come tale – ma una complessa varietà di sfaccettature e sfumature.

Nonostante il velo racconta storie di saudite dirigenti d’azienda, avvocate, ingegnere, dottoresse, persino una viceministra. Saudite che si truccano e ricorrono alla chirurgia estetica, pur coprendosi il viso con il niqab ove sono tenute a farlo. Saudite che hanno studiato in Egitto, Europa e Stati Uniti, e hanno poi fatto ritorno a casa, perché è la loro casa, appunto. Saudite che scaricano film da Internet, leggono clandestinamente i romanzi haram (proibiti), cercano l’amore nelle chat e si informano su Twitter. Saudite che piangono la morte di Osama Bin Laden e si scandalizzano all’idea che una recente legge consenta loro di lavorare come commesse nei negozi di abbigliamento e biancheria intima femminile.

Scelgo di parlare con Michela perché queste storie, le loro sfaccettature e sfumature, meritano rispetto. Il rispetto che lei per prima, mi spiega, ha accordato loro durante la sua permanenza: «Devo premettere che quanto descrivo è solo uno spicchio della società saudita: le donne che hanno accettato di parlare con me, perché non tutte sono disposte o interessate a conoscere un’occidentale, e che hanno avuto il permesso dai rispettivi guardianiConfesso di aver avuto difficoltà, all’inizio, nel trovare il tono più giusto per parlare, porre domande, creare un legame di reciproca fiducia. L’altra persona lo sente, quando ti rivolgi a lei con pregiudizio: solo sgombrando del tutto la mente mi sono potuta avvicinare a persone con una cultura così lontana dalla mia».

Le saudite non possono fare nulla senza l’approvazione del guardiano (mahram), il parente maschio più prossimo: né lasciare il Paese, né prelevare dal bancomat, né iscriversi all’Università o cercare un lavoro. La condizione femminile ha conosciuto una recente evoluzione quando il re Abdullah, deceduto da pochi mesi, ha accordato loro il diritto di voto e la possibilità di candidarsi ai consigli municipali e di entrare nella Shura, l’organo consultivo della monarchia. Nulla di tutto questo sarebbe avvenuto, se non per mano di un uomo. «La rivendicazione dei diritti delle saudite si può definire femminismo di Stato, precisa Michela. ­Donne che ottengono privilegi grazie a famiglie benestanti e di aperte vedute, che consentono loro di studiare all’estero e trovare poi lavoro in una delle grandi aziende saudite, talvolta quella di famiglia. Donne che vengono poi esibite, a cui è consentito incontrare persone straniere e andare all’estero, a rappresentare e raccontare il proprio Paese. Un ulteriore privilegio che si ottiene per concessione del re, Padre gentile e illuminato, e non un diritto che spetta loro tout court».

Una cosa alle saudite non è ancora permessa: guidare. Chi deve spostarsi per necessità quotidiane, per andare all’Università oppure al lavoro, deve essere accompagnata ogni giorno da un parente maschio o da un autista. Il diritto alla guida, che nel Paese con una segregazione sessuale tra le più rigide al mondo non è certo una priorità, ha acquisito nel tempo un forte valore simbolico. Michela ha incontrato alcune donne che nel 1990 hanno partecipato alla prima manifestazione della storia saudita, guidando nel centro della capitale Riad. «La guida è emblematica nel dare l’idea di quante limitazioni vivano le saudite, prosegue Michela. Una rivendicazione simbolica ma efficace, tanto che le ultime due donne che hanno guidato in pubblico, verso la fine del 2014, sono state arrestate con l’accusa di terrorismo. Molte di loro mi hanno confidato che guidare non è poi così importante, sia tra chi sostiene è così comodo avere l’autista, ma anche tra chi l’autista non può permetterselo. Il vero obiettivo, più difficile da affrontare apertamente, punta dritto al cuore della segregazione: non vogliamo più essere solo donne, ma esseri umani, mi hanno detto. La figura del guardiano ricorda – se mi si concede il paragone – quella dei/delle minorenni occidentali, che hanno bisogno dell’autorizzazione dei genitori quasi per ogni cosa che fanno: la condizione delle saudite è di essere minorenni a vita».

Ciò che tuttavia emerge, dalla lettura di Nonostante il velo, è che molte non cambierebbero la loro condizione. Il loro destino è radicato fin dalla primissima infanzia attraverso una rigida educazione wahhabita (la corrente dell’Islam praticata in Arabia Saudita), e anche chi ha vissuto all’estero vede l’Occidente come un luogo senza morale e pericoloso. Mi domando quanto sia stata reciproca la curiosità, quante e quali domande siano state poste a Michela, non solo sulla condizione femminile in Occidente ma anche su argomenti più leggeri come la cucina italiana. «Ho percepito di rado una simile curiosità da parte loro, non sono state in molte a pormi domande, e qualora avvenisse era sempre restando sulla difensiva. Come noi occidentali abbiamo preconcetti sull’Islam duri da sfatare, loro ne hanno di analoghi nei nostri confronti, e non sembravano interessate a ottenere chiarificazioni a riguardo. Il trovarsi nella stessa stanza con un’occidentale e parlare con lei esauriva già la loro curiosità. Anche le più giovani, le attiviste, mi chiedevano di essere un mezzo per far sentire la loro voce al di fuori del Paese, ma nulla di più».

Michela è tornata in Italia da circa due anni. Le donne che ha incontrato sanno che le loro conversazioni sono divenute un libro, ma non lo possono leggere. Nonostante il velo è haram (proibito) in Arabia Saudita. Chiedo a Michela cosa le manca di più di quel Paese: «Vivere in Arabia Saudita mi ha arricchita moltissimo, sotto diversi aspetti: io stessa, nonostante fossi straniera, ho dovuto sottostare alle stesse regole imposte alle donne saudite. In un Paese occidentale sarebbe impensabile vivere così immersa in ambienti esclusivamente femminili, e ho compreso che le dinamiche emotive e molti argomenti di conversazione fra donne sono identici in ogni luogo del mondo. Non sarebbe giusto andare da queste donne a impartire lezioni, a trasmettere i nostri valori come i più giusti o gli unici giusti. Il solo risultato che si ottiene è un atteggiamento di difesa e ostilità da parte delle donne. L’Arabia Saudita è un Paese dove tutto procede molto lentamente, e dove i principi della cultura e della religione sono radicatissimi in ogni persona. Ho incontrato ragazze molto giovani, la cui mentalità è assai diversa da quella delle loro madri: chattano con i ragazzi per scegliere da sé il futuro marito, in un Paese dove donne e uomini non imparentati non possono stare nella stessa stanza. I desideri di cambiamento devono maturare dall’interno, nessuno glieli può imporre».

Vero. L’istinto di liberare le oppresse viene meno, proseguendo nella lettura, quando ci si rende conto che poche fra loro vogliono o ritengono di poter essere liberateSolo chi vive situazioni di estrema violenza, come la ragazza dell’ultima storia raccontata nel libro, che scappa non da una cultura o da una religione ma dal pericolo per la sua stessa vita. Tutte le altre – ripeto, donne benestanti e con un guardiano aperto, in una società dove la povertà è presente ma tenuta nascosta – sanno dalla nascita che la loro vita è quella, e la scelgono di buon grado anche dopo aver conosciuto il modo di vivere occidentale. Come una donna ha fatto notare a Michela, anche da voi le donne guadagnano meno degli uomini, no? Non siamo poi così diverse.


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Arabia Saudita, la condizione delle donne descritta da Michela Fontana


di Farian Sabahi e Domenico Affinito (IoDonna, 14 luglio 2015)


– È l’autrice di “Nonostante il velo”, pubblicato in formato elettronico da Vanda e stampato on demand dal sito Amazon.

In Arabia Saudita le donne sono confinate in un ruolo di secondo piano, secondo una rigida applicazione del diritto islamico. Per tutta la vita sono considerate minori, e di conseguenza non possono muoversi liberamente, nemmeno per andare all’ospedale, se non sono accompagnate da un guardiano. È l’istituto del guardiano che le relega in secondo piano. Eppure, sebbene non possano guidare l’automobile e tanti diritti (che noi diamo per scontato) negati, esprimono forti istanze di rinnovamento. Ad aprirci uno squarcio nella realtà femminile saudita è Michela Fontana che in Arabia Saudita ha vissuto due anni e mezzo, dal 2010 al 2012, al seguito del marito ambasciatore d’Italia a Riad. Un soggiorno che le ha permesso di incontrare tante donne, diverse, e di scrivere il libro “Nonostante il velo” pubblicato in formato elettronico da Vanda e stampato on demand dal sito Amazon.