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Un dono sovversivo


di Alessandra Pigliaru (Il Manifesto, 24 aprile 2015)


– Un incontro con Genevieve Vaughan, filosofa e femminista americana che studia le società del libero scambio, individuando in quella gratuità, che ha radici materne, il principio anticapitalista per eccellenza.

Tra antropologia, filosofia, semiotica e linguistica, secondo Genevieve Vaughan l’economia del dono è efficace perché le si riconoscono le radici nel dono materno unilaterale. La scelta radicale di parlare di dono attraverso una critica femminista è stata una pratica e una scoperta, metodo teorico-pratico di lettura della realtà. Negli anni, alcune intersezioni – come per esempio i Moderni studi matriarcali fondati da Heide Goettner-Abendroth – hanno lambito le originali analisi di Vaughan sull’urgenza dell’economia del dono. Passando dal ripensamento delle categorie marxiane fino alle pratiche messe in atto da società pre-capitalistiche e spesso matricentriche ancora esistenti, i suoi interventi sono integralmente consultabili al sito internet: www.gift-economy.com.
Tra i suoi libri più significativi vi è certamente quello che riassume la questione dell’economia del dono, For-giving. A feminist criticism of Exchange (1997) tradotto in Per-donare. Una critica femminista dello scambio (Meltemi, 2005). Più recenti sono invece The Gift in the Heart of Language: the maternal source of meaning (Mimesis International, 2015) e Homo Donans, scritto qualche anno fa in inglese e ora in italiano in ebook (edizioni VandA, 2015). Negli Stati Uniti ha creato una fondazione composta da donne che si è occupata di antinucleare, pace, antirazzismo e varie altre questioni. Si chiamava Foundation for a Compassionate Society. «Mi hanno detto che la parola compassione non suona bene in italiano – racconta Vaughan – in realtà intendevo solo dire che la società, invece di crudele, doveva essere compassionevole. È stato un tentativo di cambiare i valori attraverso la pratica».

Quando ha cominciato a riflettere sul dono?
Ho iniziato negli anni Sessanta, mi ci è voluto però molto tempo per arrivare a un pensiero compiuto. Sono una slow philosopher, ho praticato slow thinking. Allora c’erano pochi autori che ne parlavano. C’era stato Marcel Mauss, ma i tre punti del «dare, ricevere, ricambiare» – che secondo lui caratterizzano il dono – non mi soddisfacevano; poi Lewis Hyde negli Stati Uniti, con il suo libro del 78 The Gift e il gruppo della rivista Mauss fondata all’inizio degli anni Ottanta in Francia sono stati fra i primi. Nei miei libri spiego come ho iniziato allora a cercare di definire il dono. Trovo che sia una base del linguaggio. Sono diventata femminista qui in Italia, ma poi sono tornata a vivere negli Stati Uniti nel 1983 e ho portato a casa sia il femminismo italiano che le mie idee sull’economia del dono. Siccome nessuno del mio ambiente aveva mai sentito niente del genere, ho pensato che dovessi praticarlo. L’ho fatto in Texas con la Foundation for a Compassionate Society, che è stato un esperimento fondamentale.

Perché l’idea di proporre un convegno sulle radici materne dell’economia del dono?
Gli studi matriarcali e indigeni ci aiutano a connettere il materno e l’economia del dono perché mostrano come possa funzionare l’economia del dono nella realtà. Gli studiosi e attivisti indigeni non hanno la stessa visione del dono che aveva Mauss e abbiamo ora la possibilità diretta di ascoltarli e collaborare. Nelle loro società, in molti casi, si vede il dono ancora funzionante malgrado gli attacchi della società patriarcale e capitalista europea. Tutte le diversi voci che riflettono sul dono uniscono moltissimi movimenti economici, femministi, indigeni, ecologisti, pacifisti che operano per soddisfare il bisogno di cambiamento di paradigma, per realizzare una società radicalmente diversa.

Dal 2001 a oggi si è sempre occupata dell’«International Feminists for a Gift Economy». Nel suo ragionamento c’è un legame primario tra il dono e la cura materna; il paradigma è lo spostamento dal «do ut des» nella infinita catena di dono e contro-dono al piano del bisogno. È il riconoscimento di sapersi dipendenti?
La logica del dono unilaterale aderisce alla logica primaria della vita, ed è molto diffusa; non c’è niente di straordinario né l’ho mai intesa come una conquista di carattere morale, piuttosto come una pratica di cura che, fin dall’infanzia, crea rapporti di mutualità e fiducia. Dal momento della nascita si riceve tutto in dono – dalla madre o da chi si prende cura di chi è piccolo che, in alcuni posti del mondo, sono addirittura villaggi interi. Nel caso dei bambini e delle bambine è una questione di vita o di morte, nel senso che chi non viene curato non sopravvive. La logica del dare e ricevere è transitiva, ovvero ciò che viene prodotto passa dall’uno all’altro per soddisfare un bisogno. Il dono gratuito costituisce quello che in economia si chiama modo di distribuzione e la matrice, la modalità in cui si dispiega, dà uno spazio allo sviluppo infantile di una soggettività imperniata intorno a quella esperienza trasmissiva, non alla esperienza dello scambio, che i bambini capiscono molto più tardi.
È interessante notare come l’esperienza della dipendenza positiva si scontri con l’indipendenza proposta dal mercato: paradossalmente, quest’ultima è proporzionale al guadagno di una efficiente dipendenza. In una comunità basata invece sull’economia del dono, tutti si riconoscono dipendenti e tale dipendenza – di altra qualità rispetto a quella offerta dal mercato – fa arretrare la prestazione coercitiva e selettiva.

In un momento drammatico come quello che stiamo vivendo, con il neoliberismo che inneggia all’agonismo, vi è una pesante divaricazione tutta retorica che prevede la gratuità per «meritare di esistere» e il sacrificio. Come fa il dono a non essere divorato o piegato agli interessi perversi dello sfruttamento contemporaneo?
Il mercato è un meccanismo di appropriazione dei doni. Il plus-lavoro, inteso come lavoro non pagato, è un dono forzato così come lo sono le risorse naturali – l’acqua per esempio o i semi che un tempo erano gratuiti e ora sono stati acquisiti, privatizzati e trasformati in merci dalle multinazionali.
Il lavoro delle casalinghe, anche se non è forzato nella stessa maniera, costituisce un dono all’economia stessa (aumentando il Pil di un’alta percentuale di cui l’entità esatta è ancora dibattuta da ricercatori come Waring e Ironmonger) poiché i datori di lavoro non devono pagare e quindi il «dono» delle casalinghe contribuisce al loro profitto.

Il mercato si erge come modello di comportamento, creando un homo economicus che non è mosso dal bisogno altrui. Si pone come unica misura di benessere, peccato che il dare per ricevere qualcosa in cambio nasconda come unica mira il «dono di profitto» creando l’illusione di essere principio di valore autosufficiente. C’è un modello di convivenza sotteso a tale dinamica, un motto equivalente al mors tua vita mea, un dispositivo vendicativo dell’occhio per occhio ma anche esempi più insidiosi perché apparentemente positivi – la giustizia come indennizzo del crimine o il senso di colpa come preparazione al risarcimento. In queste strutture includerei anche il meritare di esistere o attraverso lo scambio o attraverso il dono. Se sul piano macro-economico il mercato divora il dono e lo piega ai propri interessi, su quello della pratica quotidiana penso sia importante una presa di coscienza dell’esistenza di questa economia materna nascosta, per potersi sottrarre al cannibalismo del mercato che vorrebbe piegare universalmente volontà e desideri.

Che cosa esattamente produce questo mercato rovinoso che cerca di servirsi dell’economia del dono?
Proprio negli ultimi giorni abbiamo tristemente assistito alla rappresentazione dei valori bio-patici di cui questo mercato è intriso; questi valori sono facilitati dalla negazione o rimozione della memoria storica e di contesti materiali più ampi. La mia amica Charito Basa (presidente del Filipino Women’s Council, ndr) ha detto che i migranti «vanno dove sono andati i loro soldi»; vengono in Europa perché prima c’è stato lo sfruttamento dei doni e delle risorse dei loro paesi da parte dell’Europa (e degli Stati Uniti). Questa accumulazione dei doni nel Nord del mondo ci fa apparire come se avessimo una grande e ricchissima economia indipendente, anche se facciamo finta di ignorare la provenienza di quella ricchezza.

Non vogliamo che gli immigrati si impadroniscano del nostro bottino che abbiamo preso da loro. Così quello che viene prodotto – che deriva dallo statuto dell’homo economicus – è una cecità stupefacente dinanzi ai deboli, agli ultimi, alle vittime di una povertà inaudita e causata dalle guerre armate anche dall’occidente. Gli uomini e le donne, le bambine e i bambini, che spesso trovano la morte nel nostro Mediterraneo si spingono fin qui per poter dare da mangiare ai propri figli e alle proprie figlie, per poter praticare il dono necessario alla loro vita.


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Medioevo Arabia Saudita. Cosa cambia sotto il velo.


di Claudia Cangemi (Il Giorno, 19 aprile 2015)


Michela Fontana racconta la vita la vita delle donne a Riad.

Il volto meno disumano dell’integralismo islamico. Si potrebbe forse definire così l’Arabia Saudita, accusata in passato d’essere stata culla dei terroristi di Al Qaeda ma ufficialmente al fianco dell’Islam moderatoe del fronte anti Isis. Ma il Paese governato in base ai dettami della Sharia è noto alle cronache anche per la rigida segregazione e le oppressive limitazioni della libertà delle donne, cui è vietato guidare la macchina e muoversi senza un “guardiano”, pena l’arresto. In questa nazione teocratica, e ricca di preziose materie prime (il petriolio innanzi tutto) ha vissuto per due anni e mezzo Michela Fontana, giornalista e saggista milanese con lunghi trascorsi all’estero anche come addettascientifica nelle ambasciate, dagli Stati Uniti alla Cina. E con il pragmatismo tipico del documentarismo e il piglio del miglior giornalista d’inchiesta, Fontana ha voluto esplorare in profondità quella società, per capire cosa pensano le donne sotto e “Nonostante il velo – Donne dell’Arabia Saudita“. «Parlare con le dirette interessate era il solo modo per capire – spiega-. In una società così chiusa ci vuole tempo per superare la diffidenza inculcata verso l’occidente inculcata in queste persone».

Qual è il quadro che emerge dalle sue ricerche sul campo? «Dall’interno può sembrare una società immobile in regressione, ma da vicino si scorge qualche segnale di movimento, in mezzo a mille contraddizioni».

Nell’anno 2015 come possono le donne arabe accettare una condizione così anacronisticamente subalterna? «Pare incomprensibile in effetti. Ma occorre considerare il fatto che l’Arabia Saudita non è una democrazia bensì una monarchia assoluta di tipo teocratico. i sauditi fon dalla tenera età subiscono un vero e proprio lavaggio del crevello: basti pensare che frequentano 5 volte al giorno di lezioni religiose e il merito più grande è recitare a memoria tutto il Corano».

Nel libro racconta un episodio straziante, accaduto tredici anni fa. «Una storia ancora peggiore di quella ricordata nella Giornata della Donna. L’11 marzo 2002 scoppiò un incendio in una scuola della Mecca. Le ragazze che seguivano le lezioni tentarono di mettersi in salvo, ma i sacerdoti le ricacciarono indietro perchè non indossavanoo “abaja”e il velo. Impedirono di entrare persinio ai vigili del fuoco e ai genitori disperati. Morirono in quindici, altre cinquanta rimasero ferite».

Ci racconti come vive “l’araba media”. «È soggetta al potere maschile, come si suol dire, dalla culla alla tomba. In genere passa senza soluzione di continuità dalla prevaricazione del padre a quella del marito. raramento lavora e resta quasi sempre segragata in ambienti esclusivamente femminili. Non può uscire se non velata o in compagnia di un uomo».

E quali sono i segnali di cambiamento di cui parla? «Le ragazze studiano più a lungo, si sposano spesso molto più tardi (non a 16-17 ma a 25 o 30) o a volte rifiutano le nozze per restare nella famiglia d’origine e non subire più botte e violenze o di finire ripudiate. Sempre più frequenti sono i matrimoni d’amore anzichè combinati dalle famiglie».

Merito di tv e web che portano il mondo in casa? «Infatti, questo è un elemento più tra i più stridenti. In un Paese dove viene impedito ogni contatto tra uomini e donne, molte ragazzine chattano via Internet proprio come le loro coetanee americane…».

E dal virtuale si passa poi al reale? «Capita, sì. Ma poichè le più emancipate e intraprendenti sono considerate “facili”, spesso i ragazzi ne approfittano: le seducono promettendo il matrimonio e poi le lasciano, senza subire alcuna riprovazione sociale. Gli uomini possono sposare tutte le donne che sono in grado di mantenere e c’è persino una forma di adulterio legalizzato: il matrimonio temporaneo può durare pochi giorni e non implica alcun obbligo».

Come possono accettare tutto ciò, le donne? «Oltre all’educazione oppressiva, hanno molta da perdere. Essere messe al margine o in carcere. Alcune poi sostengono di sentirsi protette dalla segregazione e di considerare noi occidentali alla mercé della violenza maschile».

C’è modo di aiutarle sulla via dell’emencipazione? «Le attiviste chiedono di parlare di loro il più possibile: la cattiva reputazione internazionale è il tallone d’Achille del regime».


 

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‘Nonostante il velo’, come le donne cambiano la storia


(Ansa, 1 aprile 2015)


Michela Fontana racconta l’Arabia Saudita al femminile.

Un diario-reportage-intervista in cui le donne arabe, raccontando se stesse, svelano allo sguardo occidentale il misterioso universo femminile che in Arabia Saudita sta, tra mille difficoltà, cambiando la storia: è questo ‘Nonostante il velo‘, libro della giornalista Michela Fontana (VandA.ePublishing. Disponibile online in tutti i bookstore).

In quello che è uno dei più misteriosi Paesi islamici, dove è praticata una rigida segregazione dei sessi, qualsiasi sia il loro ruolo sociale o la loro professione le donne ”vivono confinate nel ruolo disegnato per loro dalla Sharia, dipendono a vita da un guardiano, non possono guidare l’automobile, non possono mescolarsi agli uomini, né in pubblico né privato, in un harem diffuso fatto di divieti, di soglie, di proibizioni, di ingressi separati”. Vivendo e lavorando a Riad per due anni e mezzo l’autrice ha potuto accedere ad un mondo femminile del tutto precluso a molte occidentali di passaggio e a qualsiasi uomo, esplorando la società saudita dall’interno e raccontandola attraverso gli occhi delle donne che ne fanno parte. Con loro ha parlato, si è confrontata scoprendo che dietro questa cortina di ferro ”sono proprio le donne ad esprimere le più forti istanze di rinnovamento del paese”.

Raccontando le storie delle donne Fontana fornisce inoltre una chiave di lettura per interpretare il mondo islamico e una cultura che a noi appare spesso incomprensibile. Michela Fontana giornalista e saggista, ha vissuto quindici anni tra Usa, Canada, Svizzera, Cina e Arabia Saudita. Il suo libro ‘Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming’ (Mondadori 2005), tradotto in francese e inglese, ha vinto il “Grand Prix de la biographie politique” nel 2010. (ANSAmed).