(Democratica, 13 novembre 2013)
– Come accade che un chirurgo di belle speranze si trasformi in aguzzino? Un estratto dal libro di Anna Momigliano, «biografia di un tiranno che non voleva esserlo».
Bashar ha vissuto una parte della giovinezza all’ombra del fratello Basil e i primi anni della presidenza temendo – e, direbbero alcuni, a ragione – il confronto con il padre. «Il fantasma di Hafiz lo perseguitava», ricorda Roula Khalaf, la corrispondente del Financial Times in Medio Oriente. Hafiz era una leggenda, il patriarca della nazione, demiurgo del regime socialista: non sorprende che davanti a un’eredità tanto ingombrante Assad figlio, che dopo tutto era una seconda scelta, abbia avvertito a lungo una certa soggezione.
Tuttavia intorno al 2007 le cose cambiano radicalmente, e il timore reverenziale cede il passo a uno spavaldo senso di rivalsa – nei confronti del mondo e del fantasma paterno. «In quel periodo Bashar ha cominciato ad andare in giro dicendo: “Io sono più grande di mio padre”, si sentiva invincibile», racconta Ayman Abdel Nour, un ex amico dei tempi dell’università che per anni ha lavorato col regime, prima di schierarsi con l’opposizione. Abdel Nour, come altri che hanno conosciuto Bashar, vede nel 2007 un punto di svolta per il presidente e per il suo regime: il momento in cui Bashar ha cominciato a covare un’illusione di onnipotenza che avrebbe poi contribuito a far precipitare la Siria nel caos.
Per Assad padre l’isolamento internazionale è stato, almeno in parte, una scelta dettata dall’orgoglio, ma per Bashar le cose sono andate diversamente. Il giovane Assad non condivideva la scelta isolazionista del padre e avrebbe desiderato, pure con la massima cautela, abbattere alcuni dei muri che circondavano la Siria. Dopo la sua salita al potere, nel luglio del 2000, in un primissimo momento sembravano anche esserci le condizioni necessarie a portare avanti questo cambiamento: gli Stati Uniti riponevano ancora fiducia nel processo di pace ed erano disposti a venire incontro al regime siriano. E proprio in quel periodo a Damasco fioriva una tiepida stagione riformatrice che il mondo guardava favorevolmente.
Nel giro di pochi mesi, tuttavia, gli equilibri del Medio Oriente cambiano radicalmente. Nell’autunno del Duemila esplode la seconda Intifada: Bashar mette subito in chiaro che non intende più negoziare con Israele. Un anno più tardi, l’attentato contro le Torri gemelle sconvolge i rapporti tra Stati Uniti e mondo islamico. Ma è soprattutto la trasformazione ideologica della politica estera statunitense, l’avvento della cosiddetta “dottrina Bush” a spiazzare il giovane Assad: «Le regole del gioco stavano cambiando», racconta il suo biografo David Lesch, «ed erano dettate dall’amministrazione Bush in maniera tale da escludere la Siria dal gioco».
Quando il premier libanese Rafiq Hariri viene ucciso, nel febbraio del 2005, tutti gli occhi sono puntati su Damasco.
Le pressioni internazionali aumentano. Bush e Chirac rilasciano una dichiarazione congiunta chiedendo il ritiro immediato delle truppe siriane dal Libano. Germania, Arabia Saudita e persino la Russia esortano il regime a cedere. Messo con le spalle al muro, Assad annuncia che il suo esercito lascerà completamente il territorio libanese «entro i prossimi due mesi». Manterrà la promessa. Isolato dal mondo arabo, preso di mira dall’Occidente e sconfitto sul terreno dove era più forte, il Libano, Bashar sembra un uomo finito.
A Damasco, tuttavia, il fronte rimane compatto. Anzi, il giovane Assad consolida il suo potere epurando una serie di esponenti della vecchia guardia. Sopravvissuto al peggio nel 2005, Assad trova la sua rivincita nell’anno successivo. In Iraq gli americani si trovano in un pantano: George W. Bush è umiliato. Esplode il conflitto tra Hezbollah e Israele che si conclude con un Libano nuovamente da ricostruire e più di mille vittime, ma per Hezbollah è una vittoria morale e strategica. Bashar vive la vicenda come un successo personale. Pensa di avere sconfitto Israele. E, soprattutto, si convince di essere riuscito laddove suo padre aveva fallito ben due volte.
Chi ha conosciuto Assad riferisce che queste vicende hanno avuto un grande impatto sulla sua personalità. «Alla fine del 2007, Bashar si sentiva vendicato», racconta il suo biografo. «Una volta superate queste pressioni, Bashar ha cominciato a sentirsi completamente invincibile» racconta l’ex consigliere Ayman Abdel Nour, che è stato allontanato insieme ad altre voci critiche proprio in quel periodo. «Assad pensava di potere fare qualsiasi cosa senza pagarne il prezzo, dopotutto aveva sconfitto Bush e Chirac! Non sentiva più il bisogno di avere consiglieri e neppure tecnocrati. Non tollerava più le critiche. Ha affidato l’esercito a suo cognato Assef Shawkat, la sicurezza a suo cugino Hafiz Makhlouf, e la valutazione dell’economia al suo altro cugino Rami Makhlouf e sua moglie Asma».
La Siria, ancora più di prima, diventa un’azienda di famiglia. Se Bashar, il figlio non prediletto di Hafiz, ha trascorso i primi anni della sua presidenza schiacciato dal timore del confronto con il padre, il convincimento di averlo non solo eguagliato, ma addirittura superato, produce in lui un’ubriacatura di potere. Un delirio di onnipotenza di cui presto pagherà il conto una nazione intera.
* estratto da Il Macellaio di Damasco. Bashar al Assad, biografia di un tiranno che non voleva esserlo (VandA ePublishing, illustrazione in copertina di Hanoch Piven)